1 Lo stato dell’arte
E’ un dato di fatto che stiamo vivendo in una società che inneggia alla
giovinezza attraverso i mass media, la pubblicità, prodotti per la bellezza e per la
salute. Anche la medicina e le migliori condizioni di vita acquisite
progressivamente fanno sì che si invecchi più lentamente, meglio, e si viva più a
lungo. Innumerevoli sono i trattati, gli studi, i dati sull’invecchiamento
progressivo della nostra società e sulle conseguenze socioeconomiche che
questo fenomeno sta causando. Si parla e si studia di tutto, dai problemi
dell’educazione dei bambini a come fare sì che gli anziani, quelli veri, quelli che a
ragion veduta si può dire che abbiano una “certa età” e specifiche esigenze ad
essa legate, possano sentirsi utili alla società o quanto meno non abbandonati
da essa. In realtà stiamo assistendo ad un processo di svecchiamento delle
società, proprio perché vivendo meglio e più a lungo le potenzialità stanno
aumentando. Come ha osservato Norberto Bobbio (1996) la soglia della
vecchiaia si è spostata di circa un ventennio quindi la vecchiaia non burocratica
ma psicologica comincia quando ci si approssima agli “ottanta”.
Di conseguenza discipline quali l’andragogia, ovvero l’educazione degli
adulti, e la psicologia del ciclo di vita (Hendry e Kloep, 2008) si stanno
rivelando più che mai attuali e centrali nell’affrontare un’epoca di continui
cambiamenti e con un sempre maggior invecchiamento anagrafico della
popolazione. Ma anche il fenomeno dell’ageism, che verrà approfondito più
avanti, sembra diffondersi sempre di più e radicarsi profondamente nel nostro
tessuto socio-culturale.
In questo specifico ambito a noi interessa approfondire il concetto di
gioventù e vecchiaia in ambito lavorativo. A che punto siamo? Proviamo a
riassumere alcuni concetti principali.
1.1 Le politiche attive
1.1.1 I giovani
Nel campo imprenditoriale o manageriale gli individui vengono definiti
giovani fino a 40 anni. Ad essi lo Stato, le Regioni, le Province e anche i Comuni
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hanno indirizzato specifiche forme di finanziamento agevolato o a fondo perduto
per la nascita di nuove imprese: da evidenziare che proprio in questi giorni il
governo sta varando agevolazioni specifiche per gli under 35. Secondo il Censis
(2011) i giovani si dividono in due categorie: quelli fra i 15 e 24 anni, definiti
young young, e quelli fra i 25 e 34 anni, definiti middle young. Formazione
professionale, contratti di apprendistato, a progetto, stages, tirocini sono i
modelli utilizzati per agevolare l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. E’
sufficiente ricordare che tutte queste forme contrattuali prevedono agevolazioni
per le imprese, tali da rendere conveniente l’assunzione di figure acerbe
professionalmente; risorse da formare, almeno in teoria, come investimento e da
inserire così nel mercato del lavoro, con l’acquisizione di competenze anche
rivendibili in seguito. Riportiamo di seguito alcune testimonianze prese da un
blog sul tema Over 40 dal sito LinkedIn – Job Seeker (http://www.linkedin.com):
L.C. : ...proprio qualche giorno fa ho letto che stanno per varare incentivi per chi assume under
35. Così assumeranno giovani finché avranno 34 anni e poi fuori.. siamo in Italia conosco
bene il meccanismo
M.B. : Purtroppo anch'io faccio parte del gruppo e quanto ho sentito degli incentivi per le
assunzioni under 35, il mio pensiero è stato " siamo messi bene! e noi cosa andiamo a
fare, i mendicanti?". Siamo troppo qualificati per lavorare come dipendenti e per lavorare
autonomamente non c'è spazio perchè il mercato è fermo e non ci sono soldi da
spendere quindi non guadagni e non puoi mantenere una partita iva.
Che se fà??????????
F.B. : Sono in accordo con Voi non possono esistere agevolazioni solo sotto gli under 35,
penso che è discriminante per gli over 35 che hanno gli stessi problemi per ricercare
lavoro, oggi non è facile per nessuno, sia che si abbia esperienza sia che non se ne
abbia, molto spesso le aziende, giustamente, per risparmiarsi cercano lavoratori con
agevolazioni contributive e per noi… quali posti di lavoro rimangono?
Non è questa la sede per approfondire il qui pro quo che si è generato
nell’uso dei termini flessibilità e precarietà, considerati concetti sovrapponibili
pur non essendolo (su questo argomento c’è ampio dibattito ed è stata prodotta
notevole documentazione e bibliografia negli ultimi anni); brevemente possiamo
dire che la flessibilità si può definire come “la generale capacità dei rapporti di
lavoro di adattarsi alle svariate esigenze dei lavoratori e dei datori di lavoro” e la
precarietà come “il rischio per il lavoratore di non riuscire a provvedere nel
medio periodo al proprio sostentamento attraverso la partecipazione al mercato
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del lavoro oppure attraverso l’accesso al sistema di protezione sociale” (Berton
et al., 2009, p.4). Come vedremo più avanti, la precarietà determina uno stato di
job insecurity (Sarchielli e Fraccaroli, 2010), genera incertezza e conseguenze
psicosociali. Si cominciano a vedere gli effetti devastanti sulla percezione e la
fiducia nei riguardi del lavoro, da parte di giovani e non, di fronte all’utilizzo
improprio e coercitivo dei modelli sopra descritti: le aziende, che sfruttano
questa possibilità in modo quasi consumistico, attuano un vero e proprio
atteggiamento “usa e getta” (Iacci et al., 2005, p.124) quando il collaboratore
non serve più. L’attualità del concetto relativo alla mercificazione del lavoro
(Negrelli, 2009) più che mai si presta all’abbinamento con questa nuova forma di
precarietà lavorativa. A differenza dei giovani, però, gli adulti si trovano anche a
dover mettere in discussione il senso delle proprie scelte in base ad un’identità
lavorativa già formata.
Il problema che ci poniamo riguarda le ricadute che questa evoluzione del
mercato del lavoro sta avendo nei confronti dei cosiddetti capifamiglia, ovvero i
quarantenni che, in caso di mobilità lavorativa, si ritrovano in concorrenza con
personale talvolta solo di pochi anni più giovane, ma decisamente meno
costoso; in questa competizione troppo spesso esperienza e maturità escono
perdenti e non solo per una questione di costi ma anche di vincoli
economico/sociali per i lavoratori stessi, come vedremo più avanti. Il rischio che
ne potrebbe derivare è che si generi una forma di conflitto intergenerazionale
nella lotta per l’accesso al lavoro. Anche sulla rappresentanza istituzionale c’è
chi ha qualcosa da dire:
S.F . : […] i sindacati in crisi di iscritti tra la schiera degli over 45, producono battaglie per i giovani
più sensibili ad associarsi, senza tenere in considerazione quelle che sono le statistiche
dei senza lavoro, basti guardare solo qui su LinkedIn per comprendere quanti siamo
nell’elenco degli over 45, produce molta audience portare avanti i problemi dei giovani
senza lavoro e i sindacati ultimamente guardano a questo[…]
1.1.2 La pensione
Fino a pochi anni fa si chiamavano Over 50 i lavoratori che ormai erano
vicini alla pensione, quindi ritenuti non un investimento, obsoleti nelle
conoscenze e competenze e rigidi nell’aggiornamento. L’uscita di lavoratori
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maturi e di mezza età fu facilitata fino ai primi anni Ottanta (Cristofalo, 2008-
2009) da incentivi al pensionamento anticipato in modo da favorire il ricambio,
fare spazio ai giovani, permettere alle aziende di acquisire forze nuove e
maggiore dinamicità riducendo anche i costi legati alle retribuzioni più alte.
Attualmente, al contrario, il nuovo indirizzo delle politiche del lavoro è rivolto
verso un allungamento dell’età pensionabile, portando quindi la soglia per
l’uscita dal mondo del lavoro ben oltre i 65 anni per tutti, uomini e donne, nel
giro di qualche anno, con tanto di incentivi sotto varie forme per posticipare tale
momento il più possibile. Segue un commento proprio relativo al dibattito sul
pensionamento:
S.F : […] il costo sociale: gli over 45 non possono produrre contribuzione per tutti per un lungo
periodo. Imprese, governo ed Inps lo sanno bene e ora con la nuova riforma
pensionistica questo aspetto, mi auguro di no e faccio gli scongiuri, verrà tenuto ancora
più in considerazione.[…]
La logica vorrebbe che il lavoratore avesse un percorso professionale che
lo arricchisca di competenze e maturità col passare degli anni: considerando un
primo inserimento nelle strutture produttive (20-30 anni) come periodo ancora di
esplorazione; ottenendo l’affermazione lavorativa (30-40 anni), periodo di
maggiore stress perché maggiore diventa la competitività con i colleghi;
puntando al mantenimento e miglioramento della propria posizione, spesso
all’apice della carriera (40/45-65 anni) (Fonzi, 2010) .
In ogni modo questa linearità delle traiettorie di carriera lavorativa è
oramai venuta a mancare già da tempo (Novara e Sarchielli, 1996).
1.1.3 Il welfare
Storicamente in Italia, ma anche in Europa, in presenza di scarsità di posti
di lavoro la discriminazione ha sempre teso a favorire i maschi adulti in quanto
capifamiglia (Reyneri, 2005). Questo significa che in passato il percorso
lavorativo seguiva un andamento alquanto regolare con l’inserimento nel mondo
del lavoro in giovane età e stabilizzazione in età adulta, al raggiungimento della
quale veniva costituito il nuovo nucleo familiare che si sarebbe basato sulla
potenziale e probabile stabilità lavorativa: piccolo o grande che fosse lo
stipendio, la società si autoequilibrava garantendo la sicurezza economica,
quindi la possibilità di fare progetti e prendersi degli impegni anche economici
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