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psicanalisi ha via via modificato la propria teoria classica, ha allargato le sue
mire, ha affinato le proprie tecniche terapeutiche.
Il secondo paradigma ci viene proprio dall’universo borderline: l’interesse
per questa sindrome non è affatto recente, anche se è da solo qualche decennio
che il termine in questione è diventato di uso comune tra psicologi,
psicanalisti, psichiatri e psicoterapeuti. Uno dei motivi, come sottolinea
Migone, che muove questo paradigma è che questo fenomeno, proprio perché
situato a metà strada tra nevrosi e psicosi, è stato occasione di scontro tra
discipline non proprio vicine, quali la psichiatria e la psicanalisi (la prima
mirante a curare esclusivamente le psicosi, la seconda le nevrosi). Ne è
risultato così che i professionisti del settore, trovandosi di fronte a questi
strani pazienti, si son ritrovati a rivedere i limiti delle teorie di riferimento e a
“confrontare le proprie armi con quelle del nemico”. Il tutto, a mio modesto
parere, a beneficio della scienza, poiché è stato possibile cercare di trovare un
terreno comune di comprensione del disturbo. Ed è quello che sta accadendo
al giorno d’oggi, in cui si tende ad escludere un unico modello teorico e
terapeutico circa la comprensione e la cura della patologia al fine di adottare
un modello multidisciplinare.
E lo scopo di questa tesi di laurea è proprio questo: cercare di fare un po'
più di luce su questa affascinante e controversa caratteristica della psiche
umana.
A Voi tutti una cordiale lettura.
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Studi
9
Capitolo 1
Aspetti evolutivi del termine “borderline”
Trattandosi di un disturbo di personalità, prima di passare in rassegna gli
autori che contribuirono a diffondere tale termine, val la pena soffermarsi
brevemente sull’origine del termine personalità. Il concetto scientifico di
personalità (derivante dal latino persona, cioè maschera, personaggio teatrale),
si ha per la prima volta in Francia nella II
a
metà dell’800, per descrivere i
fenomeni ipnotici e di dissociazione della coscienza (Danziger, 1997). Fu in
modo particolare T. Ribot nel 1885 che cominciò ad intendere lo studio della
personalità seguendo un’ottica naturalistica e scientifica: secondo
quest’autore, infatti, al fine di una maggior comprensione dei fenomeni
psichici si doveva ricorrere all’uso della fisiologia e della patologia. Egli
vedeva l’indagine clinica come un esperimento di laboratorio, e come tale
necessitava di uno studio sistematico condotto mediante osservazioni cliniche.
William James (1890) la utilizza in un’accezione generale, descrivendo stati di
rivalità e conflitto nella coscienza di sé e fra differenti personalità. In tal senso
la salute, psichica, individuale, viene a costituirsi come un prodotto della
relazione fra le diverse componenti della personalità, nel loro equilibrio
dinamico. Ma ritorniamo al tema centrale di questa tesi.
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Il termine “borderline” comparve nello studio di Adolph Stern del 1938 per
descrivere quei soggetti fondamentalmente narcisisti, ipersensitivi,
potenzialmente a rischio di reazioni negative alla terapia e con lacune
nell’esame di realtà: questi aspetti verranno sviluppati più avanti. Prima di
allora soltanto Rosse (1890) parlò esplicitamente di “borderline insanity” nel
definire quei casi umani oscillanti tra ragione e follia. La questione sull’uso
del termine, e la sua nascita come patologia, derivò da una parte dall’entrata in
scena della psicanalisi ad inizio secolo ad opera di Sigmund Freud (in
particolar modo grazie all’opera del 1914 “Introduzione al narcisismo”)
2
, e
dall’altra dall’evolversi della tassonomia psichiatrica, con i lavori di Emil
Kraepelin ed Eugen Bleuler sulla schizofrenia.
Il legame assai poco chiaro e mutevole proprio con questa malattia diede
luogo, nell’arco di più di quarant’anni, a più definizioni: “psicosi latente”
(Bychowski), “schizofrenia latente” (Rorschach), “schizofrenia atipica”
(Kasanin), “schizofrenia frusta” (Wizel), “schizofrenia reversibile” (Bleuler),
“schizofrenia ambulatoriale” (Zilboorg), per citarne solo alcune… Appare
chiaro, quindi, quale eterogeneità concettuale del fenomeno esistesse negli
anni che precedettero il lavoro di Otto Kernberg del 1967 e la conseguente
realizzazione del DSM-III del 1980.
Il lavoro compiuto da Stern del ’38 faceva notare come esistessero un
ampio gruppo di pazienti non identificabili né dai criteri diagnostici delle
psicosi, né tanto meno da quello delle nevrosi; descrisse così una decina di
sintomi clinici, tra i quali spiccavano il narcisismo, la scarsa tolleranza alle
frustrazioni e sentimenti d’insicurezza radicati nel profondo; questi tratti si
2
Fu in questo lavoro che il medico viennese affrontò e distinse due grandi gruppi di nevrosi, di
transfert e narcisistiche, le prime trattabili col metodo psicanalitico a scapito delle seconde, poiché
incapaci di sviluppare un transfert analitico.
11
ritroveranno poi in tutti i lavori di quegli autori che affronteranno la tematica
della sindrome marginale.
Uno studio interessante compiuto pochi anni dopo quello di Stern fu quello di
Helene Deutsch del 1942 sulle “personalità come se”: qui l’autrice descrisse
una forma di carattere all’apparenza normale, ma che ad un’analisi più
approfondita rivelava un grave disturbo di personalità caratterizzato
dall’assumere le caratteristiche delle persone con cui il soggetto si stava
relazionando.
Il secondo lavoro per ordine d’importanza in questo campo fu un articolo
scritto da Robert Knight nel 1953 sugli “stati borderline”: l’autore pose per la
prima volta l’accento sulla struttura personologica (ripresa poi da Kernberg),
a scapito del quadro sintomatologico, comunemente usato fino ad allora.
Knight poneva così l’attenzione sulla forte debolezza dell’Io, in particolar
modo nei “processi di pensiero secondario, la capacità d’integrazione, l’esame
di realtà, il mantenimento delle relazioni oggettuali, l’adattamento
all’ambiente e le difese contro impulsi inconsci primitivi” (Knight, 1953).
Quest’autore tuttavia sottolineava come queste debolezze non raggiungessero
quell’indebolimento catastrofico proprio degli stati psicotici.
Un’altra pietra miliare nell’evoluzione del concetto di borderline fu il
lavoro svolto da Roy Grinker e coll. nel 1968. Sebbene di formazione
psicanalitica, Grinker ebbe come obiettivo della ricerca la definizione di
comportamenti ben identificabili e valutabili necessari alla diagnosi di
disturbo borderline. Furono presi in esame 51 soggetti ospedalizzati con grave
patologia psichica non riconducibile alla schizofrenia. I dati ottenuti (basati
sull’osservazione di comportamenti osservabili) permisero all’equipe di
Grinker di arrivare a delineare quattro sottogruppi distinti di personalità
borderline, a loro volta raggruppabili in due grandi classi: la prima
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caratterizzata da relazioni interpersonali intense, affettività negativa e
tendenza all’acting-out mentre la seconda era molto simile alla “personalità
come se” descritta da Deutsch
3
. Tutti i sottogruppi erano caratterizzati da
sentimenti di rabbia (quale affetto principale), relazioni interpersonali intense
ma disturbate, un senso pervasivo di vuoto e solitudine e infine la sensazione
di una discontinuità nella propria identità.
Siamo così giunti ad esaminare il lavoro di Otto Kernberg.
Risale ad un articolo del 1967 la pubblicazione che diede un punto di svolta
nell’ottica del fenomeno borderline: in “Borderline Personality Organization”
(J. am. Psychoanal. Ass., vol. 15, 641-85) identificava in pazienti con
un’eterogeneità di sintomi dei più vari (fobie multiple, sintomi ossessivi-
compulsivi, spunti paranoidi, forte ansia sempre presente, ecc.) come facenti
parte di una modalità caratteriale e stabile nel tempo.
Sono quattro gli elementi discriminanti presenti in questa struttura di carattere
delineati dall’autore:
• una debolezza dell’Io;
• la tendenza del predominio del processo primario e i
• conseguenti meccanismi di difesa arcaici (primo fra tutti la scissione);
• relazioni interpersonali disturbate.
Il 1974 fu l’anno della pubblicazione degli studi svolti uno psicologo
francese, J. Bergeret. L’autore transalpino colloca la patologia borderline (o
struttura di personalità casi limite, come lui la chiama) a metà strada fra
nevrosi e psicosi, sottolineandone l’aspetto meno rigido, meno solido e
3
Erano caratterizzati da un adattamento passivo alle circostanze e la tendenza all’identificazione con
modelli comportamentali stereotipati.
13
definitivo
4
; inoltre tende a focalizzare la propria attenzione più sulle
dinamiche intrapsichiche che sugli aspetti sintomatologici.
Concetto cruciale è quello di Io anaclitico, una modalità di funzionamento
dell’Io del soggetto che, in condizioni di minaccia di perdita dell’oggetto,
provoca una forte angoscia che può dar luogo a reazioni psicotiche brevi e
transitorie. Collegato al concetto di Io anaclitico è la costante presenza di
un’angoscia depressiva di perdita dell’oggetto, caratterizzante il modo d’agire
(e le relative relazioni interpersonali) di questo carattere.
Il 1975 vide la pubblicazione di uno studio di due autori che proseguivano
idealmente quello svolto da Grinker qualche anno prima:
J. G. Gunderson e M. T. Singer. Essi identificarono, in base ad una revisione
della letteratura clinica relativa alla tematica borderline, una serie di
caratteristiche presente in essa, la quale portò così alla costruzione di
un’intervista semi-strutturata (Diagnostic Interview for Borderline, DIB,
Intervista Diagnostica per i Borderline, poi successivamente rivista, DIB-R).
Gunderson trovò così sette caratteristiche discriminanti tale disturbo:
i) relazioni interpersonali instabili e intense;
ii) comportamento autodistruttivo;
iii) paura di abbandono;
iv) disforia cronica;
v) distorsioni cognitive;
vi) impulsività;
vii) scarso adattamento sociale.
4
Un Io nevrotico preorganizzato (e, analogamente, un Io psicotico preorganizzato) rimane nel quadro
d’appartenenza e si organizzerà in modo definitivo secondo la relativa linea di strutturazione,
nevrotica o psicotica che sia. Iter impossibile, secondo Bergeret, con la struttura di personalità degli
stati limite.
14
Il suo merito principale sta nell’attendibilità della metodica proposta,
riducendo il grosso ostacolo dell’inferenza da parte di chi esamina il soggetto
5
.
Il 1979 fu l’anno in cui si prepararono le basi per far rientrare questo
disturbo nel manuale dell’A.P.A., il DSM-III
6
(che vedrà la luce un anno
dopo): il compito fu affidato a R. L. Spitzer.
Il termine borderline era fino allora applicato in due situazioni nosografiche
differenti: una riferita a disturbi del comportamento, dell’affettività e del
pensiero (un’area clinica molto vicina alla schizofrenia), l’altra inerente per lo
più a un versante caratteriale (riferita principalmente ai lavori di Kernberg e
Gunderson). Spitzer pensò quindi di inserire la patologia in questione nell’asse
II (disturbi di personalità) e di mantenere distinti con criteri diagnostici
separati le relative concezioni nosografiche; formulò così due gruppi, la
condizione borderline schizotipica e la borderline instabile.
Nel DSM-III
7
questi due termini presero il nome, rispettivamente, di disturbo
schizotipico di personalità e disturbo borderline di personalità.
5
Secondo Stone, 1980 (e citato anche da Migone, 1990), seguendo la diagnosi proposta da Kernberg
1/10 circa della popolazione risulterebbe esser diagnosticata come disturbo di personalità borderline,
dato che scende a 1/30 adottando la DIB di Gunderson.
6
Nel DSM-II (1968) i pazienti ritenuti borderline venivano, in genere, classificati come schizofrenici
latenti.
7
Riporto qui gli otto criteri diagnostici necessari alla diagnosi di disturbo di personalità borderline
(ometto volontariamente quelli relativi al disturbo schizotipico perché esulano dal lavoro in corso)
secondo il DSM-III (1980): 1) rapporti interpersonali instabili e intensi; 2) impulsività; 3) instabilità
dell’umore; 4) rabbia intensa ed inappropriata; 5) comportamenti fisicamente autolesivi; 6) disturbo
d’identità; 7) sentimenti cronici di vuoto e di noia; 8) difficoltà a tollerare la solitudine.