2
Il legislatore introdusse quest’ultimo istituto, per dar modo al concessionario di immettersi nel
possesso del bene, quando ciò era necessario per la costruzione dell’opera
4
. La dottrina riteneva,
perciò, che l’occupazione temporanea o strumentale fosse un procedimento organizzativo
d’impresa o d’attività dell’impresa, che doveva realizzare un’opera di pubblico interesse
5
.
Il concessionario non poteva modificare in modo irreversibile il fondo, poiché altrimenti era
obbligato a rimetterlo in pristino prima della restituzione.
Diversa dall’occupazione temporanea era, come detto, quella d’urgenza disciplinata dall’articolo
71 della legge sull’espropriazione
6
.
Nella sua originaria formulazione quest’articolo prevedeva che i prefetti ed i sottoprefetti
potessero emettere il decreto d’occupazione d’urgenza in tutte le ipotesi in cui vi fosse “una
necessità assoluta ed urgente per porre riparo a disastri e calamità comunque interessanti la vita della comunità”.
Pochi anni dopo l’entrata in vigore della legge n. 2359 del 1865, il legislatore introdusse una
seconda ipotesi d’occupazione d'urgenza, con l. n. 5188 del 1889, secondo la quale il prefetto
doveva dichiarare l’occupazione d’urgenza per tutti i lavori ritenuti indifferibili ed urgenti dal
Consiglio superiore dei lavori pubblici
7
.
Questa modifica fu dirompente, perché cambiò l’impianto normativo precedente che qualificava
l’occupazione d’urgenza, come un provvedimento strumentale e temporaneo, per introdurre una
seconda ipotesi d’occupazione a carattere preliminare
8
.
Contro quest’ultimo provvedimento il privato aveva una tutela inferiore rispetto a quella prevista
nella disciplina originaria, in quanto il giudice non poteva sindacare il provvedimento prefettizio
4
Era molto chiaro, a tale proposito, il primo comma dell’articolo 64, che disponeva testualmente che “gli imprenditori
ed esecutori di un’opera dichiarata di pubblica utilità possono occupare temporaneamente i beni privati per estrarre pietre, ghiaia, sabbia,
terra e zolle, per farvi deposito di materiale, per stabilire magazzini ed officine, per praticare passaggi provvisori per aprire canali di
diversione delle acque e per altri usi necessari all’esecuzione dell’opera stessa”.
5
Cfr. VERBARI ibidem. 628 e F. PUGLIESE, Occupazione nel diritto amministrativo in Dig. disc. pubb., Torino, 262.
Quest’Autore distingueva fra una prima ipotesi che, a suo modo di vedere, era disposta per l’utilità che il fondo
presentava in sé e una seconda che disciplinava puntualmente l’attività imprenditoriale.
6
L’occupazione temporanea era, infatti, un procedimento accessorio rispetto all’espropriazione per pubblica utilità e
non esigeva, pertanto, altra giustificazione tranne quella di costituire un mezzo necessario per il compimento
dell’opera. L’occupazione d’urgenza aveva, invece, natura autonoma e specifica anche quando costituiva una fase
preliminare della normale espropriazione per pubblica utilità; cfr. VERBARI op.cit., 630 e SANTORO, ibidem, 2. La
giurisprudenza concordava con quest’interpretazione, cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 28 maggio 1949, n. 452, in Foro
amm., 1949, I, 2, 362.
7
Tale norma fu introdotta per impedire che potessero verificarsi disastri imminenti: cfr. dichiarazione dell’onorevole
Mezzanotte al Senato del Regno.
8
PUGLIESE op.cit. 263.
3
di dichiarazione d’occupazione d’urgenza ma solo quello del Consiglio superiore dei lavori
pubblici, a differenza di quanto accadeva nella fattispecie originaria, dove il giudice poteva
accertare sia l’esistenza dell’urgenza sia della forza maggiore.
L’ambito applicativo dell’occupazione d’urgenza fu variamente modificato nel corso degli anni
seguenti, per adattarlo maggiormente alle esigenze dell’amministrazione, accorciando in tal modo
i tempi lunghi del procedimento espropriativo
9
.
L’amministrazione otteneva questo risultato, protraendo la durata dell’occupazione effettuata ben
oltre il termine biennale, previsto dall’articolo 73 della stessa legge e non emanando il decreto
d’esproprio entro il termine previsto.
Il legislatore proseguì, pure, nel corso degli anni seguenti sulla via dello svuotamento del requisito
dell’indifferibilità ed urgenza, fino a rendere l’occupazione un passaggio obbligato nella procedura
espropriativa. Tale tendenza culminò con l’emanazione della legge n. 1/1978. Essa accelerò
ulteriormente il procedimento espropriativo e stabilì che l’approvazione del progetto d’opera da
parte del competente organo statale, regionale, delle Province autonome di Trento e di Bolzano e
degli altri enti territoriali equivalesse a dichiarazione d’urgenza ed indifferibilità delle opere
medesime.
S’introdusse, in tal modo, la figura della dichiarazione d’urgenza ex lege, che si affiancava, senza
peraltro sostituirla, alla tradizionale dichiarazione d’urgenza per atto speciale, che era ancora
prevista dall’articolo 71 l. n. 2359/1865. L’atto doveva essere emanato di norma dal Presidente
della Regione, salvo che l’opera non fosse di competenza comunale, poiché in tal caso le relative
funzioni spettavano all’ente locale, che agiva attraverso il Consiglio. La dichiarazione perdeva
efficacia, se entro tre mesi dall’emanazione dell’atto, l’amministrazione non occupava il terreno.
L’occupazione d’urgenza poteva protrarsi solo per cinque anni, come previsto dall’articolo 20 l. n.
865/1971.
9
Si ricordano, a tale proposito, l’articolo 26 del decreto luogotenenziale, 6 febbraio 1919, n.107 che stabilì che, con
decreto del Ministro dei lavori pubblici, si potessero dichiarare indifferibili ed urgenti tutte le opere pubbliche dello
Stato, delle province e dei comuni. Tale disposizione, originariamente temporanea, divenne permanente per effetto
dell’articolo 39 r.d. 8 febbraio 1923, n. 422.
4
Tale legge doveva, nell’intenzione del legislatore sostituire il vecchio testo normativo in materia,
che rimase, però, in vigore per disciplinare le espropriazioni a favore dei privati e determinare i
criteri d’indennizzo per le opere statali
10
.
In questo complesso quadro, il privato non aveva un’adeguata tutela giurisdizionale.
Egli, infatti, non poteva ottenere la restituzione del bene occupato né adire il giudice
amministrativo, in quanto il giudizio dinanzi a quest’ultimo era rivolto all’annullamento di un
provvedimento illegittimo, che nel caso di specie mancava, esistendo al suo posto un mero
comportamento della pubblica amministrazione
11
. La dottrina, poi, pur ritenendo concordemente
che la competenza spettasse al G.O., escludeva che il giudice potesse condannare
l’amministrazione a restituire il bene per l’esplicito divieto dell’articolo 4 l. n. 2248/1865 all. E,
che impediva al giudice ordinario d’incidere sui provvedimenti amministrativi
12
.
L’unica tutela ammessa era, quindi, quella risarcitoria. Il comportamento dell’amministrazione era
qualificato quale illecito extracontrattuale di natura “permanente”, destinato a cessare solo in
seguito ad un valido atto d’acquisto o ad un decreto d’esproprio, che la P.A. poteva emettere in
ogni momento, anche nelle more del processo civile rendendo, pertanto, necessario iniziare il
giudizio d’opposizione alla stima. Il privato aveva diritto d’essere risarcito per il mancato
godimento del bene, durante il periodo d’occupazione illegittima e d’ottenere l’indennizzo per la
perdita della proprietà. Dato il carattere permanente dell’illecito, inoltre, il termine prescrizionale
non poteva decorrere fino a quando l’illecito non fosse cessato
13
.
10
Per uno studio della disciplina dell’esproprio, precedente alla riorganizzazione del 2001, si rinvia a G. MENGOLI
Manuale di diritto urbanistico, Torino, 2003, 615 ss e a CALARCO L’espropriazione della proprietà privata per le opere di pubblica
utilità, Milano, 1998.
11
Il privato non poteva, infatti, agire presso il giudice amministrativo, per riottenere il bene occupato, giacché
quest’ultimo poteva tutelarlo solamente annulando l’illegittimo provvedimento impugnato. Nel caso di specie, però,
non esisteva alcun decreto d’esproprio da impugnare né alcun provvedimento, di cui dolersi, in quanto il danno
derivava da un mero comportamento dell’amministrazione. Il privato non poteva, inoltre, impugnare di fronte al
G.A. la dichiarazione di pubblica utililità o il decreto d’occupazione d’urgenza, in quanto, al momento
dell’irreversibile trasformazione del suolo da parte dell’ente, erano già scaduti i termini di legge per presentare ricorso,
per cui egli non poteva pretendere una tutela da questo organo giurisdizionale.
12
L’amministrazione agiva, infatti, iure privatorum. Nel caso considerato vi era, infatti, una carenza di potere in
concreto, che rendeva impossibile l’affievolimento del diritto di proprietà spettante al privato, cfr. F. BASILICA
L’evoluzione dell’occupazione appropriativa in Rass. Avv. St., 1996, 103 ss.
13
Cfr. GUGLIELMINELLI op.cit. 334.
5
Accanto a quest’orientamento più tradizionale ne nacquero altri due più moderni, per dare una
tutela maggiore al privato.
A partire dagli anni settanta, per esempio, parte della giurisprudenza ammise la possibilità di
condannare l’ente pubblico alla restituzione del bene, dando una restrittiva lettura al combinato
disposto degli articoli 2 e 4 l. n. 2248/1865 all. E, nel senso che il divieto quivi previsto valeva
solo per i provvedimenti, che costituivano esercizio di una potestà amministrativa e non per i
meri comportamenti materiali.
Tale interpretazione fu, però, bocciata dalle Sezioni unite della Cassazione, secondo le quali era
possibile condannare l’amministrazione a restituire il terreno solo se esso non fosse stato
modificato.
Un altro indirizzo giurisprudenziale cercò di tutelare il privato attraverso la creazione di un nuovo
istituto detto appunto “occupazione appropriativa”.
Esso prese corpo con la sentenza della prima sezione della Cassazione n. 3243/1979, che
esaminò l’ipotesi dell’occupazione d’aree utilizzate dalla pubblica amministrazione e, poi,
sommerse dal mare a causa dell’erosione. I giudici di legittimità dovevano decidere se gli effetti
negativi del fatto accaduto ricadessero sul proprietario, che era ancora legittimo titolare del bene
oppure sulla P.A., che aveva occupato il fondo.
I giudici di merito avevano risolto la questione, seguendo l’interpretazione più tradizionale ed
avevano addossato tutte le conseguenze negative dell’accaduto sul privato, in quanto l’evento
aveva spezzato il nesso di causalità fra l’illecita occupazione e la privazione del bene patita dal
privato.
La Cassazione ribaltò quest’impostazione e riqualificò il comportamento dell’amministrazione,
come illecito istantaneo ad effetto permanente
14
. La Corte anticipò alcuni concetti, come quello
14
La perdurante detenzione del bene - secondo la Corte - non poteva considerarsi come ulteriore manifestazione
dell’attività, perché era soltanto un effetto permanente del fatto illecito già esauritosi nella sua potenzialità produttiva
del danno; cfr. GUGLIEMINELLI op.cit. 335.