Silvia Lippi
Nuove guerre, nuove forme di giustizia e riconciliazione sociale
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Il mio interessamento nei confronti di tali conflitti mi ha portato ad analizzare,
nel secondo capitolo, le caratteristiche che contraddistinguono le guerre etniche,
ponendo particolare attenzione al “grado strutturale” di violenza in esse presente, ed
alle forme che tale violenza assume.
Ho approfondito in particolare lo studio del concetto di male, chiedendomi se
esista un male radicale, fine a sé stesso, oppure solo un male banale, comune, ordinario,
il quale si oggettivizza poi in una “violenza inutile”.
Dopo essere arrivata alla conclusione che ci troviamo in presenza di un “male
ordinario con conseguenze straordinarie”, facendo riferimento, oltre che ai testi
bibliografici, alla normativa internazionale in materia, ho concentrato la mia attenzione
sui metodi di svolgimento di tali conflitti, andando ad approfondire categorie di crimini
quali il genocidio, la pulizia etnica ed i crimini di genere, fondamentali proprio per
comprendere i nuovi conflitti.
Nel terzo capitolo ho preso in esame il percorso storico e normativo che ha
portato alla nascita di una giustizia penale internazionale, partendo dai processi del
dopo Seconda Guerra Mondiale di Norimberga e Tokyo, fino ad arrivare ai Tribunali
Internazionali creati sia in ambito europeo (ex Jugoslavia), che extraeuropeo (Sierra
Leone, Rwanda) ed internazionale (Corte Penale Internazionale, Corte Internazionale
di Giustizia).
Anche in questo caso l’analisi è stata svolta preferendo un approccio sociologico
ad uno meramente giuridico, il che mi ha portata a mettere in luce la funzione
costruttiva che la giustizia posteriore ad un conflitto etnico deve avere.
Dopo aver fatto tale analisi del panorama giuridico internazionale, nel quarto
capitolo ho affrontato lo studio della giustizia transizionale, cuore di questo lavoro.
Mi sono innanzitutto chiesta per quale motivo si senta il bisogno di affiancare ai
processi penali una nuova forma di giustizia che non abbia come fine precipuo
esclusivamente quello di punire comminando una pena, ed ho spiegato tale bisogno
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collegandomi idealmente alle caratteristiche proprie delle nuove guerre
precedentemente analizzate.
I crimini contro l’umanità non creano solamente una vittima nel senso giuridico
del termine, ma provocano soprattutto una frattura sociale che un semplice
procedimento penale non può e non sa sanare, ed è a questo punto che si innesta il
lavoro svolto dalla giustizia transizionale.
Attraverso l’analisi del trauma, e facendo specifico riferimento al saggio di
Alexander Jeffrey, La costruzione del male, il quale in particolare studia come il concetto
di Olocausto si sia evoluto nel corso dei decenni da crimine di guerra a trauma
collettivo per l’intera umanità, sono giunta ad analizzare la memoria collettiva ed il
ruolo che essa svolge all’interno di un gruppo sociale.
In quanto collante ideologico dell’identità del gruppo, la memoria collettiva
viene studiata ed assunta dalla giustizia transizionale come strumento di lavoro, ed è
per questo motivo che mi sono soffermata sull’analisi dei metodi utilizzati per
ricostruirla, in particolare la costruzione di memoriali in ricordo delle vittime e la
creazione di organi di investigazione sul passato.
E’ qui che si inserisce l’analisi delle Commissioni per la Verità e la
Riconciliazione, veri e propri organi di carattere para giudiziario che si assumono il
compito di indagare il passato, ricostruire la verità, molte volte condannare i colpevoli,
il tutto teso alla riconciliazione sociale.
Avendo notato che numerosi autori parlano di riconciliazione in termini di
perdono del male subito e fanno coincidere questo perdono con il punto di arrivo del
percorso della giustizia transizionale, ho dedicato un paragrafo allo studio di quale
forma di perdono possa scaturire dal processo di riconciliazione, ed ho notato che se
da un lato gli studiosi propendono per un perdono necessario ed anzi indispensabile
per la convivenza futura, dall’altro i superstiti, e più in generale coloro che hanno
vissuto un genocidio in prima persona, propendono per una tesi che invece lo nega.
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Nel quinto capitolo, infine, ho condotto uno studio specifico su un caso
particolare, mosso esclusivamente da un interesse personale, quello per lo Stato
africano del Rwanda.
Seguendo le linee generali demarcate nei capitoli precedenti, ho analizzato tanto
il conflitto etnico quanto il genocidio del 1994 da un punto di vista primariamente
sociologico, volendo mettere in luce quali profonde spaccature sociali abbia prodotto il
genocidio nella società, e quindi quale sia poi il compito effettivo che la giustizia
transizionale debba svolgere, senza peraltro trascurare il necessario inquadramento
storico.
Il caso del Rwanda, proprio perché gli antagonismi etnici sembrano aver
raggiunto un “punto di non ritorno”, pone in modo forte il problema del perché si sia
scatenata una violenza interetnica così brutale.
La stessa storia esige che la genesi degli avvenimenti dell’aprile del 1994 ed il successivo
genocidio siano ricostruiti nel quadro dello svolgimento di una crisi politica ed
economica scandita da varie fasi.
Il conflitto rwandese non è quindi un prodotto della fatalità, né una reazione
popolare incontrollabile causata da ataviche paure ed istinti di difesa, né è il segno di
una “barbarie” specifica dell’Africa.
Purtroppo però, il messaggio che ci viene trasmesso dai mezzi di comunicazione di
massa è che i drammi dell’Africa siano causati dal periodico scoppiare di odio etnico
atavico ed ancestrale contro il quale nulla si può.
L’opinione pubblica occidentale, ignara e distratta, resa indifferente dalle
immagini ormai quotidiane di troppe tragedie spesso ignorate, trova comodo ed
assolutorio credere che le crisi africane siano geneticamente inscritte in identità etniche
esclusive, ereditate da tradizioni tribali oscurantiste.
Per sfatare in qualche modo il mito dell’Africa selvaggia, periodicamente
percorsa da brutali ondate di violenza, ho dato particolare rilievo alle testimonianze,
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alla letteratura autobiografica, molto florida in materia, piuttosto che concentrarmi
esclusivamente sui manuali storici ed etnografici.
La stessa storia del Rwanda è stata da me analizzata da un punto di vista in primis
sociologico, mettendo quindi in luce la struttura della società rwandese pre e post
colonizzazione, ed in particolare ho teso a sottolineare come lo scoppio della violenza
etnica non sia stato una conseguenza di una presunta differenza tra le due etnie tutsi ed
hutu, quanto piuttosto la conseguenza di un retaggio culturale instillato nella
popolazione nel corso dei secoli.
Ho studiato quindi tutti gli aspetti che, a mio avviso, permettono di classificare
il conflitto fra hutu e tutsi come una “nuova guerra”, dalla creazione di un’identità etnica
e la costruzione di un nemico interno, fino ad arrivare all’utilizzo di pratiche
genocidiarie nel corso del conflitto.
L’esistenza di una spaccatura sociale che ha creato un sentimento di profonda
sfiducia nel popolo rwandese ha reso necessaria l’applicazione di una giustizia di tipo
transizionale in un Paese che pur tuttavia vede l’esistenza di un Tribunale
Internazionale, e le Corti Gaçaça, analizzate nel paragrafo conclusivo del capitolo, sono
proprio il mezzo particolare che il Governo rwandese ha scelto di utilizzare in alternativa
ad una Commissione per la Verità e la Riconciliazione.
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CAPITOLO 1
LE NUOVE GUERRE
1.1. Come è cambiato il concetto di guerra nel corso dei secoli
Nel corso dei secoli la concezione della guerra è notevolmente cambiata; quello
che una volta era uno scontro tra popoli volto alla conquista di nuovi territori oggi è
diventato sempre più spesso uno scontro tra civiltà, tra culture, tra usi e costumi che
inevitabilmente sono differenti da una parte all’altra del mondo.
Clausewitz definì la guerra un’attività sociale, un “atto di forza che ha per scopo di
costringere l’avversario a seguire la nostra volontà”,
1
presupponendo con questo che i
soggetti dei combattimenti fossero gli Stati.
La concezione classica della guerra, quindi, comportava la mobilitazione e
l’organizzazione di uomini allo scopo di infliggere una violenza fisica, un atto
intimamente legato all’evoluzione dello stato moderno.
Van Creveld scrisse: “Per distinguere la guerra dal semplice crimine, la si definì
come qualcosa che poteva essere intrapreso dagli stati sovrani e da essi soltanto”
2
.
Ed in effetti, nel XVII e XVIII secolo, erano gli Stati assolutisti che combattevano, con
eserciti composti prima da coalizioni di baroni feudali, e poi da mercenari, i quali però,
per forza di cose, non potevano assicurare fedeltà al Re che li aveva ingaggiati.
In questi secoli l’obiettivo della guerra è solitamente un conflitto dinastico
3
o un
consolidamento dei confini, sempre mascherati da interesse nazionale dello Stato.
1
Cfr. C. VON CLAUSEWITZ, Della Guerra, Mondadori, Milano, 1997, p. 19
2
Cfr. M. VAN CREVELD, La transformation de la guerre, Editions du Rocher, Paris, 1998, p. 22
3
Ad esempio la guerra dei trent’anni (1618-1648), la cui prima origine fu il contrasto tra protestanti e
cattolici, complicato da quello fra il potere imperiale e le autonomie territoriali germaniche, o la guerra
di successione spagnola (1701-1714), che seguì la successione a Carlo II di Filippo V, nipote di Luigi
XIV Re di Francia, o le guerre di religione tra cattolici ed ugonotti che insanguinarono la Francia nel
XVI secolo.
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Nel XIX secolo i soggetti combattenti divennero gli Stati nazione, sorti dalle
grandi guerre del XVIII secolo, ed uniti da alleanze che avevano cominciato a
consolidarsi verso la fine del secolo.
Gli eserciti cominciarono a cambiare conformazione; divennero permanenti, il che
portò ad un rapido processo di monopolizzazione della violenza, ed erano composti da
forze militari specializzate e professionali.
Infine, un altro elemento importante proprio del XIX secolo fu la codificazione
delle leggi di guerra che prese avvio alla metà del secolo con la Dichiarazione di Parigi
del 1856
4
.
Un corpo di leggi di guerra già esisteva nel Medioevo, il cosiddetto jus in bello, ed era
derivato dalle prescrizioni dell’autorità papale.
Van Creveld scrisse che i soldati, per ottenere la licenza, “dovevano essere
accuratamente registrati, contrassegnati e controllati, così da escludere ogni atto
arbitrario. Essi potevano combattere solo se indossavano l’uniforme, se portavano le
loro armi “apertamente” e se obbedivano a un comandante responsabile delle loro
azioni. Non potevano fare ricorso a metodi “vili” come violare un armistizio, prendere
di nuovo le armi dopo che erano stati fatti prigionieri e simili. La popolazione civile
doveva essere lasciata da parte, nella misura in cui lo consentivano le “necessità
militari”.
5
Questi principi base dello jus in bello sono poi gli stessi che vennero in seguito
ripresi e codificati nella Convenzione di Ginevra del 1864
6
, ispirata da Henri Dunant,
fondatore della Croce Rossa Internazionale, nella Dichiarazione di San Pietroburgo del
1868, la quale sancisce il principio secondo cui il solo obiettivo che gli Stati possono
4
La Dichiarazione di Parigi, in particolare, regolamentava il commercio marittimo in tempo di guerra.
5
Cfr. M. VAN CREVELD, op. cit., p. 41
6
La Convenzione per il miglioramento delle condizioni dei feriti nelle armate sul campo di battaglia, sottoscritta a
Londra il 22 agosto 1864 ed abrogata dalla successiva Convenzione del 1906, è stata la prima
convenzione in materia, sottoscritta dai rappresentanti di 12 governi compresi gli USA, unica potenza
non europea rappresentata in tale sede.
8
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legittimamente perseguire in guerra è quello di indebolire le forze militari del nemico
7
,
nelle Conferenze dell’Aja del 1899 e del 1907
8
, creando così un corpus di diritto
internazionale riguardante la condotta della guerra e le sue regole.
Nel XX secolo il continente europeo venne sconvolto da due conflitti mondiali
che cambiarono ancora una volta la definizione di guerra, coniando il nuovo concetto
di “guerra totale”, con riguardo alla mobilitazione di mezzi ed uomini che coinvolse
ogni strato della popolazione.
Il concetto di “guerra totale” si avvicina notevolmente, ed anzi si collega, a quello di
“guerra assoluta” delineato da Clausewitz; tesi centrale de Della Guerra è, infatti, che la
guerra tenda verso gli estremi muovendosi su tre livelli: quello dello Stato impersonato
dai capi politici, quello dell’esercito impersonato dai generali e quello del popolo
impersonato dai cittadini.
Ognuna di queste tre componenti gioca un suo preciso ruolo; i capi politici
aumentano la pressione politica in vista delle resistenze incontrate nel perseguimento
dei propri obiettivi, i generali devono aumentare il grado di violenza per poter
difendere le proprie truppe e le posizioni conquistate, mentre il popolo viene investito
da passioni ed ostilità che la guerra scatena in lui; la guerra diventa “assoluta” poichè
non è più un affare di Stato ma investe anche tutti i substrati sociali.
L’esercito che scende in campo non è più composto solo da soldati professionisti ma
anche da semplici cittadini, mossi da sentimenti ed ideali che li spingono a combattere
per difendere la loro patria.
Nella Prima Guerra Mondiale il patriottismo rappresentò una ragione
sufficientemente forte per chiedere un sacrificio a tutti gli europei, mentre la Seconda
7
Tale prescrizione è alla base del fondamentale principio di distinzione, da rispettarsi in ogni tempo ed
in ogni circostanza, fra combattenti e popolazione civile.
8
La Convenzione internazionale dell’Aja su leggi ed usi della guerra terrestre fu conclusa da 26 Stati contraenti,
mentre la Convenzione concernente i diritti ed i doveri delle Potenze e delle persone neutrali in caso di guerra per terra
del 1907 fu conclusa da 42 Stati contraenti.
9
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Guerra Mondiale fu per le nazioni alleate una “guerra contro il male”, combattuta per
difendere il proprio stile di vita di fronte alla barbarie del nazismo.
Il nuovo assetto politico del XX secolo, invece, è costituito da coalizioni di Stati
che sono legati tra loro da interessi economici e geopolitici; questo fa sì che il leitmotiv
della guerra sia il conflitto nazionale ed ideologico.
Nel corso degli anni Novanta commentatori e specialisti di relazioni internazionali si
sono esercitati in un serrato confronto sugli scenari planetari emergenti, disegnando
diversi panorami: la “fine della storia” di Fukuyama
9
, lo “scontro di civiltà” di
Huntington
10
, l’ “anarchia imminente” di Kaplan
11
, la ”guerra civile molecolare” di
Enzensberger
12
.
9
Nel suo più celebre saggio politico, The end of history and the last man, Fukuyama interpreta la storia
dell’umanità come un unico processo di evoluzione, i cui motori sono lo “spirito della scienza”, ovvero
la tendenza dell’uomo ad evolvere il proprio modo di vivere attraverso le conoscenze e le scoperte
tecnologiche, e il “desiderio di riconoscimento”, ovvero la sua vocazione a vedersi riconosciuti la sua
identità e i suoi diritti da parte dei propri simili, desiderio che si attua per Fukuyama nella sua
dimensione storica con la democrazia, che risulta proprio dal desiderio di riconoscimento divenuto
aspirazione universale, appartenente quindi a tutto il popolo.
Tale processo di evoluzione termina alla fine del XX secolo, ed i motivi di questa “stagnazione
evolutiva” sono principalmente la scienza naturale, l’economia moderna e l’emancipazione.
La concezione lineare della storia di Fukuyama, concepita come unidirezionale ed universale, si
contrappone alla visione degli storici greci, in particolare Platone ed Aristotele, i quali parlavano di un
procedere “ciclico” degli eventi e di un continuo passaggio tra le diverse forme di governo.
La democrazia liberale è, per Fukuyama, la meta ultima della vicenda storica di ogni popolo, in quanto
arriva dopo il fallimento di altri esperimenti politici che hanno ammesso la loro sconfitta
trasformandosi in liberalismo, un liberalismo democratico che per Fukuyama è l’ultima possibilità per
l’uomo, ed è anche la migliore poiché non può degenerare in niente di peggio e non è essa stessa
degenerazione di nessun altra forma politica.
Per approfondire cfr. F. FUKUYAMA, The end of history and the last man, Free Press, New York, 1992,
trad. it. di D. CENI, La fine della storia e l’ultimo uomo, BUR, Milano, 1996.
10
La teorizzazione più nota della teoria euro-asiatica di Mckinder, la quale voleva una contrapposizione
tra il mondo occidentale ed il “cuore territoriale euroasiatico”, è quella di Samuel Huntington,
contenuta nel saggio “The Clash of Civilizations?”, pubblicato su «Foreign Affairs», vol.72 n.3, Summer
1993.
Huntington propone una variante del sistema dei blocchi basata sull’identità culturale anziché
sull’ideologia, dal momento che egli afferma che “la divisione dell’umanità lungo le linee della Guerra
Fredda è finita. Resta ora la divisione più fondamentale lungo le linee etniche, religiose e di civiltà che
producono nuovi conflitti.”.
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Tale conflitto rimarrà tuttavia radicato nella società al punto che sarà la colonna
portante di quelle che gli storici ed i politologi chiamano “le nuove guerre”, o “conflitti
postmoderni”, l’evoluzione moderna del concetto di guerra messa di fronte agli
sconvolgimenti del XXI secolo.
Proprio nel secolo in corso, le guerre tradizionali fra Stati sovrani che si
scontrano a livello internazionale sono diventate, dopo la fine della Guerra Fredda,
l’eccezione piuttosto che la regola.
Un numero sempre crescente di conflitti armati viene classificato come guerre civili o
interne, o ancora considerato come azioni di polizia o conflitti “striscianti”.
Huntington sostiene che stiamo entrando in un mondo caratterizzato dalla compresenza di più civiltà,
nel quale il meccanismo vincolante per società e gruppi di Stati sarà rappresentato dalla cultura anziché
dall’ideologia, e questo perchè secondo lui “le civiltà sono le forme tribali ultime e lo scontro tra le
civiltà è il conflitto tribale su scala globale […] I rapporti tra gruppi di civiltà diverse […] non saranno
quasi mai stretti, ma piuttosto freddi e spesso ostili.”.
Dopo aver distinto sei o sette civiltà principali, egli afferma che la contrapposizione più importante
nell’attuale ordine globale sia quella tra l’Occidente da un lato, e l’Asia dall’altro, vista come una
minaccia a causa della sua rapida crescita economica.
Per approfondire cfr. S. HUNTINGTON, The Clash of civilizations and the remaking of world order, Simon e
Schuster, New York, 1996.
11
La teoria di Kaplan delinea un mondo diviso in due, con i Paesi sviluppati minacciati da un sub-
mondo in sviluppo con Stati disintegrati, corruzione e violenza, come afferma nel saggio The coming
anarchy, pubblicato su «Atlantic Monthly» del febbraio 1994, o nel libro R. D. KAPLAN, The coming
anarchy. Shattering the dreams of the Post Cold War, Random House, New York, 2000.
Con riguardo ai conflitti che hanno insanguinato il continente africano, Kaplan annuncia che l’Africa è
sull’orlo di un caos irreversibile, del quale, a suo parere, la sovrappopolazione, le epidemie, il degrado
dell’ambiente e la diffusione della criminalità costituiscono le principali minacce contro la sicurezza, e,
sempre a suo parere, gli occidentali non dispongono di mezzi adeguati per contrastarle.
Alcuni attribuiscono proprio alla “dottrina Kaplan” la reticenza dell’amministrazione Clinton ad
intervenire nel genocidio in Rwanda.
12
Enzensberger, nel suo Prospettive sulla guerra civile, traccia un quadro volutamente apocalittico di un
mondo che sembra aver perso memoria dei valori etici fondamentali nell’esplosione violenta dei più
egoistici interessi di parte.
Egli infatti riscontra come, con la fine dell’ordine bipolare, si stia assistendo all’esplosione di una
miriade di guerre civili, sempre più crudeli e sempre più incontrollabili, che scaturiscono da mille
focolai di violenza, che secondo lui creano una situazione di “guerra civile molecolare”.
Per approfondire cfr. H. M. ENZENSBERGER, Prospettive sulla guerra civile, Einaudi, Torino, 1994.
11
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A chi ritiene che questo nuovo tipo di conflitto sia sorto come per magia dal nulla,
Hannah Arendt risponde che è la logica conseguenza degli scontri armati dei secoli
passati; nel suo libro sulla rivoluzione, dice che la quantità di violenza scaturita dalla
prima guerra mondiale era talmente forte da incanalarsi poi in una serie di episodi che
hanno coinvolto quasi tutti i Paesi del globo
13
.
Le caratteristiche di queste nuove guerre sono talmente marcate che non è
difficile tracciare una linea di distinzione tra le guerre civili, come vengono classificate
quasi tutti i conflitti scoppiati nel XXI secolo, e le guerre tradizionali.
Per essere definita “civile”, innanzitutto, una guerra deve essere combattuta da cittadini
dello stesso Stato, gli uni contro gli altri, il che fa notare una certa contiguità, ma non
un’assimilabilità, con le guerre di religione: infatti non sono assimilabili in quanto
mentre la guerra di religione è anche una guerra civile, non è solo civile perché non ha
nella comune cittadinanza dei contendenti l’elemento unico ed essenziale di distinzione
tra le due parti in lotta.
Posto che la definizione delle nuove guerre non possa presupporre da quella di
guerra civile, la riflessione investe il campo sociologico quando ci si chiede cosa venga
spezzato dalla guerra civile.
La risposta può essere di due ordini: da un primo punto di vista la guerra civile rompe
lo Stato, dal momento che distrugge il monopolio della violenza legittima a questo
riservato.
Max Weber teorizza infatti il concetto secondo cui lo Stato moderno sarebbe
caratterizzato proprio dal monopolio della violenza legittima, ed in questo senso gli
unici ad avere diritto ad usare le armi sono gli Stati
14
.
13
Cfr. H. ARENDT, Sulla Rivoluzione, Edizioni di Comunità, Milano, 1983, p. 120
14
Cfr. M. WEBER, Economia e Società, Edizioni di Comunità, Torino, 1980
12
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Caratteristica della guerra civile, invece, è che questo monopolio viene rotto: ci sono
cittadini dello stesso Stato, che non gli riconoscono più questo monopolio ad usare la
violenza, e la usano anch’essi.
L’altro punto di vista teorizza che la guerra civile rompa la società, tesi dalla
quale nascono quegli aspetti di ferocia della violenza che travalicano quelli della guerra
tra Stati ottocentesca.
Proprio l’alto livello di spietatezza e di ferocia operativa che caratterizza questi conflitti
è uno degli elementi di fondo necessari per distinguere le “guerre civili” da quelle “tra
Stati”.
Al contrario di un conflitto inter-statale, le guerre intestine mostrano
tragicamente la violazione delle più elementari norme di umanità oltre che del diritto
internazionale.
Altro elemento apparentemente insanabile di una guerra intestina è la reciproca
negazione di legittimità da parte di ognuna delle parti in lotta nei confronti dell’altro;
proprio una tale delegittimazione consente ogni forma di eccesso contro la parte
avversa, oltre che portare alla non negoziabilità del conflitto.
Il nemico non deve essere convinto ad arrendersi o a trattare, ma deve essere eliminato:
la “soluzione finale” di Hitler
15
prevedeva la distruzione completa della razza ebraica, i
massacri di tutsi da parte degli hutu prevedevano il completo annientamento dell’etnia,
così come per i kosovari in Jugoslavia.
15
Il termine “soluzione finale” (in tedesco Endlösung der Judenfrage) venne coniato dal gerarca nazista
Adolf Eichmann. Tale misura decisa venne durante la Conferenza di Wansee del 1942.
13