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L’interesse per lo sviluppo “dal basso” era dovuto anche all’intenzione
di porre un argine tanto alla deresponsabilizzazione dei soggetti e
delle aree destinatarie degli interventi quanto alla genericità
dell’impostazione data, a livello centrale, alle politiche di intervento.
A questa filosofia va ricondotta la nascita di alcuni strumenti
della programmazione negoziata ed in particolare del “Patto
Territoriale”, che è un accordo promosso da soggetti locali, pubblici e
privati, per l’attuazione di un programma integrato di interventi,
produttivi ed infrastruttutrali, caratterizzato da precisi obiettivi di
promozione dello sviluppo locale.
A partire dal 1996 sono stati approvati in Italia 61 patti
territoriali prevalentemente ubicati nel Sud dell’Italia. Un patto è stato
promosso nell’area metropolitana di Bari che, pur essendo una delle
aree più dinamiche e meno arretrate del Mezzogiorno, presenta ancora
sensibili divari economici rispetto al più sviluppato Centro-Nord.
L’obiettivo di questo lavoro è stato quello di individuare nuove
progettualità all’interno del patto territoriale manifatturiero e dei
servizi di Bari, partendo dalle esigenze delle piccole e medie imprese
che sono i veri attori dello sviluppo di un territorio.
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Nella prima parte ho cercato di cogliere le motivazioni sociali
ed economiche che hanno portato alla nascita di questo strumento di
politica economica, partendo dalle critiche all’intervento straordinario
e considerando le nuove strategie imposte dall’Unione Europea per
l’utilizzo dei fondi strutturali.
Sono state analizzate le caratteristiche fondamentali di un patto,
che vanno dallo sviluppo “dal basso” al protagonismo della classe
dirigente, dalla concertazione al partenariato, tutte importanti per il
raggiungimento degli obiettivi di sviluppo territoriale.
Infine nel novembre del 2000 è stata realizzata un’indagine
rivolta a 40 imprese coinvolte nel patto di Bari, allo scopo di coglierne
le caratteristiche ma soprattutto le esigenze e gli ostacoli, interni ed
esterni all’azienda, che impediscono lo sviluppo pieno delle stesse e
del territorio. Si è posta attenzione, in particolare, all’innovazione
tecnologica, al commercio con l’estero, all’integrazione con le altre
imprese, ed al contesto ambientale relativo sia al mercato del lavoro
che alla situazione infrastrutturale.
Dall’analisi è emerso un quadro interessante per alcuni aspetti
quali la capacità della classe politica ed amministrativa di guidare la
crescita locale ed il dinamismo delle piccole e medie imprese che, pur
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se afflitte da numerosi problemi, sono riuscite negli ultimi anni a
sopravvivere ed in alcuni casi a consolidare il sistema produttivo
locale suscitando interesse per le forme di sviluppo nascenti. Il patto,
però, resta uno strumento ancora molto giovane, radicalmente
differente rispetto a quelli del passato perché più sofisticato e difficile
e pertanto più fragile e rischioso negli esiti finali. Ha bisogno, quindi,
di tempo per mettere a frutto il nuovo modo di fare economia, per
acquisire esperienza e sedimentare modelli di riferimento, e per
superare i residui del passato ancora presenti come il clientelismo, la
mancanza di cultura imprenditoriale e la presenza di una burocrazia
corporativa ed inefficiente, che condizionano le scelte, la gestione ed
il controllo dell’azione pubblica
Sono grato al prof. G. Novelli per avermi dato l’opportunità di
approfondire e svolgere alcune considerazioni su un tema attuale e di
così grande interesse.
Ringrazio cordialmente il prof. S. Troiani e il dott. F. D’Ovidio
per il sostegno tecnico che mi hanno dato nell’impostare correttamente
l’indagine statistica e nella successiva fase di rielaborazione dei dati.
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Un grazie a tutti gli imprenditori e ai testimoni privilegiati che
hanno messo a mia disposizione una parte del loro tempo e delle loro
informazioni utili per questa ricerca.
Ringrazio vivamente Francesca per l’aiuto morale e materiale
che mi ha fornito durante la stesura del presente lavoro.
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CAPITOLO PRIMO
Il contesto socio-economico
Gli anni ‘90
1. L’abbandono dell’intervento straordinario
Sul finire del 1992, una legge dello Stato, la 488, poneva fine
all’intervento straordinario nel Mezzogiorno ma non poneva
assolutamente fine al problema del suo sviluppo. “Nonostante i
progressi compiuti dal dopoguerra ad oggi per quanto concerne le
condizioni di vita e la capacità produttiva, in particolare lungo il
litorale adriatico, la struttura produttiva delle regioni meridionali
rimane ancora carente e poco integrata, la dotazione infrastrutturale
inadeguata, il funzionamento delle amministrazioni locali e dei servizi
da essi gestiti poco efficiente, la cultura imprenditoriale poco
sviluppata.” (A. ZULIANI, Dualismo e Mezzogiorno, in “Rassegna
Economica” n.1 1996).
Nei dibattiti successivi alla legge 488 e al d.lgs n. 96/93, il
cosiddetto decreto Andreatta, che pose definitivamente fine
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all’intervento straordinario, emerse una forte ed unanime indicazione:
per lo sviluppo delle aree depresse, e del Mezzogiorno in particolare,
occorreva ridurre al minimo il problema della dipendenza dall’esterno
sia che si tratti di investimenti privati che di investimenti pubblici per
far emergere le potenzialità dei soggetti locali in modo tale che
all’amministrazione centrale si chiedesse solo di fornire un sostegno
alle proposte di sviluppo piuttosto che di surrogarle.
Tale indicazione era la sintesi di tutte le critiche rivolte
all’intervento straordinario tra le quali una delle più fondate era che
tale intervento si era concretizzato nella realizzazione di opere
rientranti nella sfera dei compiti ordinari delle diverse amministrazioni
dello Stato.
L’abbandono dell’intervento straordinario era legato ad alcuni
mutamenti radicali nello scenario italiano che, all’inizio degli anni ’90
provocarono il cambiamento del Mezzogiorno ed in parte anche del
resto dell’Italia.
Il primo cambiamento riguardava la politica economica. Nei
decenni precedenti il ruolo dello Stato era stato caratterizzato da una
grande espansione della spesa pubblica che aveva portato negli anni
ottanta ad una crescita vertiginosa del debito pubblico.
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Successivamente, con il passaggio da una fase economica opulenta,
basata sulla crescita del debito, alla più grave crisi congiunturale del
dopoguerra, viene avviata dal primo governo Amato una gestione
macroeconomica di estremo “rigore” di bilancio. Tale impostazione,
finalizzata al risanamento dei conti pubblici e all’ingresso dell’Italia
nell’Unione Europea, non sarà modificata neanche dai governi
successivi.
In questo quadro, con la chiusura dell’intervento straordinario e
delle modalità storiche di interventi nel Sud, come le Partecipazioni
statali, il flusso di risorse pubbliche verso il Mezzogiorno si riduce
sensibilmente. Ciò richiedeva pertanto un’allocazione più ottimale
delle ridimensionate risorse pubbliche nelle aree depresse, e gli
strumenti della legge 64 in questo non erano considerati adeguati
perché in passato erano stati fonti di sperpero.
Un altro rilevante cambiamento riguardava lo scenario politico
italiano. Con l’avvento di Tangentopoli, scompare la classe politica
che aveva governato ininterrottamente dal secondo dopoguerra e sulla
quale si basava tutto il sistema redistributivo emerso nell’ultimo
ventennio. Ma soprattutto si andava modificando la concezione della
forma di Stato: da una concezione centralista connessa all’intervento
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straordinario, si andava verso una concezione federale che richiedeva
strumenti nuovi di sostegno alle aree depresse.
Altro importante cambiamento riguardava l’Unione Europea ed
il ruolo centrale assunto dai fondi strutturali nell’ambito delle
politiche per il Mezzogiorno.
Il decreto Andreatta rispondeva anche ad esigenze di livello
comunitario. Bisognava, infatti, ricondurre ad omogeneità i regimi di
ausilio pubblico all’iniziativa economica vigenti sul mercato comune,
così da assicurare una situazione di parità concorrenziale tra gli
operatori europei.
Occorreva soprattutto una riforma di lungo termine delle
strutture e delle procedure amministrative che consentisse di utilizzare
i fondi strutturali, che avrebbero dovuto costituire la grande leva
finanziaria di supporto all’economia meridionale per promuovere le
infrastrutture delle aree deficitarie, elevandole allo standard europeo.
Fondi che fino ad allora erano stati ben lungi dall’essere utilizzati
appieno.
Con il varo del Quadro Comunitario di Sostegno 1994-99, viene
completamente modificato l’approccio e il funzionamento dei fondi
strutturali, in primo luogo perché si afferma che gli stessi dovrebbero
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essere complementari e non sostitutivi dei fondi nazionali e regionali,
come invece era avvenuto fino al 1993. L’importanza dei Fondi
dipendeva poi dalla capacità di contrastare i connotati più negativi
della realtà meridionale: mala amministrazione, clientelismo,
corruzione. Il contatto, infatti, con le regole comunitarie cominciava a
modificare le modalità stesse di azione della pubblica amministrazione
nel Mezzogiorno. Si riduceva così il rischio di inclusione, nei Piani
Operativi Regionali, di programmi di dubbia efficacia, perché gli
interventi progettati dovevano rispettare dei requisiti minimi di
validità. Si affermava anche l’importanza della corretta pianificazione
territoriale, la cui mancanza negli anni dell’intervento straordinario era
stata fonte di degenerazione della spesa pubblica.
Altri aspetti interessanti della nuova impostazione dei Fondi
riguardavano le fasi del monitoraggio e della valutazione, e
l’affermarsi della logica “bottom up” secondo la quale le Regioni non
erano più solo esecutrici ed erogatrici, ma anche in misura crescente,
luoghi della decisione e della scelta.
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Questa nuova impostazione ha trovato applicazione normativa
in tempi successivi, nei provvedimenti che hanno accompagnato il
passaggio dall’intervento straordinario a quello ordinario. La prima
legge, infatti, di disciplina dei patti, legge n.341/95, parlava di
promozione dello sviluppo “in linea con gli obiettivi o gli indirizzi
allo scopo definiti nel Quadro Comunitario di Sostegno, il quale
presuppone l’esistenza di un ampio partenariato tra gli operatori locali
dello sviluppo, pubblici e privati, e la definizione di una strategia di
intervento nel territorio interessato basata sull’individuazione delle
potenzialità e dei limiti e su strutture in grado di mettere in contatto la
domanda con l’offerta mediante la fornitura di “pacchetti organici ed
integrati.” (M.ANNESI, I “patti territoriali”, in “Rivista Giuridica del
Mezzogiorno”, n. 3 1996).
Il venir meno degli strumenti tradizionali di intervento nel
Mezzogiorno aveva prodotto delle conseguenze negative perché la
nuova normativa di incentivazione nelle aree depresse non viene
completata che nel 1996. “Con l’inizio degli anni novanta si ha un
grande vuoto di intervento; si diffonde la percezione sempre più netta
che la legislazione di incentivo sia tanto generosa nella forma quanto
incerta nella sostanza. Questo avviene proprio nel pieno della più forte
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recessione del dopoguerra, rendendo così molto più debole il positivo
effetto anticiclico proprio delle politiche pubbliche: il Meridione è
abbandonato dalle politiche di sviluppo proprio quando ne ha più
bisogno.” (G. BODO – G. VIESTI, La grande svolta. Il Mezzogiorno
nell’Italia degli anni ’90, Roma 1997).
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2. La programmazione negoziata
L’abbandono dell’intervento straordinario per le aree depresse
del Mezzogiorno rispondeva, quindi, ad esigenze economiche,
politiche e di rispetto degli obblighi d’integrazione posti dall’Unione
Europea. Questo processo aprì la strada ad un nuovo modello di
programmazione economica che rifletteva anche il decentramento
amministrativo dell’azione pubblica, posto in essere negli ultimi anni,
in cui gli orientamenti nazionali per lo sviluppo economico si saldano
con le politiche regionali e locali, utilizzando le capacità propositive
delle parti sociali presenti sul territorio.
In particolare a partire dal ’92 l’intervento pubblico per le aree
depresse è stato caratterizzato da un considerevole ampliamento della
gamma degli strumenti. Allo scopo di razionalizzare e coordinare gli
interventi ordinari di politica economica, sono state costruite delle
nuove modalità di rapporto tra i soggetti della complessa ed articolata
filiera istituzionale che va dall’UE al governo centrale, alle
amministrazioni locali, interfacciandosi con l’imprenditoria, le
rappresentanze degli interessi, le autonomie funzionali, i saperi ed il
mondo bancario e finanziario. Sono stati così definiti i criteri e le
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direttive per il coordinamento degli interventi nelle aree a deficit di
sviluppo o di crisi.
Questo impegno è stato inquadrato nel complesso delle forme
della programmazione negoziata di cui i patti territoriali sono una
componente importante.
Si imponeva così una nuova concezione della contrattazione
programmata: da strumento quadro per definire i rapporti dello Stato
con l’imprenditoria privata ad una pluralità di strumenti atti a definire
i rapporti dello Stato con una pluralità di soggetti pubblici e privati
anche contemporaneamente (programmazione negoziata). Ed è in
questo ambito che trovava accoglienza anche il principio della
concertazione delle azioni fra le parti sociali in particolare fra
sindacati, rappresentanze degli imprenditori ed amministrazioni dello
Stato.
L’aspetto innovativo della programmazione negoziata
riguardava la piccola rivoluzione amministrativa che con l’uso di
schemi negoziali affianca e sostituisce le espressioni classiche della
pubblica amministrazione che oltre ad esprimersi con atti unilaterali,
può ricorrere alle forme di negoziato e dell’accordo.