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pittorica e i miti e le suggestioni consolidate dalla letteratura. La Venezia
restituita dal cinema nel corso del XX secolo è infatti ora una città lugubre e
misteriosa, sede di intrighi e corruzioni, ora luogo di immutabile e solare bellezza,
ora cartolina romantico-sentimentale, ora simbolo di decadenza e morte. Nel
filmare la città la maggior parte dei cineasti si è lasciata affascinare dai luoghi
“caratteristici” (sia “minori” che più celebri), quelli più rappresentativi a livello
simbolico, basta pensare che non esiste film, girato nel centro storico, che non
proponga almeno un’immagine di Piazza San Marco o della sua cornice
monumentale. La città spesso è dunque diventata un semplice “set a cielo aperto”,
ideale cornice scenografica di mille vicende o struggente specchio dell’animo di
personaggi sempre diversi, la maggior parte dei quali però giunge a Venezia
dall’esterno. I film infatti che raccontano le storie di personaggi “veneziani” sono
pochissimi e inevitabilmente il punto di vista dominante sulla città rimane quello
superficiale del visitatore, del turista di passaggio, non quello di chi la vive e la
vede dall’interno, nella sua complessità, nelle sue contraddizioni e nei suoi mille
problemi.
L’aspettativa dunque che ogni turista oggi porta con sé è per gran parte
fondata sull’immagine di Venezia tramandata dal cinema e amplificata, ai giorni
nostri, dalla televisione e i nuovi media. Ma è la città stessa che oggi si sta
identificando sempre più nella sua immagine cinematografica. La gestione del
turismo, ormai diventato l’unica attività redditizia in città, sta favorendo sempre
più un rapporto tra Venezia e il suo visitatore basato esclusivamente sullo
sfruttamento della sua immagine più bassa, banale, mercificata. Un’immagine
“mordi e fuggi”, da consumare come un panino in un fast-food e da replicare
sempre uguale all’infinito attraverso gli obiettivi di milioni di fotocamere e
videocamere amatoriali. La città diventa dunque pura rappresentazione, semplice
immagine, incarnazione di luoghi comuni.
5
Il presente lavoro, basato su un’approfondita ricerca filmografica, vuole essere
un tentativo di sistematizzazzione dei principali stereotipi ripresi o creati dal
cinema nelle sue varie interpretazioni di Venezia, ma, soprattutto, vuole cercare
un’immagine “Altra” della città, proponendo sia una rivalutazione di opere di
minor fama e di scarsa diffusione, sia una rilettura di alcuni film molto noti e
apprezzati da un vasto pubblico. Lo scopo è quello di scoprire gli autori e le
opere che hanno cercato un’interpretazione di Venezia lontana dai luoghi comuni,
raccontando la città da una prospettiva interna, smentendo i facili stereotipi
radicati nell’immaginario collettivo o puntando le cineprese sugli angoli più
sconosciuti della città.
Il primo capitolo è uno sguardo introduttivo sul particolare rapporto tra il
cinema e la città (intesa come realtà urbana in generale), che affonda le sue radici
nelle origini stesse del cinematografo. Nel corso della sua storia il cinema ha
accompagnato e descritto lo sviluppo dei centri urbani e la loro esplosione in
realtà metropolitane, adottando approcci sempre diversi e contribuendo a
costruire quell’immaginario che influenza fortemente la nostra percezione, ma
anche la realtà stessa di ogni città.
Il secondo e il terzo capitolo affrontano l’esempio singolare di Venezia,
ricostruendo il ricco catalogo di stereotipi che ne hanno alimentano l’immagine
cinematografica (capitolo due) e analizzando quelle pellicole che hanno invece
restituito una visione alternativa, meno superficiale, non necessariamente più
vera, ma sicuramente più orientata a descrivere un’ “Altra” Venezia (capitolo tre).
Augè scriveva:
“porsi il problema della città immaginaria vuol dire dunque,
in fin dei conti, porsi la doppia questione dell’esistenza della
città e dell’esistenza dell’immaginario nel momento in cui il
tessuto urbano si estende, in cui l’organizzazione dello spazio
sociale si modifica, e in cui le immagini, le stesse immagini, si
6
diffondono su tutta la Terra. Significa, inoltre, porsi il problema
delle condizioni attuali dell’esistenza quotidiana. Possiamo
ancora, in senso proprio, immaginare la città in cui viviamo,
farne il supporto dei nostri sogni e delle nostre attese?
1
”
Con questo lavoro si è cercato di dare una risposta alla sua domanda.
1
M. Augè, Disneyland e altri nonluoghi, Torino, 1999.
Capitolo 1
LA CITTA’ E IL CINEMA
Le città come i sogni sono costruite di desideri e di paure,
anche se il filo del loro discorso è segreto, le loro regole assurde,
le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne nasconde un’altra.[…]
Le città credono d’essere opera della mente o del caso,
ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura.
D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie,
ma la risposta che dà a una tua domanda.
Italo Calvino, Le città invisibili
1. Cinema città aperta
Fra cinema e città esiste, da sempre, un rapporto di implicazione fondativa.
Fin dalle sue origini la settima arte trova concreta espressione nel rapporto con la
realtà urbana. Siamo infatti nel 1985, quando i fratelli Lumière proiettano
L'arrivèe d’un train en gare de la Ciotat: il primo pubblico è composto dai
cittadini di Parigi, la prima sala cinematografica è un caffè di Boulevard des
Capucines e il primo soggetto riprodotto è l’arrivo di un treno in città. Il cinema
dunque approda figuratamente e fisicamente in città dando vita a un rapporto di
ispirazione e influenza recipoca, tra i più fecondi dell’intero XX secolo.
7
In origine le riprese dei fratelli Lumière documentano paesaggi urbani europei,
sull’esempio sia delle monumentali ricognizioni fotografiche di Atget a Parigi e
dei fratelli Alinari in Italia, sia dei molti spettacoli ottici e pittorici (lanterna
magica, mondo nuovo, panorama, diorama), che in quegli anni godevano di
grande successo e popolarità. La vue cinématographique dei Lumière s’inscrive
in questa tradizione, offrendo ben presto un ricco catalogo di immagini da tutto il
mondo. La novità, rispetto alle raffigurazioni statiche precedenti, è rappresentata
8
dal movimento: per la prima volta abitanti di città diverse, lontane anche migliaia
di chilometri, si guardano vivere.
All’inizio dunque, come sottolinea Marco Bertozzi
2
, la veduta Lumière
riproduce la città sia nel senso di urbs, città di pietra, sia nel senso di civitas, città
degli uomini e delle relazioni tra di essi. La cinepresa infatti si sofferma sui centri
monumentali e sui luoghi più celebri di ogni città, ma l’attenzione si concentra
spesso sul viavai incessante degli abitanti, sul brulichio delle persone. Gli
operatori Lumière sembrano quasi stregati dalla “macchina città”, ma le loro
riprese rimangono statiche, ingessate in una continua ricerca della perfezione
fotografica. Si tratta di inquadrature fisse o di brevi e lineari panoramiche, che
ben si adattano alle forme architettoniche perfette e immutabili dei centri
monumentali, ma molto meno alla riproduzione della vita cittadina e di una realtà
urbana in pieno cambiamento.
Con l’evoluzione tecnica, lo sviluppo e la sperimentazione delle nuove
possibilità di “messa in quadro”, i livelli della rappresentazione cinematografica
arrivano ad abbattere le mura della città vedutista e portano alla nascita delle
sinfonie urbane. E’ il periodo delle avanguardie, in cui il cinema cerca di
svincolarsi definitivamente dall’influenza delle arti precedenti per trovare una
propria “purezza espressiva”, fondata unicamente su specifici cinematografici
(come angolazioni di ripresa, movimenti di macchina, ritmi di montaggio).
La rappresentazione della città abbandona definitivamente la tradizionale
iconografia pittorica per incontrare nuovi linguaggi e infinite potenzialità
espressive. Con la nascita del genere delle sinfonie urbane il cinema dimostra di
essere lo strumento più adatto a dare voce alla modernità metropolitana. Se le
vedute erano espressione dell’urbs, d’ora in poi il cinema diventerà il miglior
interprete della metropolis. “La nuova dimensione spazio-temporale che il
2
M. Bertozzi, L’occhio e la pietra, Torino, 2003.
9
linguaggio del film ha introdotto trova una sorta di inerenza originaria nelle
nuove esperienze, nelle nuove forme di espressione del cittadino metropolitano
3
”.
Lo spettatore, nel buio della sala cinematografica, può rivivere, attraverso lo
scorrere della pellicola, il flusso ininterrotto di stimoli sensoriali proprio della
città moderna, caratterizzato dalla dimensione della frammentarietà e della
discontinuità. Il campo esplorato è contraddistinto dalla sovrapposizione e dal
mutamento del visibile, e dal suo ampliamento: sintomaticamente l’occhio del
cinema che guarda la metropoli divide, collega, “monta”, ma selezionando
ritrova anche ricorrenze e ritorni dalla valenza simbolica. Registrazione e
attribuzione di senso sembrano porsi come due versanti complementari del
rapporto tra cinema e grande città.
Walter Ruttman inaugura il filone delle sinfonie urbane nel 1927 con Berlino,
sinfonia di una grande città (1926), in cui il cineasta tedesco applica i risultati
dei suoi studi sul ritmo e sul sincronismo sonoro e visivo effettuati nelle sue
prime opere (Opus I-V). Si tratta di un documentario, che, attraverso il racconto
di una giornata nella capitale tedesca, mette in scena il dinamismo della nascente
metropoli e il mito della “bellezza della macchina”.
Massimo teorico delle sinfonie urbane è il russo Dziga Vertov, che elabora tra
1918 e 1922 le teorie del cineocchio (kinoglaz). Vertov è convinto assertore di un
cinema non-narrativo, capace di interpretare la realtà più autentica registrandola,
rigorosamente al di fuori dei teatri di posa, attraverso l’occhio della cinepresa,
considerato di gran lunga superiore a quello umano. Il cineasta russo unisce il
radicalismo politico con la ricerca formale e, mediante l’occhio della macchina
da presa e il successivo montaggio, mira a decifrare i fatti per renderli
intelleggibili nel loro contesto sociale. Il suo film-manifesto è L’uomo con la
macchina da presa (1929), in cui Vertov ricostruisce la cronaca di una giornata
nella città di Odessa, ripresa da un operatore capace di realizzare degli effetti
3
G. Tinazzi, La sinfonia della metropoli, in P. Bertetto, G. Celant, Velocittà. Cinema e futurismo, Milano,
1986.
10
visivi strabilianti, secondo una logica di scomposizione e ricomposizione delle
immagini di matrice costruttivista-futurista. La realtà urbana viene riprodotta
attraverso l’organizzazione del movimento delle cose nello spazio, grazie
all’utilizzo di un insieme artistico-ritmico conforme alle proprietà del materiale e
al ritmo interno di ogni cosa. Ogni ipotesi o illusione mimetica deve cadere, la
volontà è quella di svelare l’artificiosità, la non ingenuità del meccanismo di
riproduzione, che viene esibito, non occultato.
Nel cinema degli anni Venti e Trenta si notano alcuni elementi ricorrenti,
caratteristici delle nascenti realtà metropolitane. La folla, che per Vidor fagocita
l’individuo (La folla, 1928), è presente sia in Ruttmann che in Vertov, nella sua
essenza di movimento e mescolamento di classi sociali. La dialettica città-
campagna è ricorrente e rappresentata in modo diverso, dal puro contatto tra
uomo e natura dei film di Flaherty (L’uomo di Aran, 1934) alla città come unica
realtà onnicomprensiva di Vertov (L’uomo con la macchina da presa). Tra questi
due estremi si inseriscono tutte quelle opere che hanno rappresentato il critico
passaggio dal mondo rurale a quello urbano-industriale, con finalità di volta in
volta diverse: introspettive, (Aurora di Murnau, 1927), ideologiche (Sciopero,
1924, La corazzata Potëmkin, 1925, Il vecchio e il nuovo, 1928, di Ejzenštejn) e
di critica socioeconomica (Tempi moderni di Chaplin, 1936). Il tema del lavoro,
soprattutto quello in fabbrica, è quindi una costante ed è frequente in particolare
l’identificazione tra ritmo della città e ritmo dell’attività lavorativa. Ma la
descrizione della città è anche descrizione della società, come dimostra L’âge
d’or (1930) di Luis Buñuel, in cui all’inizio assistiamo alla fondazione della città
e poi al crollo di Roma. La città è ancora luogo del simbolico, anzi di
stratificazione del simbolico, è il luogo di significazioni generali, come la
convivenza o il contrasto tra il vecchio e il nuovo, il rapporto spazio-tempo come
in Paris qui dort (1923) di Renè Clair o l’opposizione tra città e natura, come nel
suo surreale Entr’Acte (1924), che scopre i paesaggi urbani come territorio di
gioco logico-strutturale e che propone già la sparizione del personaggio nel
11
paesaggio. Ma non manca la presenza di alcuni topoi classici, come la casa da
gioco, la roulette, con tutto l’apparato di rimando al denaro, all’azzardo al caso o
al corruttibile (si pensi a A propos de Nice di Vigo del 1930, o a L’argent di
L’Herbier del 1928).
Analoghe visioni, anche se espresse in modo completamente diverso,
emergono anche da Metropolis, realizzato da Fritz Lang nel 1926. Il film esce
nello stesso anno di Berlino, sinfonia di una grande città, ma per molti versi
costituisce l’altra faccia dell’atteggiamento con cui guardare la città. Lang
preferisce la deformazione alla registrazione, la ricostruzione al vero, lo spazio al
movimento, il chiuso all’aperto, l’oppressione alla visività distesa
4
. Il suo
affresco ingenuo e visionario, ambientato nel 2026 descrive un assetto urbano a
strati, coincidente con una rigida separazione di classe. Gli operai sono relegati
nel sottosuolo, al di sotto delle fabbriche, le residenze dei padroni svettano
invece ai piani più alti, in un tripudio di giardini pensili e piccoli paradisi terrestri.
Metropolis ricostruisce quindi da zero un’ipotetica megalopoli del XXI secolo,
una città fantascientifica, che si sviluppa in verticale e che si fa concreta
espressione delle disuguaglianze sociali. La città immaginata da Lang diventa
fonte d’ispirazione principale per le metropoli ricostruite in film più vicini a noi,
come Blade Runner (Ridley Scott, 1982) o Il quinto elemento (Luc Besson,
1997). Metropolis inaugura dunque un altro modo di guardare alla città,
complementare rispetto al genere inaugurato da Ruttmann. L’oggetto-città, da
questi punti di vista lontani, viene descritto e analizzato nella sua complessità: “la
città è al massimo del suo sviluppo prima della sua disgragazione, Metropolis e il
film di Ruttmann sono la sua oggetivazione perfetta
5
”.
Un atteggiamento diverso rispetto alla retorica di Metropolis si trova in un
cortometraggio di Buster Keaton del 1920, One Week. Nel film il comico
americano racconta i primi sette giorni del suo matrimonio, e in particolare la
4
Ibid.
5
In Cinema città avanguardia 1919-1939, ciclostilato, Biennale di Venezia, 1974.
12
costruzione della sua nuova casa, in perfetto stile decostruttivista. Le scenografie
ricordano da vicino quelle bizzarre e contorte dei film espressionisti tedeschi,
come Il gabinetto del dottor Caligari (R. Wiene, 1920) e Destino (F.Lang, 1921).
Altri grandi comici nel corso degli anni si sono dedicati alla parodia della città
e dell’architettura moderna, come critica di una società votata alla standardiz-
zazione e all’omologazione. Da Charlie Chaplin, nel già citato Tempi moderni e
ne Il grande dittatore (1940), a Jacques Tati in Mio zio (1958) e Play Time
(1967), dove l’oggetto è l’aberrante utilizzo dell’architettura moderna. Lo stesso
Tati per Play Time fece ricostruire ex novo un quartiere immaginario di Parigi,
dominato da grattacieli, vetrate, scritte al neon e pavimenti di lucidissimo marmo,
e dove la città autentica si può solo intravedere, alla stregua di un miraggio,
riflessa sulle porte a vetri.
Nel passaggio dalla città europea preindustriale, compatta nella sua forma
urbis all’interno dell’antica cerchia di mura, all’odierna metropoli, in continua
espansione attraverso lo sviluppo delle periferie, è stata fondamentale la
testimonianza del neorealismo italiano. Com’è noto il cinema neorealista nasce
come reazione a quello artificioso e propagandistico del ventennio fascista, e,
uscito dai teatri di posa del regime, trova nella città e nella descrizione dei guasti
della guerra e del degrado delle periferie uno dei suoi strumenti più efficaci.
Come sostiene Sandro Bernardi
6
nella sua efficace classificazione delle tipologie
di rapporto tra cinema e paesaggio, il neorealismo italiano dà inizio al tempo
della riflessione. Lo sguardo del cinema non va alla semplice riscoperta del
mondo, ma si divide tra lo spazio narrativo della storia e il luogo reale, tra il mito
e la vita quotidiana; è la mescolanza di due sguardi, quello del narratore e quello
della cinepresa; dietro la messa in scena e le storie ancora tadizionali compare la
cinepresa che guarda il mondo. Il film che funge da spartiacque è Roma città
6
S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, 2002.
13
aperta (1945) di Rossellini, in cui già nella soggettiva di Pina, che osserva le
case bombardate, si riscontra uno sguardo nuovo, che rompe con la tradizione.
Altri film significativi nel modo diverso di raccontare la città sono Paisà (1946) e
Germania anno zero (1948) di Rossellini e Sciuscià (1946) e Ladri di biciclette
(1948) di Vittorio De Sica. Quest’ultimo dipinge una Roma tra le più terrificanti
della storia del cinema, raccontando il percorso di Antonio Ricci attraverso le
zone più degradate della città (i casamenti di Valmelaina, il mercato delle
biciclette, la mensa dei poveri, il bordello).
“Sono le tappe successive di una simbolica discesa in un
mondo primordiale. […] Questa Roma, a volte orribilmente
piena e pullulante di folle anonime, altre volte paurosamente
desolata, sembra respirare come un organismo vivente, sembra
pulsare di una sua vita dannata e sublime
7
.”
L’eredità del neorealismo verrà raccolta e arricchita di nuovi significati dagli
autori italiani successivi come Fellini, Antonioni, Visconti, Pasolini, Olmi e
Bertolucci. Il lavoro di questi cineasti documenta l’evolversi delle città italiane
nel dopoguerra: dalla Roma di Fellini in La dolce vita (1960) e nel successivo
Roma (1972) a quella di Pasolini in Accattone (1961) e Mamma Roma (1962);
dalla Milano di Visconti in Rocco e i suoi fratelli (1960) e di Antonioni in La
notte (1960) alla Napoli di Rosi in Le mani sulla città (1963). Tra tutti forse
quello che opera la riflessione più interessante e approfondita sull’importanza del
paesaggio, dell’ambiente in cui agisce l’uomo, è Michelangelo Antonioni. Il
regista ferrarese, come evidenzia Bernardi, opera infatti uno stravolgimento dei
canoni e delle convenzioni cinematografiche del cinema classico, soprattutto per
quel che riguarda il rapporto tra figura e sfondo (che cosa stiamo guardando?) e
la complicata questione dei punti di vista (chi guarda?). Se infatti il cinema
7
Ibid.
14
narrativo precedente imponeva una rigida grammatica filmica basata sul senso
dello spazio, sulla centratura dell’immagine intorno a una figura e sul sistema di
montaggio e di attribuzione degli sguardi, Antonioni compie l’esatto opposto. Lo
sfondo salta avanti, il protagonista scivola nello sfondo o fuori campo. Si
smarrisce l’oggetto della rappresentazione, che spesso sembra coincidere con lo
spazio stesso della narrazione. In questo modo lo spazio filmico diventa luogo
puro e semplice e acquista un significato autonomo. Inoltre lo sguardo viene
disorientato, spesso troviamo il personaggio in un punto diverso rispetto a quello
in cui dovrebbe stare; scavalcamenti di campo, raccordi sconnessi e false
soggettive rendono confuso il rapporto tra chi guarda e chi è guardato, tra
soggetto e oggetto. L’uomo non è più al centro dell’universo cinematografico.
“Il cinema di Antonioni costruisce architetture devianti, in cui
ci si perde, molto simili peraltro a quelle architetture urbane
labirintiche presenti nei suoi film, dalla strana fabbrica dipinta
de Il deserto rosso (1964) alla curiosa città deserta, metafisica
de L’avventura (1960), alla swinging London colorata di Blow
Up (1966), alle architetture contorte del Parque Guell di
Professione: reporter (1975)
8
”
Le celebri immagini di apertura de Il deserto rosso sono quelle di una fabbrica,
descritta come un organismo vivente, dipinta con colori sgargianti a contrasto
con la grigia realtà circostante, una sorta di rappresentazione di una “natura
artificiale”, caratteristica della nuova città e del mondo moderno. Questa serie di
inquadrature è un chiaro ricordo di Metropolis, come capiamo anche dalla parete
blu piena di orologi, davanti alla quale stanno gli operai dei giorni nostri. Altri
grandi registi si ricorderanno di questa lezione antonioniana, come Tarkovskij nel
8
Ibid.
15
suo Stalker (1979) e Ridley Scott nel suo Blade Runner, che inizia proprio con
una veduta di Los Angeles del 2019 cosparsa di ciminiere fiammeggianti.
La cinematografia americana del doguerra produce interessanti interpretazioni
dello spazio urbano. La città si carica di nuovi significati e il senso forte della sua
presenza può essere descritto proprio attraverso la sua assenza. Carol Reed ne Il
terzo uomo (1949) ambienta molte sequenze nei sotterranei di Vienna, scenario
cupo e allegorico della crisi della metropoli contemporanea. Alfred Hitchcock
gira La finestra sul cortile (1954) interamente all’interno di una corte, dove gli
echi della città si fanno ancor più evidenti attraverso un uso sapiente dei segni
visivi e sonori, e lo stesso maestro americano fa rientrare i molteplici aspetti della
vita cittadina che animano le vicende di Nodo alla gola (1948) all’interno di
un’unica stanza. Orson Welles dialoga apertamente con l’architettura e ne fa un
uso molto importante del linguaggio nelle scenografie di Quarto potere (1941),
nelle atmosfere diaboliche de L’infernale Quinlan (1958) e nei meandri de Il
processo (1962). Ma la vera esplosione della città, come agglomerato delle
contraddizioni di una società in crisi, comincia con gli anni Sessanta. Il cinema
americano non sfrutta più solo l’aspetto esaltante della metropoli, ma scende
negli slums, nei quartieri poveri, nei ghetti, come dimostrano i film di John
Cassavetes, Arthur Penn, Robert Kramer. Inoltre col ’68 si apre la stagione dei
film di grave denuncia sociale come Un uomo da marciapiede (1969) di John
Schlesinger o Non torno a casa stasera (1969) di Francis Ford Coppola.
La città viene affrontata in modo ancora diverso dalla Nouvelle Vague
francese. Alain Resnais affronta la paura della sua distruzione e scomparsa come
riflesso della psicologia umana in Hiroshima mon amour (1959), Jean-Luc
Godard si cimenta nella rappresentazione della Parigi contemporanea, con la sua
intensità vitale, in Fino all’ultimo respiro (1960), e della Parigi del futuro, nella
sua realtà alienante e omologante in Agente Lemmy Caution: missione Alphaville
16
(1965). Chabrol, come afferma Jean Douchet
9
, nei suoi due film del 1958 Le
beau Serge e Les cousins tratta in un modo nuovo il tema città-campagna. La
campagna non è più vivibile, è diventata luogo di colpa (Le beau Serge) o causa
di insuccesso (Les cousins) e pertanto non è più possibile pensarla nella sua
purezza originale. Rivette immagina una città trappola, luogo di intrighi e di
complotti nel suo Paris nous appartient (1959). Rohmer vede la città come il
territorio della solitudine assoluta e ne Il segno del leone (1959) Parigi è mostrata
come un deserto morale, sociale, psichico. Tra tutti gli autori della Nouvelle
Vague soltanto Truffaut, parigino di nascita, difende la città, come descrive bene
Douchet:
“Dans Les Quatre Cents Coups (1959) le jeune héros fait de
la ville une complice, une amie. En revanche, la campagne où il
est relégué lui devient prison. Ce discours sera constant chez lui.
L’Enfant sauvage (1970) développe l’idée que la nature est
indifférente en soi. Seule la société, donc la civilisation, donc la
ville, est réellement nécessaire à l’homme, fait l’homme
10
.”
In Germania si torna a rivolgere l’attenzione alla città con i registi del Nuovo
cinema tedesco. Tra questi vi è colui che, ancora oggi, può essere considerato
uno dei più grandi cantori della città di tutti i tempi: Wim Wenders. Con
Wenders la percezione della città passa ancor più attraverso un insieme di segni e
tracce che tutti insieme vanno a costituire un patchwork cosmpolita. Dai suoi
primissimi cortometraggi è evidente come il regista tedesco entri subito in
sintonia con l’ambiente cittadino, attraverso la modernità del suo sguardo
fotografico. In Silver City (1969), per esempio, la macchina da presa osserva in
9
J. Douchet, La ville tentaculaire, in Cités-Cinés, Ramsay et la Grande Halle, La Villette, 1987.
10
“Ne I Quattrocento colpi il giovane protagonista rende complice e amica la città. In compenso, la
campagna dove viene relegato diventa la sua prigione. Questo concetto sarà presente in maniera costante
in Truffaut. Il ragazzo selvaggio sviluppa l’idea che la Natura di per sé è indifferente. Solo la società,
quindi la civilizzazione, dunque la città è realmente necessaria all’uomo, fa l’uomo”. (Ibid.).
17
plongée un incrocio alla periferia di Monaco. Nel suo primo lungometraggio
Summer in the city (1970) lancia il suo personaggio principale, un nomade
urbano che anticipa gli eroi wendersiani futuri, personaggi che vagano per una
città o tra più città diverse, mettendo in scena il tema del viaggio come ricerca
esistenziale (Alice nelle città, 1973; Falso movimento, 1974; Nel corso del tempo,
1975). Con L’amico americano (1977) mette a confronto tre metropoli: Amburgo,
Parigi e New York. La concezione dei suoi paesaggi sembra corrispondere
sempre più allo stato d’animo dei protagonisti dei suoi film, come dimostrano
Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (1980) e Lo stato delle cose (1982), fino al
deserto con cui si apre Paris Texas (1984), chiaro specchio della deriva
esistenziale di Travis. Il cielo sopra Berlino (1987) è considerato giustamente
uno dei capolavori dell’autore tedesco. Con intense riprese a volo d’uccello la
capitale tedesca è osservata dall’alto, con il suo muro-cicatrice e le sue rovine-
stimmate. “Con Fino alla fine del mondo (1991) Wenders definisce il passaggio
dall’abitante della metropoli a un essere indistintamente onnipolitano: il mondo è
una città continua
11
”. Le città attraversate nel corso del film, Venezia, Lione,
Parigi, Lisbona, Mosca, Tokyo, San Francisco diventano un’unica enorme
metropoli trapuntata dalle medesime immagini. La stessa Lisbona sarà poi
oggetto del leggiadro e disinvolto Lisbon Story (1995), dove appare indicativo il
motto ben visibile nella stanza del protagonista: “Ah não ser eu toda a gente e
toda a parte” (“Ah, non essere tutte le persone di tutti i luoghi”). Wenders
privilegia aree sottratte alla pianificazione, territori deserti e desolati o zone
abitate in preda al caos e al disordine, come dimostra La terra dell’abbondanza
(2004); per l’autore tedesco è nel regno delle possibilità che la città vive,
nell’apporto eterogeneo di pensieri, attività e architetture diverse, come afferma
lui stesso raccontando della sua esperienza giapponese:
11
M. Bertozzi, op. cit.