Introduzione
L’Italia rappresenta per molte persone la scelta privilegiata quando si tratta di migrazione, a volte
con l’intenzione di cercare stabilità a lungo termine, a volte come luogo di transito temporaneo
prima di raggiungere altri Paesi europei. Le motivazioni per lasciare la propria patria possono essere
molteplici e differenziate ma, in circa 10.000 casi ogni anno, il principale fattore di spinta è la
propria identità sessuale che, nel Paese d’origine, può costituire causa di discriminazione,
esclusione sociale, violenza, abusi, detenzione o perfino pena di morte. Nonostante questo, l’Italia
non raccoglie dati statistici sulle ragioni che spingono i/le richiedenti asilo a presentare domanda di
protezione internazionale, così come la maggior parte degli Stati dell’Unione Europea. Gli unici
dati relativi alle migrazioni SOGI (Sexual orientation and gender identity) risalgono al periodo
compreso tra il 2005 e il 2008 e contano 54 richieste, ma nel frattempo sono cambiati i numeri, le
prassi, le associazioni che si occupano di migranti LGBTQ+ (Lesbian, Gay, Bisexual, Transgender,
Queer), le legislazioni statali, le normative europee sull’accoglienza e la generale percezione sociale
dell’alterità. I dati ufficiali sembrano quindi non stare al passo con i cambiamenti giudiziari, geo-
politici e culturali degli ultimi anni, e il concetto di identità intersezionale continua ad essere
trascurato anche in ambito accademico, rimanendo prerogativa di singole associazioni che, da sole,
non possono contribuire a generare un miglioramento significativo delle pratiche d’accoglienza
delle minoranze sessuali se non inserite all’interno di un progetto più ampio che coinvolga diverse
figure professionali e molteplici campi disciplinari.
Questo elaborato prende quindi vita dalla necessità di indagare l’esperienza dei/delle migranti
LGBTQ+, ancora troppo trascurata dalle ricerche nazionali, intendendo per migrante LGBTQ+
qualsiasi persona che abbia affrontato un viaggio fisico, dal proprio Paese fino ad una terra
sconosciuta, e metaforico, da un modo di vivere la propria identità ad un altro, portando con sé il
bagaglio di un’identità sessuale o di genere ritenuta non-conforme.
In particolare si porteranno alla luce, attraverso uno sguardo intersezionale, le dinamiche
discriminatorie derivanti dall’appartenenza ad una minoranza etnica e sessuale, sia nel contesto
socio-culturale di partenza che in quello di arrivo. Il genere e la razza saranno le chiavi analitiche di
riferimento che orienteranno la narrazione dell’esistenza di persone che si collocano “oltre”: oltre
una presunta normalità stabilita da un dispositivo di potere patriarcale, oltre il binarismo di genere,
oltre costrutti occidentali che tentano di porre limiti a possibilità identitarie senza confini.
Il presente lavoro si configura quindi come tentativo di smantellare la rigidità binaria delle categorie
identitarie, basate sull’opposizione uomo-donna, bianco-nero, cisgender-transgender, eterosessuale-
omosessuale, con cui si tende a percepire gli altri e il mondo circostante a causa di meccanismi
psicologici di categorizzazione inevitabili ma pericolosi. L’obiettivo non è abolire le definizioni, ma
renderle in grado di restituire legittimità e riconoscimento ad ogni identità anziché castrare le
possibilità dell’essere, seguendo un principio di autodeterminazione del sé.
Il primo capitolo metterà in relazione la fragilità identitaria post-moderna, resa inconsistente dalla
precarietà di un mondo senza punti di riferimento, con la necessità di elaborare processi cognitivi di
difesa da ciò che è “diverso” e che, in quanto tale, spaventa perché in grado di mettere in
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discussione gli schemi interpretativi che forniscono un senso di orientamento nella complessità del
mondo. Si analizzerà il fenomeno del pregiudizio e dello stereotipo sotto la lente del genere e della
razza, di cui verrà contestata la presunta naturalità attraverso un’analisi longitudinale e trasversale
che avrà come riferimento teorico i queer studies e gli studi post-coloniali; questi ultimi verranno
infine fatti convergere in una prospettiva intersezionale che, partendo dalla “sovrapposizione di
disuguaglianze”, nasce con l’obiettivo di abbattere dinamiche di potere tanto consolidate quanto
contingenti e socialmente determinate.
Nel secondo capitolo saranno prese in considerazione le condizioni di vita dei/delle migranti SOGI
nel Paese d’origine, contestualizzandole in un quadro geo-politico più ampio che farà emergere le
caratteristiche della battaglia culturale e valoriale in atto tra l’universo di significato occidentale e
quello del Sud e dell’Est del mondo. Verrà analizzata l’influenza dell’omofobia istituzionalizzata
negli apparati legislativi dei singoli Stati e delle conseguenze della stigmatizzazione sociale laddove
essere omosessuali o trans* è considerato riprovevole, una pratica demoniaca che viola la morale
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comune e i valori religiosi locali. Infine, saranno prese in considerazione le pratiche d’accoglienza
che regolano le sexual migrations (Carrillo, 2004), portandone alla luce le contraddizioni e i punti
di forza, sia nel contesto europeo che in quello italiano. In particolare, l’attenzione sarà concentrata
sui processi di vulnerabilizzazione che prendono forma in una dinamica di potere non paritaria, che
vede una Commissione influenzata da paradigmi euro ed etero-centrici giudicare sull’autenticità di
narrazioni biografiche con elementi queer e appartenenti a culture “altre”.
Infine, il terzo capitolo cederà la parola a coloro che vivono in prima persona l’appartenenza ad una
doppia minoranza, restituendo la voce a soggetti che vengono troppo frequentemente silenziati da
narrazioni cis-eteronormative di matrice occidentale, rimanendo coerente con i principi generali
dell’elaborato secondo cui la visione di una persona bianca, cisgender ed eterosessuale sarà
necessariamente intrisa di tutti quei pregiudizi e privilegi che, più o meno inconsciamente, andranno
ad influenzare il modo di pensare e di scrivere. Il lavoro di ricerca è stato inoltre svolto partendo
dalla consapevolezza della difficoltà degli impianti teorici di applicarsi ai casi reali, data la
difficoltà di fornire una spiegazione esaustiva ed universale riguardo fenomeni così complessi,
personali e mutevoli. A questo scopo, sono state effettuate delle interviste qualitative semi-
strutturate a 13 persone del gruppo target, con l’obiettivo di mostrare un’immagine dell’esperienza
dei/delle migranti SOGI che sia il più fedele possibile alla realtà, intrisa di dettagli, ricordi, storie
personali e percezioni soggettive. La speranza sarà anche quella di mostrare come etichette etniche
e sessuali simili tra loro possano implicare biografie individuali estremamente diversificate,
distaccandosi notevolmente dalle idee stereotipate che contribuiscono a modellare immagini distorte
e omologate.
Qui e per tutto l’elaborato sarà utilizzata la parola trans* come termine-ombrello per indicare
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contemporaneamente persone transgender, transessuali e non-binary. È stato scelto il termine trans* perché
in grado di riferirsi a diverse identità e superare allo stesso tempo il dibattito terminologico tra le definizioni
di transgender e transessuale, ribadendo comunque l’importanza dell’autodeterminazione quando si parla di
persone appartenenti alla comunità LGBTQ+. Per questo motivo, nell’elenco degli/delle partecipanti alla
ricerca nel terzo capitolo, saranno ripresi anche i termini transgender, transessuale o semplicemente trans, in
base alle preferenze auto-definitorie della persona intervistata.
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Capitolo 1. Il prisma identitario post-moderno sotto la lente di genere
e razza
1.1 L’inconsistenza dell’identità contemporanea e i processi cognitivi di difesa
Il contesto fluido e malleabile tipico di una società sempre più multiforme, globalizzata e
interconnessa rischia di far sentire l’uomo e la donna post-moderni in balia di un ambiente
impossibile da controllare in quanto privo di punti di riferimento stabili. Di conseguenza, prende
forma una sensazione di disancoramento dalla realtà che provoca una profonda insicurezza insieme
all’indebolimento delle proprie radici identitarie, la cui risoluzione si cerca spesso nel conflitto con
ciò che è “diverso”, “altro da noi”, con l’obiettivo di affermare il proprio sé, nascondendone le
fragilità e la poca consistenza. La decadenza delle strutture sociali tradizionali ha condotto ad una
crisi generale che ha avuto un forte impatto non solo sulle proprie identità, ma anche sul modo di
concepire le relazioni interpersonali, le nazioni, le pratiche politiche e diversi attori sociali, tra cui le
famiglie. Il contrasto tra le proprie appartenenze e l’universo più ampio a cui Internet e i media
offrono accesso produce domande su se stessə e sulle interpretazioni del mondo tipiche delle
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proprie mappe di significato: si genera così una contraddizione tra la libertà conosciuta online e la
ristrettezza delle regole interiorizzate durante i processi di socializzazione, tra le proprie definizioni
di “donna”, “uomo”, “famiglia” e quelle che provano ad affermarsi a livello mondiale, tra le
caratteristiche tipiche del locale e del globale.
In questo contesto, un sedativo alle incertezze è rappresentato da etichette e definizioni. Oscar
Wilde scriveva che «Definire è limitare», Luigi Pirandello che «Il nome conviene ai morti, a chi ha
concluso […] La vita non conclude. E non sa di nomi, la vita.» ma oggi, sempre più spesso, è
proprio quel “limitare” a rappresentare un porto sicuro, un sollievo, un punto fisso a cui ancorare la
propria percezione della realtà, di se stessə e deglə altrə. Tale strategia ordinatrice, oltre ad essere
illusoria, provoca alcuni fenomeni dannosi: il tentativo di imporre un’unica definizione del mondo
circostante (quella propria dell’uomo bianco, cisgender, eterosessuale); la delineazione di confini
che pongono una barriera tra sé e le altre persone, generando divisioni, conflitti e discriminazioni; e
la riproduzione di pregiudizi e stereotipi che guidano la percezione umana, rischiando di cadere in
un’eccessiva e spesso dannosa semplificazione. Si tratta di meccanismi psicologici e sociali che
scaturiscono da una necessità di organizzare il caos che governa la realtà, con il suo overload di
informazioni, idee, immagini, culture, persone e identità; meccanismi di cui non è possibile fare a
meno perché non si può evitare l’esigenza di orientamento all’interno della complessità, ma di cui è
Scelgo di utilizzare qui e per tutto il testo, attraverso il simbolo ə, una declinazione gender neutral per un
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linguaggio più inclusivo, coerente con gli argomenti e gli scopi del trattato, che possa rappresentare
contemporaneamente uomini, donne e persone non-binary. La scelta del simbolo schwa, rispetto ad altre
soluzioni comunemente usate come “u”, “x” o “*”, deriva dal suo potere simbolico di identificare una vocale
intermedia e un suono neutro, oltre che da semplici preferenze stilistiche per una maggiore facilità di lettura.
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necessario prendere consapevolezza per poter mettere in discussione la presunta assolutezza e
universalità delle categorie concettuali che guidano il proprio pensare ed agire.
Il tentativo di salda affermazione della propria identità rappresenta una strategia di rassicurazione di
fronte l’incertezza, soprattutto quando sostenuta dalla sensazione di appartenere ad una categoria di
“simili” contrapposta ad un gruppo “diverso” e, per questo, antagonista. Quest’ultimo verrà
percepito come sbagliato, culturalmente e moralmente inferiore, e sarà lo strumento attraverso cui
porre ogni elemento negativo verso l’esterno, fuori da sé e dal proprio gruppo. È in questo quadro
che si inseriscono le dinamiche in-group/out-group, che permettono di “cristallizzare” un senso di
sé ormai fluido e in perenne mutamento attraverso la continua conferma del proprio universo
culturale, mediante il riconoscimento intersoggettivo tra individui simili tra loro.
La Social Identity Theory mette in evidenza come la formazione di gruppi sia una spontanea
tendenza umana, potenzialmente causa di conflitti e discriminazioni, conseguenza di bias cognitivi
che portano a percepire l’in-group come dotato naturalmente di caratteristiche positive e altamente
differenziato al suo interno, e l’out-group come un gruppo monolitico e omogeneo a cui vengono
attribuite caratteristiche negative e ostili. La SIT individua tre processi collegati tra loro, che
contribuiscono alla costruzione dell’identità sociale e che permettono di indirizzare le ricerche su
fenomeni come razzismo, conflitti inter-gruppo e marginalizzazione sociale:
a) Categorizzazione, intesa come processo cognitivo di raggruppamento di persone, eventi,
oggetti, che vengono considerati equivalenti sotto alcuni punti di vista , e che porta ad una
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minimizzazione delle differenze tra elementi appartenenti alla stessa categoria e
sopravvalutazione di quelle tra categorie contrapposte;
b) Identificazione, che costituisce la base psicologica per la determinazione della propria identità
sociale, la quale prende forma dalla molteplicità di appartenere che legano l’individuo a gruppi
differenti;
c) Confronto sociale, messo in atto in modo sistematico e continuativo tra il proprio in-group e un
out-group scelto come bersaglio del confronto e che, a causa dell’operare di bias valutativi,
viene considerato “peggiore” e “inferiore”.
Stereotipi e pregiudizi possono essere considerati contemporaneamente causa e conseguenza delle
dinamiche in-group/out-group, in un circolo vizioso senza soluzione di continuità che contribuisce
alla sua stessa riproduzione.
Partendo da un’analisi etimologica, il termine pre-giudizio fa riferimento ad un giudizio emesso
senza avere a disposizione dati sufficienti, perché precedente all’esperienza. Le scienze sociali
arricchiscono tale definizione evidenziando come i pregiudizi si manifestino più spesso in presenza
di particolari gruppi sociali, più che di fronte a fatti o eventi, e come tendano ad essere sfavorevoli e
penalizzanti per l’oggetto sottoposto a giudizio.
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Il fenomeno dello stereotipo viene introdotto nelle scienze sociali da Walter Lippman negli anni
Venti, per indicare le immagini mentali con cui si rappresenta e semplifica la realtà; infatti, la mente
M. Bruno, L'Islam immaginato. Rappresentazioni e stereotipi nei media italiani, Milano, Guerini
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Scientifica, 2008, p. 35
B.M. Mazzara, Stereotipi e pregiudizi (versione Kindle), Bologna, Il Mulino, 1997, sez. 1
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umana non è in grado di elaborare l’enorme complessità del mondo, le sue infinite dinamiche,
caratteristiche, informazioni, e instaura con esso un rapporto conoscitivo indiretto e mediato.
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Pregiudizi e stereotipi sono caratterizzati da una forte stabilità, che dipende sia dalle funzioni
cognitive e sociali che svolgono, (adattamento sociale, giustificazione dell’in-group,
decodificazione, prescrizione di regole di comportamento, semplificazione della realtà…), sia dalla
tendenza umana a ricercare la conferma delle proprie credenze, ad esempio attraverso i meccanismi
propri della selettività, con l’obiettivo di ridurre quella che Leon Festinger definisce «dissonanza
cognitiva». Dunque, seppur nella maggior parte dei casi false e in disaccordo con l’esperienza, tali
rappresentazioni distorte tendono a permanere nel tempo e ad autorafforzarsi, soprattutto nella loro
versione implicita e latente, e di fatto a plasmare azioni, atteggiamenti, pensieri, parole e la realtà
nel suo complesso.
1.2 La decostruzione di genere e razza tra queer studies e studi post coloniali
Una volta preso atto dell’inevitabilità di stereotipi e pregiudizi e compreso il loro funzionamento, si
può procedere nella direzione opposta del percorso che conduce alla loro formazione: anziché unire
e omologare, è possibile decostruire. La consapevolezza della soggettività e contingenza delle
proprie visioni del mondo può passare solo attraverso un processo di decostruzione della razza e del
genere, categorie identitarie che da sempre costituiscono pilastri fondativi del sé. Un simile
processo è possibile attraverso un’analisi longitudinale che permette di cogliere l’evoluzione di tali
costrutti e metterne in evidenza l’essenza di artefatti sociali e culturali, e un’analisi trasversale ai
diversi luoghi geo-politici e contesti socio-culturali, che offre la possibilità di evidenziare la
parzialità del modo di pensare occidentale, troppo spesso ritenuto l’unico legittimo e valido
universalmente.
Ogni individuo, ancora prima di nascere, è inevitabilmente genderizzato: il genere rappresenta «ciò
che definisce il soggetto prima di ogni sua capacità di autodefinirsi, così come di rinegoziare quella
definizione, o di sottrarvisi». In questo senso, si viene al mondo già inseriti in uno schema
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simbolico-valoriale che definisce una serie di aspettative su modelli comportamentali futuri, ruoli
sociali e possibilità di potere. La decostruzione del genere consente di chiedersi quanto il
comportamento “tipico” maschile e femminile sia determinato da caratteristiche genetiche e innate,
e quanto condizionato da elementi della cultura di appartenenza e appreso nei processi di
socializzazione primaria e secondaria; ma anche quanto, e in che modo, i meccanismi di
autoavveramento possano contribuire a riprodurre quegli stereotipi di genere che vedono l’uomo
Ivi
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Il genere tra neoliberismo e neofondamentalismo, a cura di F. Zappino, Verona, Ombre Corte, 2016, p. 13
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