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Introduzione
Il tentativo portato avanti da questa tesi è quello di fornire un breve excursus degli
studi di genere nel corso dei secoli, ripercorrendo le tappe dei primi studi storici della
sociologia e della filosofia, dei movimenti femministi e della storia del lavoro
femminile. L’importanza odierna del tema dei generi è ormai risaputa, in quanto le
rivoluzioni identitarie messe in atto dalle donne, ma anche dagli uomini, negli ultimi
secoli, hanno portato avanti dei continui tentativi di rinnovamento, quando non di
annientamento, della tradizione patriarcale che permea le radici della nostra società
dall’alba dei tempi.
È servito un’enorme sforzo da parte di molte donne per far venire alla luce quella
madre rimossa dalla nostra cultura (Piussi, 1989) e permettere che uscisse allo
scoperto, uscendo all’esterno di quelle gabbie dorate ed incrollabili quali erano le loro
case. Nessuno aveva mai chiesto loro se gli andasse bene essere solo delle donne e
delle madri, placide e amorevoli custodi del focolare domestico, e per questo motivo
si sono fatte strada timidamente, scortate dalle voci delle grandi pensatrici del secolo
scorso, che hanno avuto il coraggio di comunicare a tutto il mondo che nulla era più
dovuto, in quanto donne non si nasce, si diventa (De Beauvoir, 1949). Ed in questo
oceano di idee hanno trascinato anche gli uomini, spesso sfidandoli, ma anche
affiancandoli e guidandoli verso nuovi mondi di senso a loro sconosciuti, dove anche
loro potevano sperimentare una nuova libertà dei sentimenti che troppo spesso gli è
stata negata: d’altronde, come ben si sa, il primo dovere di un uomo è quello di non
essere una donna (Stoller, 1989).
Le enormi conquiste ottenute nel corso degli anni vanno perciò interpretate in un’ottica
di parità di genere, e non più solo secondo una prospettiva femminista radicale, in
quanto i cambiamenti e le sfide affrontate dalle donne nei movimenti femministi
stanno avendo negli ultimi decenni una forte influenza anche sul genere maschile e
sull’identità mascolina: risulta infatti impossibile, data la storicità del dualismo legato
al concetto di genere, che le donne possano cambiare senza che questo mutamento non
si riverberi anche sugli uomini (Ruspini, 2003). Il cambiamento femminile,
influenzando in modo importante la qualità della partecipazione alla forza lavoro da
parte delle donne, ha effetti positivi sul mercato del lavoro globale, sia in termini di
produttività e sviluppo che in termini di relazione insita in queste due dimensioni
(Donati, 2001). Le donne hanno infatti contribuito al mondo del lavoro portando
spesso al suo interno valori simbolici e relazionali nuovi per i contesti organizzativi,
da sempre legati solo ad una visione maschile del lavoro, regalando così alle
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organizzazioni un prezioso valore aggiunto da poter sfruttare nell’epoca postmoderna,
ormai sempre più complessa e multidimensionale (Scisci & Vinci, 2002).
Inoltre, come vedremo, l’intensa partecipazione al mercato del lavoro ha stravolto
anche gli equilibri familiari di molte famiglie, rovesciandone i ruoli tradizionali e
reinventandone le identità individuali e collettive, mettendo alla luce nuove realtà
familiari in cui uomini e donne possono sperimentarsi ed immergersi, più o meno
liberamente, in nuovi ruoli di genere che prima gli erano stati negati, con tutte le
conseguenze dell’arricchimento, ma anche della confusione, che l’azione di mescolare
le carte in tavola può portare in un tavolo di gioco.
Il primo capitolo di questo lavoro affronta il tema delle origini degli studi sulle
differenze di genere, partendo dallo storico dibattito di natura VS cultura, affrontando
gli studi biologici ed arrivando poi alla prospettiva sociologica più classica, fino al
pensiero moderno di Gayle Rubin. Il secondo capitolo affronta la storia del pensiero
femminista dalle sue origini nel pensiero dell’uguaglianza fino agli studi moderni degli
approcci radicali e della differenza sessuale, per poi arrivare alle teorizzazioni post-
moderne ed ai Queer Studies. Il terzo capitolo affronta l’evoluzione del concetto di
genere e la sua continua formazione nell’individuo e nel bambino, con un focus rivolto
al mondo del lavoro e della formazione. Il quarto capitolo affronta la figura della donna
nel mondo del lavoro, affrontando i temi della conciliazione e dell’organizzazione
familiare, per poi analizzare le tematiche della segregazione occupazionale e di cosa
accade con l’aumento della presenza delle donne nelle posizioni manageriali del
mondo lavoro. L’ultimo capitolo affronta un tema abbastanza nuovo su un fenomeno
che si è diffuso negli ultimi decenni nelle famiglie, minando molto spesso gli equilibri
fra i coniugi: si tratta del modello della female breadwinner, ovvero della donna che
possiede un reddito maggiore rispetto a quello dell’uomo all’interno del sistema
familiare.
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Capitolo 1
Origini e caratteristiche degli studi sulle differenze di genere
Trattandosi di un argomento che provoca da secoli dibattiti spesso “accesi”, lo studio
delle differenze fra donne e uomini si è rivelato quanto mai complesso. Va considerato
innanzitutto il fatto che le differenze di genere sono state analizzate, studiate e
argomentate da diverse discipline, che si sono evolute di frequente in modo autonomo
e separato le une dalle altre, trovandosi a volte ad essere inconciliabili dal punto di
vista epistemologico. Alcuni di questi ambiti di studio hanno oltretutto mostrato un
interesse tardivo per l’argomento in sé, anche se quest’ultimo è a volte diventato
decisivo per un riesame delle proprie basi teoriche. L’argomento è apparso sulla scena
culturale e sociale mosso dai movimenti femministi, che hanno a loro volta sviluppato
al loro interno prese di posizione diverse, che sovente arrivavano ad essere in
opposizione fra loro. A causa di ciò, nel corso degli anni i costrutti legati alla dicotomia
sesso/genere sono stati spesso costruiti e decostruiti più e più volte, facendo vacillare
le storiche convinzioni teoriche di molti studiosi. Contemporaneamente, si è dovuto
far fronte alle trasformazioni sociali dei ruoli di genere, in cui iniziava a restringersi
l’asimmetria maschio/femmina e le donne iniziavano a sviluppare una maggior
consapevolezza di sé e dei loro mutevoli ruoli. La reazione del mondo del sapere
maschile è stata a volte difensiva, come testimonia la nascita dei Men’s Studies che
vennero proposti subito come alternativa ai Women’s Studies, nati come presa di
posizione delle donne verso un sapere storico unicamente maschile. Questo evidenzia
il nascere di una crisi dell’esclusività del sapere maschile, che si manifesta sia in
ambito discorsivo-simbolico, che nelle pratiche e nelle istituzioni (Gelli, 2009).
1.1. Il dibattito natura vs cultura (sesso/genere)
Gli studi sulle differenze di genere sono caratterizzati dall’ormai eterno dibattito
Natura VS Cultura, che vede una continua disputa fra l’approccio biologico, che fa
riferimento al sesso genetico di un individuo per spiegare le differenze legate all’essere
uomo o all’essere donna, e il più recente approccio socio-culturale, che basa le sue
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spiegazioni sul genere di un individuo, focalizzandosi quindi sui processi sociali.
L’oggetto/soggetto di studio viene quindi conosciuto in una doppia dimensione,
biologica e culturale, rispondendo la prima dimensione al termine sesso, la seconda al
termine genere (Gelli, 2009). Il sesso è determinato perciò dalla specificità delle
caratteristiche biologiche e fisiche, mentre il genere riguarda invece le differenze
socialmente costruite tra i due sessi (Ruspini, 2003).
Recentemente, gli studi medico-biologici, grazie all’evolversi delle tecnologie, hanno
dato un grosso contributo alla questione riguardante natura VS cultura. È stato infatti
possibile l’esplorazione approfondita del cervello e l’identificazione parziale del
codice genetico. Nonostante ciò, non è stato possibile confermare l’ipotesi innatista
secondo cui le differenze siano spiegabili facendo riferimento solo ad un fattore
biologico; anzi, così come affermato dagli studi psicologici, è presente una peculiare
variabilità in ogni individuo, in parte geneticamente determinata, che restituisce
all’individuo un’unicità tipica per ciascuna persona (Gelli, 2009).
Gli enormi progressi scientifici riguardanti il codice genetico hanno apportato un forte
contributo ad entrambe le teorie, senza confutarle, in quanto, come sostenuto da Ridley
“Non si tratta di contrapporre eredità e ambiente – non più nature vs nurture -, ma di
considerare invece come la prima si esprima attraverso il secondo: nature via nurture.
I geni sono fatti per raccogliere i suggerimenti dell’ambiente” (Ridley, 2003). Ciò che
Ridley intende dire è che istinto e apprendimento sono due facce della stessa medaglia,
in quanto la natura trova nell’ambiente la possibilità di esprimersi e realizzarsi,
reagendo ad esso. La variabilità genetica risulta quindi essere a un tempo stesso causa
ed effetto dei nostri comportamenti (Ridley, 2003).
Attualmente quindi, il pensiero più accreditato è che natura e cultura si influenzino
vicendevolmente in maniera complessa, dando luogo ad una diversificazione delle
azioni degli individui e dei conseguenti fenomeni sociali e psicologici che ne derivano
(Burr, 2000).
1.2. La dicotomia differenza/somiglianza
Affrontando il tema della differenza di genere risulta impossibile non affrontare anche
la somiglianza di genere. Questa ulteriore dicotomia nella quale ci si imbatte crea vari
interrogativi su quanto uomini e donne siano fra loro differenti e allo stesso tempo
simili fra loro, e soprattutto su quanto questi tratti siano modellabili a seconda delle
continue fluttuazioni culturali del mondo (Gelli, 2009).
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Su queste domande si sono a lungo confrontati: la psicologia del senso comune,
suggestionata dagli storici pregiudizi su maschi e femmine e dalla predisposizione a
ricondurre i diversi comportamenti dell’uno o dell’altro sesso al presunto ordine
naturale delle cose dettato dalle tradizioni religiose e dalla scienza; gli studi scientifici
delle varie discipline, che tentano di trovare i possibili nessi causali che
determinerebbero le differenze o le somiglianze fra il maschile e il femminile; la
ricerca antropologica, che vuole indagare l’esistenza o meno di tratti universali che
fanno sì che le differenze tra uomini e donne siano presenti in tutte le culture (ibidem).
“La somiglianza è l’ombra della differenza. Due cose sono simili in virtù della loro
differenza da un’altra; oppure sono diverse per via della somiglianza di una delle due
con una terza.” (Ridley, 2003, p. 25).
Il costrutto di differenza è una conquista recente, in quanto supera la logica aristotelica
che si fondava sulle categorie di uno e di unicità (Lasio, 2006). Per il pensiero
moderno, uguaglianza e differenza devono essere considerate unitamente, in quanto,
per poter esprimere una, si ha necessità dell’altra. Queste considerazioni sono alla base
della riflessione di Luce Irigaray, importante esponente del pensiero della differenza
in Francia. Nella società attuale va sempre più evidenziandosi una ricerca della
somiglianza fra i due sessi, rispetto ad una demarcazione delle differenze come
avveniva negli studi passati: il fatto di appartenere a due categorie differenti non
impedisce di porre dei confini molto flessibili e modificabili a seconda della
costruzione dei significati che i soggetti stessi danno all’essere uomo e all’essere
donna. Si va quindi oggi sempre più alla ricerca di caratteristiche comuni, aprendosi
in questo modo ad una definizione delle due categorie in continuo divenire (Gelli,
2009).
Tuttavia, a causa degli storici pregiudizi e stereotipi sulla visione dicotomica dei due
sessi, visti nel passato come reciprocamente escludentesi, buona parte degli studiosi e
dell’opinione pubblica comune hanno difficoltà ad abbracciare questa nuova
prospettiva. Ciò avviene a causa di una “cultura radicata in una tradizione patriarcale”
(Gelli, 2009, p. 28), pregna ormai della sopra citata visione dicotomica dei due sessi.
Nonostante i tentativi del femminismo di superare questa concezione, ancora oggi
quando si nomina la parola “genere” vengono subito in mente le differenze e non le
eventuali somiglianze e i punti di incontro fra uomini e donne. Ciò succede anche
perché a causa della visione classica sui generi, al sesso femminile non è mai stato
concesso, o è stato concesso solo gradualmente, di ricoprire ruoli, funzioni, presenze
fisiche o simboliche che appartenevano alla sfera maschile; questo non ha permesso di
mostrarsi in ruoli tipicamente maschili, o meno che mai, di porsi in posizioni sociali
superiori ad essi. Lo svincolamento dall’asimmetria di genere è stato, o meglio, è, un
processo lento e in divenire, e presenta ancora oggi tanta strada da percorrere (ibidem).
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Nel corso degli anni il movimento femminista ha percorso diverse tappe, inizialmente
partendo da un processo di affermazione della parità dei diritti, per poi allontanarsi da
questa visione, per via del rischio che questa comporta di omologazione alla
rappresentazione valoriale maschile, per poi arrivare a voler affermare una nuova
cultura della differenza, intesa come un punto di forza da valorizzare. Infatti, la volontà
è di porre l’accento sulla “positività della differenza sessuale” (ibidem), in questo
modo la differenza viene vista come valore, in quanto evidenzia la specificità delle
dimensioni del sé femminile, in riferimento alla sua specificità corporea e ai suoi
vissuti. Una nuova spinta del movimento femminista punta ora invece l’accento su una
soggettività “al di là dei generi” o “post-generi” (ibidem), intendendo una soggettività
sessualmente indifferenziata, essendo ormai obsolete le vecchie concezioni auto
escludentesi di uomo e donna (ibidem).
1.3. Il contributo della biologia e della sociologia
Biologia e sociologia hanno affrontato negli anni il discorso delle differenze di genere
fra uomini e donne focalizzandosi il primo maggiormente sulla componente biologica
della questione, mentre il secondo più sugli aspetti socioculturali.
Come descritto da Busoni (2000), l’approccio biologico si fonda sull’idea che il sesso
funga da base biologica naturale che determina le differenze individuali. In questo
modo, la differenza sessuale stabilisce le caratteristiche dell’individuo, incluso il suo
orientamento sessuale, e i suoi ruoli nella società e nel sistema famiglia. Allo stesso
modo, queste caratteristiche biologiche causano linearmente l’essere maschio e
femmina, relativamente ad abilità, comportamenti tipici, predisposizioni,
caratteristiche di personalità e sistemi di credenze. Conseguentemente, anche
l’organizzazione sociale del maschile e del femminile è fondata su “regole naturali”
predeterminate, che in quanto tali non permetterebbero evoluzione o cambiamento. Ne
deriva che ciò che si differenzia da queste caratteristiche preimpostate ed immutabili
sia da considerare innaturale o patologico. L’orientamento sessuale, ad esempio,
secondo questa concezione si configura come uno degli aspetti predeterminati
nell’individuo. Ciò significa che l’orientamento eterosessuale viene definito come
l’unico naturale e normale. Di conseguenza, anche il sistema famiglia fondato sulla
coppia eterosessuale e sulla divisione dei ruoli secondo una visione classica, è
l’organizzazione naturale determinata dalla sfera biologica; i sistemi familiari che si
allontanano da questa concezione sono quindi considerati innaturali e devianti rispetto
a come dovrebbero essere (Taurino, 2005). Risulta evidente l’importanza che questo
orientamento attribuisce alla dimensione fisiologica e biologica a sfavore di quella
socioculturale, rendendolo quindi un approccio fortemente deterministico, in quanto
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le differenze tra donne e uomini deriverebbero unicamente dal sesso biologico, e
riduzionistico, dato che la complessità delle differenze di genere viene ricondotta ad
un solo fattore. In questo modo, le concezioni stereotipiche in riferimento ad una
specifica suddivisione di ruoli e funzioni legate al sesso biologico vengono legittimate,
e qualsiasi cosa si discosti dalla naturalità è da considerarsi disfunzionale (Burr, 2000).
Per la sociologia, non è invece possibile pensare all’essere uomo o all’essere donna
come ad uno stato fissato dalla natura, e, contemporaneamente, non la si può nemmeno
considerare come una condizione imposta dall’esterno, dalla società o dalle istituzioni:
sono le persone stesse a costruire la propria identità di genere ogni giorno (Connell,
2011). I risultati di molte ricerche psicologiche mostrano come la maggior parte delle
persone combini in modi diversi caratteristiche considerate tipicamente maschili e/o
tipicamente femminili, anziché prediligere solo quelle legate al proprio sesso biologico
(ibidem). Le teorie sociologiche possono essere ricondotte in due filoni principali ed
opposti: l’essenzialismo e il costruzionismo sociale (Bagnasco, Barbagli, Cavalli,
2004). Il primo approccio punta l’accento sul dualismo assoluto fra i due sessi,
ponendo le differenze esistenti fra mascolinità e femminilità come naturali, universali
ed immodificabili, concludendo perciò che uomini e donne si nasce; il costruzionismo
sociale si focalizza invece sulla somiglianza fra i generi, leggendo le differenze fra i
sessi come una costruzione sociale, flessibile e mutabile nel contesto socioculturale e
temporale (ibidem).
1.3.1. L’approccio biologico
La ricerca scientifica del XIX secolo riteneva che la donna fosse inferiore all’uomo da
un punto di vista fisico ed intellettuale, in quanto, secondo gli studi anatomici
dell’epoca, il cervello femminile pesava meno di quello maschile. Paul Broca (1861)
fu uno degli studiosi principali a portare avanti questa teoria, poichè trovò una
differenza media di 180 grammi tra i due cervelli. Ne dedusse che la donna fosse meno
intelligente dell’uomo, dando per scontato che grandezza dell’encefalo ed intelligenza
fossero direttamente proporzionali. Tra i sostenitori moderni di questa “Teoria dei due
cervelli” troviamo Kimura (2000), che porta avanti l’idea che maschi e femmine
abbiano capacità differenti. Secondo i suoi esperimenti, le donne avrebbero maggiori
capacità linguistiche, e quindi una prevalenza dell’emisfero linguistico, mentre gli
uomini avrebbero migliori capacità visuo-spaziali, dovute ad un più sviluppato
emisfero destro. Ricerche successive hanno poi smentito questa teorizzazione (Toga
& Thompson, 2003).
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Nella seconda metà dell’Ottocento inizia poi a diffondersi il pensiero di Charles
Darwin (1859), scienziato che enunciò la teoria dell’evoluzione nel suo libro
“L’origine delle specie” (1859). Con questo libro, dove viene ribaltata la vecchia
concezione creazionista, Darwin afferma che l’equilibrio della natura è dato da un
processo di selezione naturale, dove tra le possibili variazioni morfologiche di un
individuo risulta sopravvivere l’individuo con la variazione più favorevole. In questo
modo il carattere più adattivo tende ad essere più frequente nelle generazioni
successive, e questi tratti favorevoli vengono così ereditati. Viene così ipotizzata una
sorta di lotta-selezione per la sopravvivenza, che favorisce gli individui che possiedono
le migliori caratteristiche: queste verranno trasmesse alla progenie, che avrà così
maggiori possibilità di sopravvivenza in quell’ambiente. Nella successiva opera
“Origine dell’uomo e la selezione sessuale” (1871) Darwin analizza la questione della
selezione sessuale, sostenendo che la scelta del partner sia anch’essa determinata da
meccanismi di lotta e sopravvivenza. Secondo l’autore, l’uomo sceglierebbe la donna
in base a criteri di maggior bellezza e quindi più attraenti, in quanto individuo spinto
da un forte desiderio sessuale, spesso promiscuo. Ciò lo rende competitivo verso gli
altri maschi nella possibilità di tramandare i suoi geni e la sua superiorità ai propri
figli. Le donne, anch’esse sottomesse a queste regole “naturali”, sceglierebbero il
partner secondo criteri di forza, per garantire la salvaguardia propria e dei propri figli,
in quanto naturalmente creature passive e riservate. Appare quindi evidente come in
questa visione il protagonista dell’evoluzione sia il maschio, mentre alla femmina
viene riservato un ruolo passivo. Per questo suo pensiero arcaico Darwin fu fortemente
criticato dal movimento femminista (Gelli, 2009).
Queste teorie sono state adattate dalla corrente del darwinismo sociale, che ha allargato
questi temi alla società, dando vita a un pensiero che proponeva come giustificazione
alle disuguaglianze sociali i concetti di sopravvivenza del più forte e di eliminazione
dell’individuo meno adatto. Queste idee vennero usate negli anni 30 per legittimare in
modo scientifico fenomeni come il colonialismo o l’iniqua distribuzione della
ricchezza presente nelle classi sociali. Alcuni autori, come Dobzhansky (1962),
sottolineano come i termini utilizzati da Darwin venissero volutamente travisati per
essere adattati ad un’ideologia sociale un po’ estremista, dove il concetto di selezione
naturale veniva applicato anche ai fenomeni sociali, estendendo il termine “lotta” ai
rapporti tra le nazioni, le classi sociali, le razze e i sessi. Ciò portò allo sfruttamento
dell’idea di “selezione naturale”, che venne utilizzata anche per etichettare come giusti
dei processi di “selezione artificiale”, operata ad esempio durante gli anni del nazismo
e dello sterminio degli ebrei. Il darwinismo sociale divenne quindi per certi versi un
mezzo per giustificare le lotte e le alleanze fra i popoli, le dottrine nazionalistiche e le
politiche sociali di discriminazione (La Vergata, 2005).
Un’altra corrente di studi che si fonda sull’approccio biologico è la sociobiologia,
definita dal suo fondatore Wilson come “Lo studio sistematico delle basi biologiche di
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ogni forma di comportamento sociale” (Wilson, 1975). Gli studi della moderna
sociobiologia si riallacciano alle teorie darwiniane, sostenendo che esistano dei
meccanismi biologico-evolutivi alla base del comportamento sociale (Wilson, 1980).
Clark & Grunstein (2001) sottolineano che da queste premesse ne derivi il fatto che
anche l’azione umana sia dovuta e controllata dalle caratteristiche genetiche: questo
permette di legittimare situazioni e ruoli sociali ben definiti, etichettati
tradizionalmente come quelli “corretti”. Vengono in questo modo validati dei pensieri
di tipo ideologico-politico riguardanti la società umana, rendendoli delle vere e proprie
teorie evolutive (Taurino, 2007). Basandosi sul sapere derivato dagli studi sulla
genetica, la sociobiologia trae previsioni sulla presenza di determinati modelli di
comportamenti all’interno di specifici gruppi sociali, sintetizzando in questo modo le
dinamiche sociali e psicologiche normalmente coinvolte nelle relazioni fra gli
individui e i loro gruppi. Possiamo avere così una spiegazione genetica delle qualità di
una persona, della sua intelligenza, della sua aggressività, e anche dei suoi gusti
sessuali. Se i geni determinano i comportamenti tipicamente maschili e quelli
tipicamente femminili, allora, sempre secondo questa disciplina, possiamo dire che
anche la predominanza dell’uomo sulla donna trova il suo fondamento nei geni, e
assieme ad essa anche la diseguaglianza di potere che ne deriva. Questa tesi è stata
portata avanti in modo molto forte da Wilson (1975), che nei suoi testi espone i suoi
studi su varie coppie di specie animali, affermando che anche in esse la dominanza
maschile è geneticamente predeterminata: le formiche da lui studiate mostravano
infatti delle sequenze comportamentali, per loro essenziali per sopravvivere, che non
potevano aver appreso da nessuno. L’autore prosegue nella sua trattazione allargando
i ragionamenti postulati verso le formiche anche all’essere umano, affermando che
anche la virilità, legata al ruolo del maschio fecondatore, forte e dominante, spinge
l’uomo a dedicarsi ad attività prettamente maschili, come la guerra, l’omofobia, il
dominio del prossimo e anche atti di coraggio per tutelare il proprio gruppo o la propria
famiglia (con cui condivide appunto una base genetica): il fine ultimo ed atavico di
queste attività sarebbe la spinta a voler trasmettere i propri geni. La donna, al contrario,
è associata ad attività caratterizzate dalla passività, dalla cura e dal supporto. Ciò porta
Wilson (1979) ad affermare che le differenze di genere stesse trovano le loro origini
nelle diverse strade seguite nel corso dell’evoluzione da maschi e femmine, laddove
l’uomo si dedicava in attività esterne al focolare domestico, ricoprendo ruoli di
prestigio nelle situazioni e negli ambienti esterni alla famiglia, mentre le donne
venivano messe da parte in queste situazioni, svolgendo invece le loro attività
all’interno della famiglia (Gelli, 2009).
Successivamente, con il filone di pensiero della coevoluzione, che può essere
considerato come la seconda fase dell’approccio sociobiologico, troviamo l’iniziale
visione rigida della sociobiologia mitigata dall’idea che l’uomo interagisca anche con
l’ambiente, che riesce ad influenzare la sua evoluzione. A questo proposito, la visione
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di Wilson riguardante il determinismo genetico non fu accolta completamente da
Dawkins (1976), che riteneva invece che l’essere umano fosse una creatura unica e
diversa dagli altri animali, in quanto fornito di “un cervello consapevole” che gli
permetteva di uscir fuori dalle rigide imposizioni dettate dai geni. L’autore distingue
in questo caso l’evoluzione animale da quella umana, ponendo l’uomo leggermente al
di sopra degli istinti genetici primordiali. Nell’uomo scatterebbe infatti un processo di
responsabilità e di fedeltà verso la propria compagna e i propri figli, spingendolo a
cooperare con la donna nella loro crescita e nelle routine familiari, anche se il ruolo
della donna nella cura della prole resterebbe sempre più forte. Dawkins (1976) fa poi
riferimento all’esistenza di società sia monogame che poligame, e questo lo porta
ancora di più ad affermare che, nonostante sia presente una base genetica, la cultura
decide in maniera importante come si svolgono molti dei comportamenti umani.
Succede quindi che anche la cultura, chiamata dall’autore “meme”, sia un replicatore
come il gene e sia in grado di creare una forma di evoluzione. Un esempio molto
grande di meme è il linguaggio, che viene trasmesso e si evolve in modo separato dai
geni. La differenza fra i geni e i memi sta nel fatto che, mentre i geni non concedono
all’evoluzione la possibilità di uscir fuori dai loro schemi predeterminati, i memi si
evolvono nel tempo e danno alle persone l’opportunità di evolversi in maniera
peculiare e autonoma. Questo nuovo concetto verrà ripreso più avanti da Wilson
(1998), che riconoscerà l’importanza della cultura e inizierà anch’egli a parlare di
coevoluzione, dove natura e cultura si ritrovano ad interagire (Gelli, 2009).
Sulla base di queste nuove intuizioni, è possibile sostenere che la cultura venga
modellata dai processi biologici, ma allo stesso tempo i processi biologici siano
influenzati da essa. Infatti, la strutturazione del cervello data da particolari geni viene
influenzata dalla cultura, in quanto la selezione naturale agisce sugli individui
premiando quelli con strutturazioni mentali particolari, idonei al contesto
socioculturale (Manghi & Parisi, 1986). Esiste quindi una causalità circolare tra geni
che influenzerebbero la struttura del cervello, con grande rilevanza della retroazione
dei fattori culturali nella selezione dei geni adattivi (Taurino, 2005).
1.3.2. Il pensiero sociologico: dall’essenzialismo sociale agli autori critici
La sociologia classica, assumendo come unità di studio l’istituzione sociale della
famiglia e la sua evoluzione nel corso degli anni, si è interessata alle tematiche
connesse alle differenze di genere, partecipando alla definizione dei ruoli di uomini e
donne nella gestione del lavoro domestico ed extradomestico (Adorni, Migliozzi &
Suzzi, 1996).