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Lo studio della qualità dell’esperienza soggettiva e delle sue modalità di fluttuazione è
stato definito sulla base di un modello di analisi dei dati, il Modello della Fluttuazione
dell’Esperienza, centrato sulla percezione soggettiva delle opportunità di azione nella
situazione in atto e delle capacità personali nel far fronte a tali opportunità.
Inoltre la raccolta di informazioni con ulteriori questionari (Flow Questionnaire, Life Theme
Questionnaire e Order/Disorder Questionnaire) ha confermato alcune conoscenze
acquisite in merito all’obesità, ma ha anche permesso di individuare nuovi temi di
indagine.
Ai fini dello sviluppo di interventi efficaci e permanenti nel tempo, i risultati evidenziano
l’importanza di promuovere un processo di cura individualizzato, e che si muova lungo un
continuum tra ospedale e contesto domestico. In particolare questo significa enfatizzare le
risorse personali rispetto ai cambiamenti che hanno apportato un maggiore benessere
nella fase di trattamento, oltre a valutare le condizioni contestuali e la loro percezione da
parte del paziente nell’ambiente quotidiano extra ospedaliero, per la promozione del
benessere soggettivo e di un processo di cura patient-centered, ossia centrato sulle
esigenze personali.
Un ulteriore contributo del presente lavoro è quello di aver introdotto un nuovo strumento
di rilevazione dati ESM. In particolare è stata eseguita un’analisi comparativa tra la
tradizionale somministrazione ESM in formato cartaceo e la somministrazione eseguita
tramite telefono cellulare. L’introduzione della nuova modalità si è mostrata una valida
alternativa alla versione originale. Essa offre l’opportunità di modulare la scelta del
ricercatore in relazione alla struttura e finalità dello specifico progetto di ricerca.
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CAPITOLO 1
OBESITÀ
Approcci per la diagnosi e la valutazione
1.1. INTRODUZIONE: INQUADRAMENTO STORICO
L’obesità è una patologia ad ampia diffusione nella nostra società ed annovera tra le sue
conseguenze più importanti, non solo fattori di tipo biologico e genetico, ma
principalmente di ordine sociale, psicologico e persino psichiatrico.
Nel corso dell’ultimo decennio si è assistito ad un notevole incremento nella diffusione di
questa patologia. L’obesità è una condizione ampiamente diffusa ai nostri giorni in tutte le
società del mondo occidentale; essa non è una diretta conseguenza del particolare
periodo storico in cui ci troviamo a vivere, al contrario ha le sue radici nell’antichità.
Tuttavia, solo negli ultimi anni sono stati fatti tentativi per inquadrarla storicamente.
Anticamente si riteneva esistesse una connessione tra il peso corporeo e la fertilità, nel
senso di un incremento di quest’ultima nelle donne dal peso più abbondante; tale idea si
rispecchiava anche nelle forme dell’arte, come dimostrano le Veneri aurignaciane.
Nell’uomo l’eccedenza ponderale evocava forza fisica e benessere (Apfeldorfer, 1993).
Questo ideale di bellezza e fecondità femminile si modificò rapidamente e, già ai tempi dei
Greci, ed in particolare di Ippocrate, si iniziarono ad evidenziare i pericoli connessi
all’obesità; anche in questo caso l’arte è uno specchio fedele dei canoni estetici
predominanti (si pensi alle sculture del periodo classico). Tali concezioni a riguardo
dell’obesità permearono il mondo greco e romano e si tramandarono pressoché immutate
sino al XV secolo, influenzando anche la cultura araba, entrata a contatto con il mondo
occidentale.
Nel XVI e XVII secolo comparvero i primi scritti specifici sull’obesità nei quali prevaleva un
approccio al problema di tipo moralistico, proponendo l’obesità come un problema
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interiore, sebbene non fosse escluso il coinvolgimento di cause chimiche e metaboliche.
Nel XVIII e XIX secolo l’obesità era prevalentemente considerata un problema biologico,
nonostante una concezione di stampo moralista non fosse ancora completamente
scomparsa. Fu in questo periodo che venne introdotto il concetto di tipi di obesità;
contemporaneamente furono individuate due possibili cause dell’obesità: il
malfunzionamento fisico e l’esistenza di fattori legati alla personalità ed al temperamento
(Bronwell, 1984).
Durante il XX secolo si assiste ad una esplosione di ricerche sull’obesità. In questo
periodo si verifica un cambiamento radicale nelle modalità di indagine e di trattamento di
questa condizione. Sebbene gli obiettivi siano sempre gli stessi (individuazione delle
cause, disturbi associati, ecc.), il modo di raggiungerli muta completamente. Ad iniziare
dagli anni ’50 la psichiatria sostituisce la medicina nella cura del disturbo alimentare; in
quel periodo essa era dominata dalle teorie psicanalitiche, cosicché l’obesità venne
considerata come una conseguenza degli impulsi inconsci, come il riflesso di un disturbo
della personalità della persona obesa (Bray et al., 2004).
Gli psicologi entrarono nella disputa a partire dagli anni ’60 e ’70 con l’applicazione delle
teorie cognitivista e comportamentista al trattamento dell’obesità, le quali si basavano su
interventi destinati principalmente alla diminuzione del peso ed al miglioramento delle
condizioni di vita dell’individuo. Negli ultimi decenni di questo secolo l’avanzamento delle
conoscenze fisiologiche e mediche ha modificato la visione dell’obesità: vi è, tra coloro
che si occupano del trattamento di questa condizione, un diffuso pessimismo circa la
capacità delle persone obese di perdere peso, mentre maggiore ottimismo riscuote l’idea
di utilizzare approcci integrati per ottenere maggiori successi dalla terapia (Bronwell,
Wadden, 1992).
Il rifiuto per l’essere grassi, largamente diffuso nella nostra società ed innalzato ad ideale
di vita, non è tipico di tutte le culture: in alcuni Paesi (soprattutto in quelli in via di sviluppo)
essere grassi suscita ancora invidia più che repulsione, diviene il segno esteriore di
ricchezza e salute, simbolizza una forma primitiva di accumulo per i periodi di carestia e di
malattia. Nelle società industrializzate l’obesità smette di essere segno esteriore di
ricchezza e si carica di connotazioni negative; ciò che è desiderabile è la magrezza,
l’eccesso ponderale viene rifiutato. Tuttavia, per gli individui appartenenti agli strati più
poveri della popolazione, essere grassi continua ad essere simbolo di riuscita sociale,
soprattutto per gli immigrati (Apfeldorfer, 1993).
Il valore attribuito all’essere grassi dipende anche dal periodo storico e dalle condizioni
socio-economiche. In tutti i Paesi occidentali il legame tra queste ultime e l’eccesso
ponderale è evidente. In Europa e negli Stati Uniti vi è circa il 20-30% di popolazione
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sovrappeso (15% di uomini e 25% di donne). A fronte di ciò si riscontra una frequenza più
elevata di obesità nelle classi sociali medio-basse rispetto a quelle più alte e una
conseguente stigmatizzazione dell’obesità come segno di appartenenza alle classi
subalterne (Lavanchy, 1994; Sobal, Stunkard, 1989).
Partendo da tali premesse, l’obiettivo del capitolo è quello di definire l’obesità dal punto di
vista biologico, sociale e psicologico. Saranno quindi presentati i principali approcci
attualmente diffusi per la diagnosi e la valutazione della patologia.
1.2. DEFINIRE L’OBESITÀ
La definizione dell’obesità, dal punto di vista descrittivo, è associata ad un eccesso di
grasso corporeo. Normalmente, la quantità di grasso non dovrebbe superare il 19% della
massa corporea negli uomini ed il 22% nelle donne: quindi, al di sopra di questi limiti, si
dovrebbe già poter parlare di obesità. In realtà, quest’ultima dovrebbe essere distinta da
ciò che viene definito come sovrappeso, il quale si riferisce al peso in eccesso rispetto ad
alcuni standard assunti in modo più o meno arbitrario. Come si vede, tuttavia, i confini tra i
due termini sono alquanto sfumati: di conseguenza spesso il termine sovrappeso è usato
come sinonimo di obesità (Bronwell, 1984).
I primi tentativi di classificare l’obesità risalgono agli inizi del ΄900, quando questa venne
distinta in esogena, dovuta cioè a fattori esterni all’individuo, ed endogena, causata da
anomalie nel funzionamento fisiologico della persona.
Nel corso degli anni numerosi sistemi di classificazione sono stati proposti, ognuno dei
quali si basa su criteri distintivi specifici. Elemento comune di questi criteri classificatori è il
riconoscimento che l’obesità è una condizione eterogenea, con eziologie multiple e con
diverse conseguenze fisiche e psicologiche. Sebbene l’obesità sembri una manifestazione
evidente, non è facile trovare criteri scientifici che consentano di definire
quantitativamente i suoi limiti. Alcuni ricercatori hanno accettato come criterio distintivo
per poter parlare di obesità quello del rischio per la vita: i dati mostrano, infatti, che una
persona obesa corre un rischio maggiore di contrarre malattie e quindi di abbreviare la
propria esistenza. In base a queste considerazioni, la diagnosi di obesità viene posta
quando il peso di un individuo supera di almeno il 20% quello previsto (Wadden,
Stunkard, 2002).
Una prima distinzione dell’obesità è effettuata in base alla ripartizione delle masse
adipose: si individuano in questo modo due tipi di obesità, il primo definito androide o
centrale, caratterizzato dall’accumulazione di grasso nella regione addominale (questa
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forma è la più soggetta a complicazioni), il secondo chiamato ginoide o femminile,
caratterizzato dall’accumulazione di grasso nella parte inferiore del corpo. Questo tipo di
ripartizione tiene conto anche dell’età di comparsa dell’obesità: quella che inizia nell’età
adulta è prevalentemente di tipo centrale, mentre quella che inizia nei primi anni di vita è
generalizzata, coinvolge sia il tronco che le estremità del corpo (Lavanchy, 1994).
Una seconda modalità classificatoria dell’obesità si basa sulla tipologia cellulare coinvolta:
si distingue così tra obesità ipertrofica, in cui gli adipociti (le cellule destinate
all’immagazzinamento del grasso) sono poco numerosi ma notevolmente più grandi, ed
obesità iperplastica, in cui gli adipociti sono di dimensioni normali ma presenti in numero
notevolmente superiore (Bronwell, 1984; Apfeldorfer, 1993). Un altro modo di
categorizzare l’obesità è quello di distinguerla in base all’età di comparsa: si hanno così
una forma adulta ed una forma precoce. Questa distinzione non corrisponde, tuttavia, ad
una chiara separazione circa le cause dell’obesità stessa.
Sebbene le proposte classificatorie presentate trovino una certa applicazione tra coloro
che si occupano dello studio e della cura dell’obesità, gli schemi di classificazione
maggiormente proposti sono quelli basati su alcuni indici di peso corporeo; l’assunzione
sottostante a questi tentativi è che l’incremento del peso corporeo sia correlato ad un
maggiore rischio medico ed alla necessità di un trattamento più aggressivo (Bronwell,
Wadden, 1992).
Uno schema classificatorio di questo tipo è quello proposto da Stunkard negli anni ’80.
Stunkard sosteneva la plausibilità dell’esistenza di tre categorie di obesità: leggera,
moderata e severa. Egli suggeriva che la ripartizione si dovesse basare sulla percentuale
di sovrappeso al di sopra del peso ideale (Stunkard, Sobal, 2005).
Diversi studiosi hanno proposto dei sistemi di classificazione basati sull’indice di massa
corporea, più comunemente indicato come BMI (Body Mass Index). Il BMI è calcolato
come il rapporto tra peso espresso in chilogrammi ed altezza in metri al quadrato (in
formula: kg/m2): l’indice risultante fornisce una stima attendibile della percentuale di
grasso corporeo. Le linee guida suggerite da questo criterio permettono l’individuazione di
quattro gradi di obesità:
• grado 0 (BMI <25) = assenza obesità
• grado 1 (BMI 25-29) = sovrappeso
• grado 2 (BMI 30-40) = obesità
• grado 3 (BMI >40) = obesità severa
I gradi 2 e 3 sono associati ad un incremento notevole dei rischi per la salute (Bronwell,
1984).
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Blackburn e colleghi (1987) hanno proposto uno schema distintivo basato sul BMI che
prevede più categorie, argomentando un incremento del rischio medico con l’aumentare
del BMI (Blackburn, Kanders, 1987). Bray (1999) presenta uno schema simile, con livelli
di BMI suddivisi a seconda dei crescenti livelli di rischio. Il limite maggiore di questi
tentativi è dato dal fatto che l’obesità è considerata solamente in termini medici e di
incremento del rischio medico; esso, a sua volta, giustifica l’utilizzo di terapie più
aggressive.
Garrow (1998), infine, propone una classificazione centrata sul grado di controllo che un
individuo possiede sulla propria alimentazione. Egli concepisce una dimensione definita
come controllo, che si configura lungo un continuum che va dall’estremo controllo, dove
non esistono problemi di peso, all’assenza di controllo, in cui l’alimentazione è caotica e
compulsiva. Garrow propone, in base a questa idea, una forma di trattamento che
enfatizzi le abilità di controllo da parte del soggetto (Garrow, 1981)
Dal punto di vista fisiologico, Il fattore più semplice ed evidente che determina l’obesità è
un eccessivo consumo alimentare: l’eccesso di grasso sarebbe dovuto ad uno squilibrio
tra apporto energetico e spesa energetica (Wadden, Stunkard, 2002). Tuttavia non vi è
una relazione diretta tra cosa, quanto si mangia e obesità. Le calorie necessarie per
ingrassare variano da un individuo all’altro, ed addirittura molti obesi hanno un apporto
calorico inferiore alla media della popolazione normoponderale. L’obesità può anche
essere frutto di una diminuzione delle uscite: in questo caso il metabolismo basale è il
maggiore indiziato, poiché si ritiene che esso sia all’origine dello squilibrio. Vi sarebbe,
nelle persone obese, una diminuzione del metabolismo basale, dovuta a diverse cause,
che spingerebbe l’organismo ad economizzare al massimo ogni apporto energetico
introdotto nell’organismo. Ciò spiegherebbe la difficoltà di alcuni obesi a dimagrire anche
seguendo delle diete, ed il fatto che alcuni individui ingrassino anche con un apporto
calorico inferiore alla media (Wadden, Stunkard, 2002).
Un tentativo formulato per spiegare come si instaura l’obesità si può ritrovare nella teoria
del set-point o del ponderostato. Essa sostiene che ogni individuo possiede una funzione
di regolazione del proprio peso corporeo attorno ad un valore relativamente costante: il
ponderostato avrebbe proprio la funzione di determinare e mantenere il peso forma. Il
fatto che un individuo diventi obeso parrebbe mettere in dubbio la validità di questo
assunto; in realtà, nell’obesità, l’aumento di peso non è indefinito, ma giunge sino ad un
certo valore, il quale viene difeso dall’organismo: in questo caso il ponderostato funziona
attorno ad un peso base più elevato (Lavanchy, 1994). In realtà, tuttavia, non sarebbe il
peso in quanto tale ad essere regolato, ma quello della massa grassa, cioè del numero di
cellule adipose. La riserva di adipociti è quindi un fattore determinante nella valutazione
del peso ideale da parte del ponderostato. Nello studio dell’obesità si è soliti distinguere la
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fase dinamica, di formazione dell’eccesso ponderale, dalla fase statica, di mantenimento
del sovrappeso acquisito. Nella fase dinamica l’eccesso di grasso si forma in
conseguenza di un aumento dell’apporto calorico, mentre nella fase statica la persona
obesa mantiene il peso raggiunto con un apporto calorico insufficiente a produrre obesità.
La spiegazione più accreditata di questo fenomeno fornita dagli studiosi sostiene che
negli obesi vi sia un difetto di metabolismo associato ad un difetto di termoregolazione
(che si manifesta mediante una produzione minore di calore corporeo): ciò porterebbe
all’instaurarsi dell’obesità a motivo dell’eccessiva tesaurizzazione delle calorie fornite
all’organismo (Lavanchy, 1994; Wadden Stunkard, 2002; Bronwell, 1995).
Infine recenti evidenze sperimentali sostengono la prevalenza di fattori genetici rispetto a
quelli ambientali nella formazione dell’obesità. L’ipotesi di fondo è che l’eccesso
ponderale sia causato dall’azione di geni che predispongono il soggetto che ne è
portatore all’insorgenza dell’obesità. Alcune ricerche, in effetti, dimostrano il ruolo giocato
dalla familiarità nei soggetti sovrappeso. Studi su gemelli sia monozigoti che eterozigoti,
suggeriscono un’ereditabilità della patologia dell’obesità pari al 70% (Allison et al., 1996;
Barsh et al., 2000). Studi su gemelli che vivono separati (uno con i genitori biologici, l’altro
adottato) forniscono stime molto più basse, tra il 20 e il 60 % (Maes, Neale, Eaves, 1997).
Considerando tutti i fattori e le informazioni, una stima corretta dell’ereditabilità di un BMI
elevato potrebbe essere intorno al 50%.
Indagini recenti, infatti, sembrano indicare che le influenze genetiche incidono su
numerosi ambiti relativi al rapporto dell’individuo con l’alimentazione e all’accumulo di
grasso: preferenze alimentari, tipo di metabolismo, tipo di fibre muscolari, e tipo di
reazione all’aumento delle entrate alimentari (Martinez, 2000; Nelson 2002) ne
costituiscono alcuni esempi.
Ricerche sulla genetica hanno offerto importanti scoperte su quello che è stato definito il
gene dell’obesità, ovvero il gene “ob”, e sull’ormone espresso da tale gene, la “leptina”.
È stato riscontrato come questo ormone, prodotto dalle cellule adipose e subito rilasciato
nel sangue, possa intervenire direttamente nel controllo ponderale. La concentrazione di
leptina nel sangue è un importantissimo segnale di comunicazione con il cervello, che, a
seconda del livello ormonale, passerebbe poi al controllo diretto del metabolismo:
sensazione di fame, introduzione di cibo e conseguente aumento di peso. L’ipotesi è che
questo sistema di feedback in alcuni individui sia difettoso: di conseguenza, alcuni
soggetti tenderebbero a diventare obesi, o, al contrario, troppo magri, in ragione di un
difetto genetico di regolazione del livello di leptina.
Questi risultati rappresentano certamente una scoperta sensazionale in ambito scientifico,
ma nella pratica gli esiti non sono altrettanto entusiasmanti. I problemi irrisolti, infatti, sono
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ancora molti: il difetto risiederebbe non nell’assenza dell’ormone, ma probabilmente a
livello di recettori cerebrali o, ancora, potrebbe consistere in un’errata esecuzione degli
ordini cerebrali dopo una corretta decodifica.
Tuttavia l’evidenza indica che l’obesità è una malattia oligogenica, la cui espressione può
essere modulata da numerosi geni modificatori poligenici che interagiscono l’uno con
l’altro e con fattori ambientali, come la scelta di cibi, l’attività fisica, il fumo (Froguel,
Boutin, 2001). Nell’uomo infatti, il tipo di patrimonio genetico rende conto solamente di
circa il 40% della varianza della massa corporea (Froguel, Boutin, 2001). Secondo
Bouchard (Bouchard, 2002) la condizione di obesità è determinata al 25-40% dalla
genetica, mentre la restante percentuale tiene conto del comportamento della singola
persona e delle interazioni tra la sua biologia e l’ambiente.
Si ritiene, pertanto, che lo spiccato aumento della prevalenza dell’obesità negli ultimi venti
anni sia soprattutto il risultato di alterazioni di fattori ambientali che aumentano
l’assunzione energetica, e di fattori sociali.
1.3. EPIDEMIOLOGIA E DIFFUSIONE DELL’OBESITÀ
Secondo la World Health Organization (WHO), l’obesità costituisce oggi uno dei problemi
di salute pubblica più visibile e tuttavia ancora trascurato. Le malattie croniche a cui
l’obesità è correlata, quali diabete, ipertensione, malattie cardiache, problemi respiratori,
osteoartrite, disturbi neurologici e psichici, costituiscono il 45,9% del carico mondiale di
malattie e rischiano di paralizzare le strutture sanitarie di tutto il mondo.
In Italia 4 milioni di persone adulte sono obese e circa 16 milioni in sovrappeso. Nel 2005,
rispetto al 1983, l’incremento del sovrappeso è stato pari a 9.8% negli uomini e di 4.9%
nelle donne (Istat, 1985, 1997, 2002, 2004)