71
CAP. 4 DOCUMENTARIO PUNK IERI E OGGI
È arrivato il momento di soffermarci sull’opera documentaristica e su come questa ha
testimoniato da un lato lo svolgersi della scena punk e utilizzato dall’altro la logica e
l’estetica del movimento per creare un tipo di cinema che potremmo definire esso
stesso “punk”. Ho scelto di concentrarmi su nove opere che considero imprescindibili
per una definizione di “documentario punk” e che permettono inoltre di capire come il
documentario ha cambiato il suo approccio all’argomento in tre periodi differenti: il
primo è quello contemporaneo al movimento inglese, quindi del triennio ’76-’79; il
secondo momento è quello della fase intermedia e riguarda film realizzati negli anni
’80 quando i registi volgono lo sguardo ad un passato prossimo per cercare di tirarne le
somme; il terzo e ultimo lasso di tempo è quello più vicino a noi, con tre opere degli
anni zero che hanno riacceso il fuoco del punk accedendo ai recessi della memoria e
del repertorio. Le opere riguardano tutte il punk inglese del triennio nevralgico e la
selezione dei documentari si basa sul radicamento dell’opera nell’immaginario punk,
sulla sua importanza nella costruzione dell’immagine dei musicisti e come icona del
movimento stesso, e, infine, sull’originalità e innovazione nel linguaggio. Ho voluto
focalizzarmi inoltre sulle due band fondamentali della scena e sulle opere a loro
dedicate per costruire un discorso coerente che permetta di far scaturire le differenze e
lo omologie nelle opere dei vari periodi. Queste due band sono, ovviamente, i Sex
Pistols e i Clash. Oltre a questi abbiamo dei documentari non biografici che presentano
in linea generale la sottocultura e che servono da spunto per comprendere come è stata
coperta dai media la scena, sia a livello esterno che interno, con un’opera realizzata
dalla televisione inglese. Di questi film tre sono, per ovvi motivi, del cineasta punk per
eccellenza, Julien Temple, e due del dj Don Letts, che ha vissuto a stretto contatto con
i Clash e il Roxy Club. Si cita qui en passant un’ulteriore opera, non propriamente
documentaristica, ma definita dal regista un “documentario di fantasia”, ovvero
Jubilee, film punk per eccellenza che abbiamo scelto di non approfondire per non
allontanarci troppo dal fulcro del nostro lavoro.
72
Per analizzare i documentari punk ho scelto di utilizzare il metodo proposto da
Umberto Mosca nel suo Cinema e rock.
133
Con un approccio quanto più possibile
trasversale, ho cercato di allontanarmi dalla logica della critica musicale che molti
studiosi hanno adottato per parlare del rockumentary e ho usato invece gli strumenti
della critica cinematografica, considerando ogni singolo film come creazione artistica,
prodotto industriale e bene immateriale di consumo. Ho scandagliato le singole opere
cercando di far emergere dalla loro complessità le peculiarità e i significati non
immediatamente visibili. Ogni film rock è una visione del rock a sé che propone in
maniera differente un racconto, dei personaggi, degli ambienti, delle inquadrature,
delle scenografie, delle luci e dei suoni diversi. Ci interessa dunque analizzare i
documentari per comprendere qual è stata la loro funzione in relazione alla scena
musicale, come essi hanno rappresentato i musicisti, qual è il punto di vista del regista
e quali sono i punti di collegamento con i generi del cinema e i film di riferimento, in
modo da comprendere meglio il significato sociale della musica punk e il rapporto tra
punk, cultura giovanile e pop.
“Cinema d’autore più di quanto non si ammetta comunemente, il rockumentary si
istituisce su prototipi realizzati da alcuni fra i migliori filmakers americani del
[cinema] diretto.”
134
Il termine che unisce “rock” a “documentary” indica appunto che
ci troviamo di fronte a opere che hanno la musica rock, i protagonisti, le storie e le sue
leggende come materia. Il termine viene modellato su quello di mockumentary,
documentari su avvenimenti fittizi,
135
a volte dei veri e propri film di culto se non
d’autore, come nel caso di Forgotten Silver (Peter Jackson, 1995). Il falso e spassoso
documentario This Is Spinal Tap (Rob Reiner, 1984) non è solo il film per cui per la
prima volta viene usata l’etichetta di “mockumentary”, ma è anche il primo in cui si
riporta la definizione di “rockumentary”: un finto regista vuole realizzare un
documentario, un “rockumentary” appunto, riprendendo il tour in America della band,
133
Cfr. Introduzione a Umberto Mosca, Cinema e rock – Pop culture e film d’autore, immaginario giovanile e
“visioni” del mondo, Torino, Utet Università, 2008.
134
Roberto Nepoti, Storia del documentario, Bologna, Pàtron, 1988, p. 130.
135
O “produzion[i] autonom[e] di realtà secondo le apparenze più universalmente accettate del documentario”
come li definisce Nepoti nel testo citato (p. 174) riferendosi a Zelig (Woody Allen, 1983).
73
anch’essa falsa, Spinal Tap.
136
Potremmo racchiudere, rifacendoci in parte ad Adrian
Wootton,
137
il rockumentary in tre sottocategorie principali: il film-concerto, il genere
più caratteristico che spesso unisce alla performance live spezzoni di reportage sulle
sottoculture, il documentario monografico che inquadra band o personaggi del mondo
del rock in un arco temporale più o meno lungo, e il rocku-fiction, un documentario
con innesti dal cinema di finzione (o viceversa). Della distinzione tra “fiction” e “non-
fiction” si è parlato a lungo, spesso cadendo in complicate argomentazioni che mai
riescono a sbrogliare una questione in verità inestricabile: il cinema del reale e il film
di finzione sono sin dagli albori a stretto contatto. Per tale motivo è azzardato
affermare che quello di Robert Flaherty, il primo regista di documentari d’autore, sia
una cinema dalla mano “invisibile” mentre quello di Dziga Vertov sia un cinema in cui
la manipolazione la fa da padrone pur essendo un autore di documentari che inneggia
alla “vita colta alla sprovvista”. Ne L’uomo con la macchina da presa (Chelovek s
kino-apparatom, 1929) la presenza del regista è ovunque e, soprattutto in fase di
montaggio, il regista sovietico sembra voler mostrare il suo stesso gesto, ma anche il
“lirico” Nanuk l’eschimese (Nanook Of The North, 1922) risente dell’ingerenza di
Flaherty, che a volte interviene sugli elementi profilmici per garantire la massima
veridicità, coerenza e resa estetica nel risultato finale.
138
Forse il documentario
totalmente dal vero non esiste, o dovremmo cercarlo semmai in un’opera come
quell’Empire (1964) di Andy Warhol
139
che per otto ore consecutive riprende la parte
superiore dell’omonimo edificio di New York, se non nelle opere degli albori del
cinema, quelle dei Lumière che riprendono un treno in arrivo in stazione o l’uscita da
136
Cfr. Simone Arcagni, Rockumentary: uno sguardo sul genere, in Diego Del Pozzo, Vincenzo Esposito (a cura
di), Rock around the screen – Storie di cinema e musica pop, Napoli, Liguori, 2009, p. 85. In verità l’origine di
entrambi i termini è ambigua: alcune fonti riferiscono ad esempio che il termine “mockumentary” è stato coniato
negli anni ’60, mentre quello di “rockumentary” nel ‘69 dalla rivista “Rolling Stone” per descrivere il contenuto
della trasmissione radiofonica History of Rock & Roll, e solo in un secondo momento verranno resi popolari dal
film di Rob Reiner (https://en.wikipedia.org/wiki/Mockumentary - https://it.wikipedia.org/wiki/Rockumentary).
Umberto Mosca invece in Cinema e rock afferma che il termine “rockumentary” è stato coniato in relazione al
film Woodstock (vedi p. 64).
137
Cfr. Adrian Wootton, The Do’s and Don’ts of Rock Documentaries, in Jonathan Romney e Adrian Wootton (a
cura di), Celluloid Jukebox: Popular Music and the Movies Since the 50’s, Londra, British Film institute, 1995.
138
“In alcuni casi Flaherty ha fatto ricorso a una vera e propria messa in scena. Poiché l’igloo era troppo piccolo
perché l’operatore vi si potesse muovere agevolmente, e vi era poca luce, venne edificato un nuovo igloo, finito
solo a metà, per girare le scene di interno, che in questo modo sono state realizzate con una scenografia costruita
ad hoc, non diversamente da un film di Hollywood” [da Paolo Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del
cinema: autori, film, correnti, Torino, Utet Università, 2002, p. 295].
139
Da un’idea di John Palmer, con la fotografia del “padrino del cinema d’avanguardia americano” ed esponente
del New American Cinema, Jonas Mekas.
74
una fabbrica a macchina fissa. Ma allora il termine “documentario” non esisteva
nemmeno e qualsiasi definizione creata a posteriori e appiccicata a un passato ancora
vergine non credo sia mai degna di nota.
Nel documentario il segno filmico non è in grado di rappresentare l’oggetto, ma solo una sua
prospettiva. Il film è costretto comunque a registrare uno scarto tra il rappresentato e il
discorso, tra la materia da organizzare e la sua organizzazione significante.
140
Il documentario musicale può mettere d’accordo le due tipologie di regia perché
l’autore è sempre visibile al pubblico del live e alla band, ed interviene
professionalmente nella performance sulla base di contratti e autorizzazioni, ma allo
stesso tempo è invisibile allo spettatore in quanto autore “impersonale”. Il film-
concerto in particolare, che nasce dalla crisi del musical hollywoodiano e come sua
ultima e più radicale forma evolutiva, si può dire che appartenga sia all’ambito del
cinema diretto sia a quello di fiction. Nel rockumentary la distinzione tra fiction e non-
fiction si fa più labile perché
ogni film-concerto è pur sempre la registrazione di uno spettacolo. [...] In questo contesto che
rientra nell’ambito della finzione, anche i musicisti indossano la maschera di performers-attori
perché, pur essendo ripresi mentre svolgono il loro lavoro di concertisti, sono pur sempre
all’interno di quell’universo predeterminato.
141
Il carattere performativo del live viene quindi a collidere non solo con il soggetto o
l’ambientazione pensati dal regista, con la dimensione narrativa o concettuale alla
base, e con l’invasione del campo da parte della macchina da presa, ma con la stessa
artificiosità interna al mondo della musica in quanto rappresentazione. I performers
sono sempre attori che subiscono un mutamento della loro personalità quotidiana nel
momento in cui entrano in scena. Il cineasta rock ha però il potere di mostrare il non-
visibile: una tipologia di film-concerto, il tour concert movie, ci fornisce l’accesso al
backstage, il luogo in cui la maschera del performer sbiadisce e il contatto col fan si fa
più stretto. Addentrandoci nello spazio privato ci viene presentato il musicista nella
sua essenza, nella realtà oltre lo spettacolo. Allo stesso tempo, però, la prossimità
estrema non fa che accentuare la distanza tra fan e star, rendendo quest’ultima
intoccabile. Inoltre, come possiamo ad esempio notare nel rockumentary per
eccellenza, ovvero Dont Look Back (1967) di Donn Alan Pennebaker, le riprese nel
140
Roberto Nepoti, op. cit., p. 16.
141
M. Debora Farina, Rocumentary and concert films, Faenza, Cinetecnica, 2002, p. 18-19.
75
dietro le quinte non garantiscono la veridicità del personaggio, dato che Dylan sembra
sempre recitare una parte. Personaggio quest’ultimo, come il David Bowie a cui lo
stesso Pennebaker dedica Ziggy Stardust And The Spiders From Mars (1973)
142
,
inafferrabile nel suo passare da personaggio a personaggio come un vero e proprio
attore. Non è un caso che lo stesso Dylan verrà diviso in sei diverse personalità nel
film biografico di Todd Haynes Io non sono qui (I'm Not There, 2007). La “persona”
nel mondo dello spettacolo diventa indivisibile dalla sua maschera, per tale motivo il
termine stesso (in latino “persona” stava appunto per “maschera”)
143
risulta quanto mai
calzante. Nei documentari di Pennebaker e in molti rockumentary, abbiamo tre livelli
su cui la macchina da presa si sposta: il teatro del live, il fuori-teatro dove i fan si
raccontano e i camerini dove il personaggio si presenta in maniera più o meno
genuina. L’intervista poi, elemento imprescindibile dei documentari monografici,
partecipa nell’intento di rivelare l’aspetto più privato del musicista, con un sguardo più
trasparente sul suo universo.
Secondo M. Debora Farina
144
dalla metà degli anni Settanta il film-concerto, a parte
alcune eccezioni, perderebbe la carica ideologica e sociologica che aveva avuto negli
anni Sessanta. I documentari di grandi eventi alla Woodstock – Tre giorni di pace,
amore e musica (Woodstock, Michael Wadleigh 1970),
145
in cui l’etica e l’estetica
andavano di pari passo per costruire una testimonianza oltre che un documento politico
per chi era lontano dallo stato di New York, fanno spazio a concert-movie che si
concentrano sulla teatralità dell’esibizione e sull’estetica della rockstar oltre che del
mezzo cinematografico stesso. I film sui grandi eventi erano una sorta di estensione
della musica e giocavano col medium cinematografico adottando anche forme
sperimentali (vedi lo split screen in Woodstock), ma con la fine del sogno e
dell’innocenza hippy lo stesso “senso di perdita” diviene spesso il protagonista dei
documentari: My Generation (Barbara Kopple, 2000), percorrendo il festival di
Woodstock nelle edizioni del ’69, del ’94 e del ‘99, è un esempio di questa ricerca
nostalgica di un passato ormai troppo lontano, ma è anche la testimonianza di un
142
“31 August 1979 (theatrical world premiere)” (da Wikipedia).
143
https://www.etimo.it/?term=persona
144
Cfr. M. Debora Farina, op. cit., p. 170-175.
145
Il film vince nel 1970 l’Oscar come miglior documentario e viene presentato al Festival di Cannes, decretando
l’ingresso del film rock nel gotha del cinema d’arte.
76
presente che di quel movimento condivide ancora i sogni. Già dagli anni Ottanta il
film rock ha assunto una posizione più marginale rispetto al passato e il pubblico a cui
si rivolge si fa sempre più ristretto. Lo stile narrativo e il linguaggio proposti sono
inediti e il discorso si fa più complesso e meno adatto al grande pubblico poiché la
partecipazione attiva richiesta dallo spettatore è maggiore. In piena logica
postmoderna, il film rock dagli anni Ottanta consta di due livelli di fruizione, uno è
quello immediato e spettacolare, l’altro è quello più sofisticato e rivolto all’élite che è
in grado di leggere la rielaborazione del passato messa in atto e che conosce in modo
approfondito la scena e la musica di cui si parla. Il film biografico, o biopic, musicale
procede per la stessa strada, concentrandosi spesso sulla dimensione privata
dell’artista: in The Doors (Oliver Stone, 1991) e in molti biopic rock l’itinerario
biografico del musicista viene inserito in una storia sentimentale prediligendo un
approccio meno sociologico e più emotivo per avvicinare il pubblico non esperto
all’idolo e alle canzoni. Il cinema rock viene inoltre ridimensionato dall’avvento della
fruizione televisiva di musica,
146
diventando sempre più un accessorio dell’universo
videomusicale. Venendo meno gli ideali degli anni ’60 e ‘70 viene meno anche una
tipologia di documentario interessato al contesto storico, sostituito da altri che
preludono al jingle pubblicitario del videoclip. Il videoclip, forse la rappresentazione
simbolica per eccellenza della nostra epoca, nasce come costola del rockumentary e
del rock-movie, film in cui il musicista o la musica vengono inseriti nel contesto della
fiction. Don Letts, così come Julien Temple, filmakers ufficiali del punk, sono anche
importanti registi di videoclip: il primo realizza i video dei Clash,
147
il secondo gira nel
’77 God Save The Queen, oltre al già citato cortometraggio Number 1, per i Sex
Pistols.
La musica pop è intrinsecamente legata all’immagine, è l’immagine, al pari, e alle volte persino
di più, dei testi e delle sensazioni musicali, a offrire un immaginario popolare e di massa. Un
bisogno di immagine che trova nel cinema [...] fondamentalmente due modi di
rappresentazione: la rappresentazione documentaria e quella di fiction.
148
146
Il 1° agosto 1981 nasce il canale televisivo americano MTV, che esordisce con il video musicale Video Killed
the Radio Star dei The Buggles.
147
Come riportato nel sito ufficiale di Letts: “Il primo video fu realizzato per i PIL di John Lydon, seguito da
London Calling dei Clash (avrebbe continuato a fare tutti i loro video)” (trad. mia).
148
Simone Arcagni, Modi e forme di assunzione del cinema nel videoclip, in Luciano De Giusti (a cura di),
Immagini migranti – Forme intermediali del cinema nell’era digitale, Venezia, Marsilio, 2008, p. 182.
77
Nella storia dell’incontro tra musica e cinema è possibile cogliere la sintesi delle
espressioni collettive del secolo scorso. Ad ogni trasformazione nel linguaggio
musicale e alla relativa introduzione di idee sociali corrisponde un’elaborazione
cinematografica segnata da nuove invenzioni: il rockumentary ha rappresentato al
meglio la percezione comune delle poetiche, delle ideologie e di tutto l’universo del
rock. Conoscere la storia del documentario rock col suo valore artistico e la sua
importanza culturale, significa conoscere i movimenti giovanili, e il punk è uno di
questi. Il critico musicale Riccardo Bertoncelli attribuisce alla vaghezza e all’insieme
costituito tutto da opere minori, imprecise e anche di “stecche”, la peculiarità e la
bellezza dello stesso cinema rock.
149
Il film rock, parlando sempre di spiriti ribelli, non
può che essere sempre sperimentale, visionario, attento a creare nuovi legami tra
musica e immagini.
Il documentario punk, soprattutto quello degli esordi, ha la capacità di essere
“autentico” e di restituire la stessa autenticità della scena andando contro al mero fine
commerciale dei beni di consumo, come aveva fatto la musica di quella sottocultura.
Se “il documentarismo punk è uno dei momenti più esaltanti della storia del
rockumentary”
150
nessuno ci vieta di creare l’etichetta “punkumentary” per
sottolineare l’importanza che l’un per l’altro hanno avuto la sottocultura inglese e il
mondo del documentario. L’interesse di entrambi non è più quello degli anni
Cinquanta e Sessanta: ampliare il numero di spettatori con i film musicali e
promuovere i musicisti col cinema. Sicuramente c’è l’interesse di documentare un
periodo, ma il documentario punk non mira al pubblico di massa né vuole
pubblicizzare nessuno. In un periodo in cui il rock ha perso forse la sua potenzialità
ideologica e politica, la sua egemonia nel gusto collettivo, frammentato com’è in tante
piccole nicchie in cui ognuno può crogiolarsi sentendosi “diverso”, oggi una disamina
di questo cinema può aiutarci ad andare avanti prendendo spunto da uno dei periodi
più fertili della nostra storia culturale.
Come il cinema cerca di afferrare lo spirito del punk? Qual è la forma adottata dal
documentario per descrivere questa scena? Come viene percepito dall’immaginario
149
Cfr. Riccardo Bertoncelli, Introduzione al Rock’n’Roll Circus, in Simone Arcagni, Domenico De Gaetano,
Cinema e rock. Cinquant’anni di contaminazioni tra musica e immagini, Santhià, GS, 1999.
150
Simone Arcagni, Rockumentary: uno sguardo sul genere, op. cit., p. 95.
78
collettivo? Di sicuro il documentario, nel momento in cui si inserisce nell’ambiente
punk, sente il bisogno di adattarsi e di creare un’estetica peculiare che rispecchi la
scena. D.O.A.: A Right of Passage (Lech Kowalski, 1981) e The Punk Rock Movie
sembrano riprendere la logica del DIY e riportarla nel cinema con un’estetica
rudimentale, sporca, veloce come a testimoniare l’urgenza del messaggio. Nel
secondo, in particolare, il regista Don Letts riprende in mano i filmini girati in Super 8
qualche anno prima, quando lavorava come disc jockey in uno dei locali-culla del
punk inglese, il Roxy Club, creando un film-concerto che si allontana dalla prospettiva
antropologica di Wadleigh a favore di uno sguardo fenomenologico, in cui il caso e
l’improvvisazione la fanno da padrone, com’era per la stessa performance punk: Letts
riprende i gruppi nelle sale prove, nei tour bus, nei momenti genuini in cui sono fuori
dal palcoscenico, riprende le retate della polizia nei negozi di King’s Road, le pere nei
bagni, le parole dei fan dalla bocca “spillata” e lo spettacolo dell’autolesionismo.
L’utilizzo della Super 8, economica, maneggevole, alla portata di tutti, sottolinea
diverse analogie con la musica punk, sporca e sgranata. I primi documentari sul punk
si interrogano, com’era stato per il rock’n’roll degli anni Cinquanta, sulla natura della
nuova musica, sulle idee di cui si fa portatore, sugli interpreti, i fan e il loro modo di
presentarsi come sottocultura totalmente nuova. Spesso emergono dai film punk
immagini delle strade e degli edifici delle periferie di Londra, ribadendo l’origine
lumpen della scena: mi vengono in mente Punk in London (Wolfgang Büld, 1977),
Rude Boy (Jack Hazan, David Mingay, 1980), o la scena finale sotto i titoli di coda di
D.O.A., con base dub di Augustus Pablo, in cui quattro ragazzi si aggirano lungo un
ponte sullo sfondo della case popolari. La dimensione quotidiana, la vita concreta dei
discepoli del punk è in primo piano, con la loro rottura con il passato dal un lato e i
tentativi di “normalizzazione” mediatica dall’altro. Emerge il vissuto dei personaggi
punk con la loro urgenza di fare musica per dire qualcosa. Il cinema punk si scontra
con i tentativi di inquadramento attuati dai media ufficiali ed è sempre difficile
inserirlo nei generi dell’industria hollywoodiana. Emblematico è il caso di Rude Boy,
La grande truffa del Rock’n’Roll (e direi, con le dovute precauzioni, anche di Jubilee),
film che potremmo definire “quasi-documentaries” per il loro stare sempre al confine
tra la costruzione narrativa e la fedeltà al reale della scena. In Rude Boy i Clash sono
79
loro stessi quando provano in sala, quando suonano dal vivo e la band salta dalla
fiction al cinema del reale (per quanto possano essere “reali” dei musicisti) nell’arco di
poche scene. Una sequenza in particolare, quella del live della band di Strummer al
Rock Against Racism del ‘78, col protagonista del film, il roadie Ray Gange, che
interviene nella stessa performance portando la fiction all’interno del “vero”, è in
grado di creare un cortocircuito tra i due mondi, entrambi fittizi se vogliamo, quello
del palcoscenico e quello davanti alla macchina da presa, dimostrando ancora una
volta che il cinema punk, così come la musica, vorrebbe in un certo senso smascherare
il ruolo del rocker irraggiungibile e deificato. Siamo con i Clash sul palco, dietro di
loro, abbiamo il privilegio di conoscerli, di farci una chiacchierata con lo
Strimpellatore al bancone di un bar parlando di politica con lui. Lester Bangs fornisce,
in uno dei suoi articoli più belli, una visione di quello che hanno rappresentato i Clash
per il mondo della musica, sottolineando la vicinanza della band ai fan, la spontaneità
e il rifiuto del ruolo di divi:
I Clash sono talmente impegnati che sono dei veri militanti. [...] Invitano regolarmente i loro
fan a seguirli dopo i concerti e arrivano persino a farli dormire sul pavimento della loro stanza.
[...] Ora, caro lettore, non so quanto tempo tu abbia passato nei paraggi di gruppi rock di
primo piano - forse tu non sei d’accordo ma, nella maggior parte dei casi, meno tempo è,
meglio è – ma ti garantisco che il modo in cui i Clash trattano i loro fan è talmente fuori dalla
norma di quei rapporti da essere del tutto rivoluzionario. [...] Finalmente ci troviamo davanti a
un gruppo che non solo propugna qualcosa di buono, ma lo mette anche in pratica, che invece
di parlare di cambiamenti negli atteggiamenti sociali mette in pratica con la propria condotta il
modello di una società davvero egualitaria. [...] Intorno ai Clash aleggia una sensazione [...]
che è positiva in un modo che non ho mai percepito intorno a nessun altro gruppo, o quasi. [...]
Un qualcosa di morale e modesto, che emana vitalità e realizzazione di sé.[...] Clash = modello
per la Nuova Società, una società di gente normale.
151
È quello che si può vedere in una scena dei documentari The Clash: Westway to the
World (Don Letts, 2000) e Il futuro non è scritto - Joe Strummer (Joe Strummer: The
Future Is Unwritten, Julien Temple, 2007), in cui una sfilza di fan entra dalla finestra
del camerino su invito dello stesso Strummer. Contro l’industria musicale, le
montature pubblicitarie, il divismo o il buonismo, i Clash sbandierano l’arma
dell’onestà. E il tentativo di molti documentari punk è in sostanza quello di restituire
151
Lester Bangs, Guida ragionevole..., op. cit., p. 317-337. Non la pensa così Jack Hazan, il regista di Rude Boy,
che ad esempio dice di Joe Strummer: “He was completely amoral, I think. Nobody knew him. He was an
enigma. He wanted to keep it that way, I believe. Very attractive, but you didn’t know who he was” (dal sito del
giornale canadese “The Georgia Straight”).