6
conclusione inutilizzabile oppure già una pallida e blanda metafora – una parola troppo umana –; e 
che tuttavia finirebbe con l’affermare su questo mondo la stessa cosa che affermate voi, cioè che 
esso ha un suo corso “necessario” e “calcolabile”, ma non già perché in esso imperano norme, bensì 
perché le norme mancano assolutamente e ogni potenza in ogni momento trae la sua estrema 
conseguenza. Posto poi che anche questa fosse soltanto una interpretazione – e voi sareste 
abbastanza solleciti ad obiettarmi ciò – ebbene, tanto meglio.
1
 
 
Friedrich Nietzsche inizia il suo percorso intellettuale come filologo e non a caso utilizza una 
metafora filologica per esprimere alcuni punti essenziali del suo pensiero. Qui la spiegazione 
che viene offerta della scienza fisica, secondo la quale la realtà si svilupperebbe secondo norme 
e leggi, viene paragonata al lavoro del cattivo filologo: egli, anziché attenersi rigidamente al 
testo che traduce, lo tradisce, rileggendolo sulla scorta del suo fuorviante punto di vista. 
L’autore ipotizza un’altra lettura del medesimo testo, che invece vede nella natura 
l’esplicazione di un solo principio, quello della volontà di potenza. Ovunque non è possibile 
riscontrare altro se non continue “rivendicazioni di potenza” ed è sulla scorta di queste che 
qualsiasi possibile interpretazione viene decisa, qualsiasi “estrema” conseguenza viene tratta. 
La realtà altro non sarebbe se non un continuo gioco di forze, nel loro incessante opporsi e 
prevaricarsi. A tal proposito, ritorniamo all’ aforisma iniziale: sembra che qui vengano distinti 
due ambiti, quello del testo e quello della pratica interpretattiva. Vengono poi presentate due 
differenti “letture”, quella della fisica e quella del “lettore” che il filosofo tedesco ipotizza. 
Quale delle due è quella corretta ed in base a cosa dovremmo decidere? Nietzsche afferma: “Lo 
stesso testo ammette innumerevoli interpretazioni: non c’è un’interpretazione “giusta””
2
 e 
ancora: “Dare un senso – questo compito resta assolutamente da assolvere, posto che nessun 
senso vi sia già”.
3
 Da un lato tutte le interpretazioni sono ugualmente vere e quindi ugualmente 
false, in quanto prospettive relative, punti di vista particolari; dall’altro, il testo assume 
                                                 
1
 F. Nietzsche, Jenseits von Gut und Bose, Al di là del bene e del male, trad. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 
2003, pagg. 27 – 28. 
2
 Frammenti postumi 1885 – 1887, trad. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 2000, pag. 30.  
3
 Op. cit., pag. 140.  
 7
significato sulla scorta del “lettore” e delle pratica della “lettura”. Non esiste alcun avvenimento 
in sé, ciò che accade costituisce l’insieme degli avvenimenti scelti ed elaborati da un essere 
interpretante: 
 
Una “cosa in sé” è tanto assurda quanto un “senso in sé”, un “significato in sé”. Non esistono “stati 
di fatto in sé”, ma perché ci sia una stato di fatto deve sempre essere previamente introdotto un 
senso. Il “cos’è questo?” è una posizione di senso, se vista da una diversa angolazione. L’ “essenza”, 
la “essenzialità” è qualcosa di prospettico e presuppone già una molteplicità. Alla base c’è sempre 
un “cos’è questo per me?” (per noi, per tutto ciò che vive ecc.).
4
 
 
Senza un “lettore”, afferma Nietzsche, quel “testo” che è la realtà non avrebbe nessun senso e il 
domandare che chiede di render conto del “che cosa è” è già di per sè il risultato di una 
specifica pratica interpretativa che vede nella definizione, e quindi nel concetto, la via da 
percorrere per giungere alla verità. Una prospettiva che vede nell’essere più generale e 
indeterminato l’essere vero, ciò che la retta conoscenza deve ricercare come suo fine ultimo: 
“Non è perché la verità venga messa in dubbio nella sua possibilità anzitutto 
gnoseologicamente, ma è perché la verità fa già parte in senso eminente dell’essenza della 
domanda fondamentale, come “spazio” di quest’ ultima, che essa sta con l’essere nell’ambito 
della domanda fondamentale”.
5
 Heidegger considera il domandare fondamentale quello che 
chiede “cos’è in verità l’essere”
6
, cioè ciò che determina e costituisce essenzialmente ogni ente 
particolare in quanto tale. Quindi, per tornare a Nietzsche, conoscere è interpretare, attribuire un 
significato a partire dalla particolare posizione assunta dall’interprete, essere è essere 
interpretato. Come sottolinea Severino, “l’interpretazione è la volontà che il mondo abbia un 
senso. È una forma della volontà di potenza”.
7
 È la volontà di potenza, secondo Nietzsche, che 
                                                 
4
 F. Nietzsche, Der Wille zur Macht. Versuch einer umwertung aller werte, La volontà di potenza. Tentativo di una 
trasvalutazione di tutti i valori,  trad. it. di Angelo Treves riveduta da Pietro Kobau, Bompiani, Milano 2005, pag. 307. 
5
 M. Heidegger, Nietzsche, trad. it. di Alberto Volpi, Adelphi, Milano 2000, pag. 77. 
6
 Op. cit.,pag. 77.  
7
 E. Severino, La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire,  Bur, Milano 2006, pag. 193.  
 8
determina qualsiasi abito interpretativo, che sceglie e impone come l’essere debba costituirsi 
nei suoi tratti essenziali e quindi come debba articolarsi il discorso che lo dice, cioè il discorso 
vero. Essa attribuisce significato, è il presupposto di qualsiasi attribuzione di senso; la 
conoscenza, così come l’abbiamo definita, è solo una delle numerose esplicazioni della 
medesima volontà.  
Anche quanto affermato fin qui è ovviamente un’ interpretazione, il risultato di una particolare 
postura assunta nei confronti del mondo; di questo Nietzsche è consapevole. Egli non pretende 
certo di afferrare la realtà così come essa è in sé e per sé per illuminarci riguardo alla Verità. In 
altre parole, in accordo con il suo filosofare, egli è convinto che la verità non esista, se per 
verità intendiamo ciò che afferma la tradizione platonica. Qualsiasi interpretazione, come del 
resto qualsiasi interpretante, è contingente e transitoria, così come lo è la particolare figura della 
verità che si costituisce al suo interno. Affermare ciò significa negare l’esistenza di ogni 
principio eterno e di conseguenza di quel pensiero, unico, che sia in grado di pensarlo e dirlo: in 
altre parole, significa affermare l’inesistenza di tutto ciò che trascenda il divenire
8
 e quindi, 
come vedremo, la volontà. Se conoscere è interpretare, allora il vero è ciò che emerge sulla 
scorta di una particolare pratica interpretativa. Essa dipende dal “lettore” che la pone in opera, 
destinato a scomparire e ad essere sostituito da un altro “lettore”: “Il mondo – afferma 
Nietzsche – che in qualche modo ci interessa è falso, ossia non è una realtà, bensì 
un’invenzione, esso è “fluido” come una falsità che si sposta sempre di nuovo e che non si 
avvicina mai alla verità, perché – non c’è una verità”.
9
 L’interpretazione e la figura della verità 
che si costituisce al suo interno non sono mai definitive, ma in costante divenire; esse devono 
essere comprese nella loro contingenza, all’interno di un preciso sviluppo storico.  
                                                 
8
 “L’interpretazione non è mai definitiva, ma è sempre a sua volta un divenire.” (K. Jaspers, Nietzsche. Einfuhrung in 
das Verstandnis seines Philosophierens, Nietzsche. Introduzione alla comprensione del suo filosofare, trad. it. di Luigi 
Rustichelli, Mursia, Milano 1996, pag. 269). 
 
9
  Cfr F. Nietzsche, Frammenti postumi 1885 – 1887, cit., pagg. 101 – 102.  
 9
Ma perché dovremmo preferire questa visione delle cose, posto che, sotto un punto di vista 
gnoseologico, nulla cambia rispetto alle visioni precedenti? Perché dovremmo prediligere il 
pensiero di Nietzsche e non quello della metafisica tradizionale che l’autore tedesco critica 
furiosamente? In fin dei conti si tratta, in entrambi i casi, di punti di vista relativi, destinati a 
fare il loro corso e a scomparire. In altre parole, affermare che tutto è interpretazione costituisce 
a sua volta un’ interpretazione. Ma allora in cosa si distingue il pensiero del filosofo tedesco? 
Innanzitutto, osserva Jaspers
10
, esso si presenta come più maturo e meno ingenuo rispetto al suo 
obbiettivo polemico: Nietzsche, per primo, si propone di affermare che non esistono principi 
stabili e dati una volta per sempre, come Dio o la Verità, a differenza di quanto afferma la 
tradizione platonico – cristiana. Essa emerge come una prospettiva tra le tante, storicamente 
divenuta e destinata a tramontare come sono tramontate tutte le prospettive prima di lei. In 
secondo luogo, Nietzsche riconosce nell’interpretazione assiologica il motore a partire dal 
quale si sviluppa qualsiasi teoresi. Al posto della tendenza alla conoscenza come radice di 
qualsiasi atteggiamento filosofico, viene indicato l’istinto a determinare principi di carattere 
morale, l’impulso a valutare. Qualsiasi ontologia sarebbe innanzitutto assiologia e la metafisica 
occidentale così come si è articolata a partire da Socrate non costituirebbe eccezione. 
Anch’essa, secondo il filosofo tedesco, si fonda su pregiudizi morali, come ad esempio che il 
generale sia migliore, abbia più valore del particolare. Da qui, ad esempio, la convinzione che il 
filosofo debba comprendere innanzitutto  l’idea, l’essere nella sua stabilità e generalità e a 
partire da questo possa proseguire nella comprensione di enti sempre più particolari. L’idea, in 
Platone, non è tanto ontologicamente distinta rispetto agli enti che ne partecipano, quanto 
assiologicamente superiore. La distinzione riguarda il valore, non tanto l’essere in sé. Un 
principio è tanto più reale quanto maggiore è il suo valore: se consideriamo come Platone 
concepisca l’idea, cioè come ciò che è massimamente reale, dobbiamo trarre la conclusione che 
                                                 
 
10
 “L’interpretazione di Nietzsche è a tutti gli effetti un’interpretazione dell’interpretare, e perciò è per lui separata da 
tutte le precedenti interpretazioni, che paragonate alla sua erano ingenue, oltre ad essere prive dell’autocoscienza del 
loro interpretare.” (Cfr. K. Jaspers, cit., pag. 271). 
 10
essa costituisce, al contempo, ciò che determina il più alto livello assiologico. A tal proposito, 
non è un caso che il filosofo greco descriva nella Repubblica
11
 l’idea del bene come ciò che 
permette la conoscibilità degli oggetti ideali, allo stesso modo in cui essi la permettono degli 
enti materiali: un principio sommo, superiore all’essere/essenza per dignità e potenza
12
. L’idea 
del Bello, per fare un altro esempio, non può essere essenzialmente diversa rispetto agli enti 
belli, altrimenti né la mimesi ne la metessi si spiegherebbero; essa è, più che altro, migliore. 
Leggiamo: 
 
Mi si è chiarito poco per volta cosa è stata fino ad oggi ogni grande filosofia: l’autoconfessione, 
cioè, del suo autore, nonché una specie di non volute e inavvertite mémoires; come pure il fatto che 
le intenzioni morali (o immorali) hanno costituito in ogni filosofia il vero e proprio nocciolo vitale, 
da cui si è sviluppata ogni volta l’intera pianta. In realtà si agisce bene (e saggiamente) se, per dare 
una spiegazione a ciò si comincia a domandarci sempre in che modo le più lontane asserzioni 
metafisiche di un filosofo si siano determinate: quale morale tutto questo abbia di mira (lui stesso 
abbia di mira). Conseguentemente io non credo che un “istinto di conoscenza” sia il padre della 
filosofia, ma che piuttosto un altro istinto, in questo come in altri casi si sia servito della conoscenza 
(e dell’errata conoscenza) soltanto a guisa di uno strumento.
13
 
 
Qualsiasi grande filosofia non sarebbe altro che il risultato di alcune scelte morali da parte del 
suo artefice. Questo vale anche per la filosofia di Nietzsche? Sicuramente sì, se è vero che la 
visione assiologica è la prospettiva originaria dalla quale si sviluppano tutte le altre e se è vero 
che non si da mondo, realtà, se non in prospettiva. Ora, qualcosa ha valore solo per una volontà 
                                                 
11
 “Puoi dire dunque che anche gli oggetti conoscibili non solo ricevono dal bene la proprietà di essere conosciuti, ma 
ne ottengono ancora l’esistenza e l’essenza, anche se il bene non è essenza, ma qualcosa che per dignità e potenza 
trascende l’essenza.” (Platone, Repubblica, trad. it. di Franco Sartori, Laterza, Bari 2003, pagg. 443 – 444).  
 
12
 “Platone ha elevato l’idea del bene sopra le altre appunto per sottolineare questo motivo, per segnalare che la teoria 
delle idee non ha come suo scopo principale quello di studiare la realtà dal punto di vita logico ontologico, ma quella di 
mostrare che la realtà è determinata dal valore: ossia da quel bene che bisogna in qualche modo raggiungere se si vuole 
tentare di rispondere alle domande socratiche relative alla vita buona.” (F. Trabattoni, La filosofia antica. Profilo 
storico critico, Carocci, Urbino 2002, pag. 106). 
 
13
 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pag. 11 
 11
che la prenda di mira come voluto e che tenda ad essa nell’azione; senza una volontà operante 
non si dà voluto e quindi valore. Ecco emergere la volontà come struttura essenziale a partire 
dalla quale qualsiasi conoscenza può esplicarsi; essa non si esprime soltanto in questo modo, 
ma come elemento essenziale di qualsiasi ente in quanto tale. L’essere, in Nietzsche, è volontà, 
più precisamente volontà di potenza.  
Non è questa una concezione nuova o rivoluzionaria. Come afferma Heidegger, “la concezione 
dell’essere dell’ente come volontà è in linea con la migliore e più grande tradizione della 
filosofia tedesca”.
14
 Basti pensare, a tal proposito, al grande maestro di Nietzsche insieme a 
Richard Wagner, Artur Schopenhauer con la sua opera principale, Il mondo come volontà e 
rappresentazione.
15
 Questa concezione porterà il nostro autore ad una ripresa della filosofia 
presocratica, in particolare del pensiero di Eraclito, il quale concepisce l’essere come divenire. 
Tale interpretazione viene vista da Nietzsche come espressione di una condizione fisiologica 
forte e sana, a differenza della metafisica tradizionale, che invece testimonia un decadimento, 
un indebolimento generale, una avversione nei confronti della vita: 
 
Lo stanco sguardo pessimista, la sfiducia per l’enigma della vita, il gelido no della nausea per la vita 
– non sono questi i segni delle età  più malvagie del genere umano: anzi, da quelle piante palustri 
che sono, affiorano alla luce del giorno soltanto quando esiste la palude alla quale appartengono –
alludo all’infrollimento e alla demoralizzazione morbosi, a cagione dei quali la “bestia” uomo 
finisce per imparare a vergognarsi di tutti i suoi istinti. In cammino verso l’ “angelo” (per non usare 
qui una parola più aspra) l’uomo si è venuto facendo quello stomaco guasto e quella lingua 
impastata a causa dei quali non soltanto la gioia e l’innocenza dell’animale hanno destato la sua 
ripugnanza, ma la vita stessa gli è divenuta insipida.
16
 
 
                                                 
14
 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., pag. 47. 
15
 Si veda a tal proposito il paragrafo 23 di A. Schopenhauer, Die Welt als Wille und Vorstellung,  Il mondo come 
volontà e rappresentazione, trad. it. di Nicola Palanga riveduta da A. Vigliani, Mondadori, Milano 1989.  
16
 F.Nietzsche, Zur Genealogie der Moral Eine Streitschrift, Genealogia della morale, trad. it. di Ferruccio Masini, 
Adelphi, Milano 2000, pagg. 55 – 56. 
 12
In riferimento alla morale cristiana si parla di veri e propri stati morbosi, di una nausea nei 
confronti della vita, di un divenire sempre più stanchi e malati. È da questa condizione e, in 
particolare, dalle scelte di valore che essa ha determinato che, secondo Nietzsche, ha avuto 
inizio lo sviluppo della metafisica platonico – cristiana: “Meglio di prima – afferma l’autore 
tedesco – si indovinano le involontarie deviazioni, i vicoli laterali, i luoghi tranquilli, i solatii 
recessi del pensiero nei quali i pensatori sofferenti proprio in quanto sofferenti vengono 
condotti e sedotti; ormai si sa dove inconsciamente il corpo ammalato con i suoi bisogni preme 
lo spirito e lo incalza e lo lusinga”.
17
 È innanzitutto il corpo che decide come una filosofia 
debba nascere ed esplicarsi, è a partire dalla sua condizione corporea che un pensatore può 
esprimere un pensiero decadente o meno. Scrive Peverada: “Che il pensiero sia sintomo non è 
altro che la conseguenza di questa evidenza nizscheana, che rappresenta il vero e proprio centro 
teoretico della sua filosofia: l’essere dell’ente è corpo – tutto il resto è accessorio e simbolo 
della sensibilità, compreso lo “spirito” (e anzi soprattutto lo spirito)”.
18
 Socrate è il primo 
grande uomo decadente, il primo malato, ed è in questa figura che Nietzsche riconosce il suo 
principale obbiettivo polemico. Nei confronti suoi e dei suoi sostenitori, Nietzsche afferma: 
“Quel consensus sapientium – lo compresi sempre meglio – costituisce una ben misera prova 
che essi avessero ragione là dove si trovavano d’accordo; dimostra piuttosto che essi stessi, 
questi saggissimi, dovevano, in qualche cosa, concordare fisiologicamente per potere – anzi per 
dovere – assumere lo stesso atteggiamento negativo verso la vita”.
19
 La filosofia del pensatore 
tedesco dovrebbe essere quindi preferita a quella socratica in quanto manifestazione di forza, 
potenza, sanità. Come sottolinea Fink, “i pensieri dell’essere della metafisica vengono spiegati 
secondo il loro valore sintomatico; per esempio, la differenza tra cosa in sé e apparenza viene 
interpretata come espressione di un decrescente senso della vita, di una vita che non si trova più 
                                                 
17
 F. Nietzsche, Die frohliche Wissenshaft, La gaia scienza, trad. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 2003, pag. 30. 
18
 S. Peverada, Nietzsche e il naufragio della verità. Critica, nichilismo, volontà di potenza, Mimesis, Milano 2003, pag. 
108. 
19
 F. Nietzsche, Gotzen – Dammerung oder Wie man mit dem Hammer philosophirt, Crepuscolo degli idoli ovvero 
come si filosofa con il martello, trad. it. di Ferruccio Masini, Adelphi, Milano 2000, pag. 33. 
 13
a suo agio nel sensibile e si inventa perciò il mondo nascosto di un “al di là” dell’apparenza”.
20
 
È una condizione corporea deviata che  determinerebbe lo sviluppo della metafisica 
tradizionale; al suo posto Nietzsche propone un ritorno ad Eraclito quale espressione di una 
situazione sana; situazione che troverebbe la sua esplicazione nella filosofia del pensatore greco 
e nel suo preferire, all’essere di Parmenide, il divenire.  
Perseverare all’interno della prospettiva platonico – cristiana significherebbe, quindi, 
permanere in uno stato di infermità, privarci della possibilità di accettare la nostra natura, i 
nostri istinti, le nostre inclinazioni. La ricerca della salute pretende un ritorno ad Eraclito o 
comunque in generale a quel pensiero che si sviluppa prima di Socrate. Ma in che posizione si 
situa il pensiero dell’autore tedesco? Egli si propone una svolta radicale, ma qualsiasi svolta 
risulta inevitabilmente determinata dal percorso che si è seguito sino ad essa. Svoltare significa 
cambiare di direzione: un cambio che però avviene solo sulla scorta del tragitto che abbiamo 
intrapreso fino al  momento della svolta. Chi cammina sceglie la via da seguire, ma le sue scelte 
si determinano a partire dal percorso nella sua interezza; qualsiasi decisione non può che 
emergere tenendo conto di tutte le decisioni precedenti. Possiamo considerare Nietzsche un 
pensatore che abbia abbandonato quella metafisica che critica? O anche il suo pensiero ne fa 
parte implicitamente? 
Qualsiasi conoscenza del mondo è interpretazione, prospettiva, errore. Si dà verità solo 
all’interno di uno sguardo orientato, prospettico, determinato dalla “postura” e dal punto di 
vista particolare e contingente dell’interprete, del “lettore”, per ritornare alla metafora iniziale. 
La lettura originaria è sempre di carattere morale: qualsiasi ontologia prende le mosse da una 
assiologia, da una tendenza alla valutazione, a porre principi di carattere morale. In questo 
senso abbiamo affermato come in Nietzsche ogni conoscenza sia una particolare esplicazione 
della volontà. Qualsiasi grande filosofia germoglia da una compagine di pregiudizi morali. 
Questo discorso vale tanto per il pensiero del filosofo tedesco quanto per la metafisica 
                                                 
20
 E. Fink, Nietzsches philosophie, La filosofia di Nietzsche, trad. it. di Pisana Rocco Traverso, Marsilio Editori, Milano 
1973, pag. 71. 
 14
tradizionale; quest’ultima, però, si fonderebbe su scelte di valore dettate da una infermità, da 
una condizione fisiologica debole e morbosa, da un indebolimento generale. Contro di essa 
Nietzsche propone un ritorno alla filosofa eraclitea e alla sua interpretazione che fa coincidere 
l’essere con il divenire; questo pensiero appare innanzi agli occhi del filosofo tedesco come una 
espressione di forza, di benessere, come un risuonante sì nei confronti della vita in tutti i suoi 
aspetti, anche in quelli più enigmatici e terribili. In definitiva, quindi, anche l’autore tedesco 
opera una scelta morale, di valore,  dimostrando di preferire la forza alla debolezza. In virtù di 
questa scelta e sulla scorta di una interpretazione storica ben precisa egli individua in Eraclito 
il suo principale ispiratore. Una conclusione che emerge sulla base di una determinata e 
particolare lettura psicologica da parte del Nostro, che individua nella filosofia socratica il 
manifestarsi di istinti e condizioni contrari al “normale” sviluppo della “bestia uomo”. Anche 
Nietzsche propone una prospettiva, una prospettiva assiologicamente orientata; le motivazioni 
che dovrebbero testimoniare a favore di questa nuova interpretazione ne fanno parte a loro 
volta. L’autore tedesco si inserisce all’interno di un circolo vizioso senza però poterne uscire. 
Egli opera in maniera del tutto identica alla metafisica tradizionale, semplicemente arrivando a 
conclusioni distinte. “Il sapere filosofico contemporaneo – scrive Sini – asserisce che tutte le 
verità sono relative, per esempio perchè tutto è interpretazione, e così esprime una asserzione 
assoluta, cioè metafisica: asserzione che vanifica se stessa per il suo stesso contenuto”.
21
 La 
filosofia contemporanea sfrutta i medesimi strumenti che vorrebbe rinnegare, fa parte dello 
stesso orizzonte di pensiero aperto dai primi filosofi greci, frequenta il medesimo abito 
interpretativo, la stessa postura fondamentale: “In particolare – continua l’autore – 
l’antimetafisica condivide con la metafisica l’idea che la verità e il sapere della verità debbano 
essere “assoluti”: vero è ciò che resta vero e vero sapere è quello che dice in modo adeguato 
tale verità.
22
 
                                                 
21
 C. Sini, L’analogia della parola. Filosofia e metafisica, Jaca Book, Milano 2004, pag. 24. 
22
 Op. cit., pag. 23.  
 15
Il sapere contemporaneo, afferma poi Severino, frequenta ancora il concetto di divenire così 
come esso si è sviluppato presso i greci: un processo nel quale ciò che ancora non è viene ad 
essere, per poi ritornare ad essere inghiottito nel Nulla. A partire da questa concezione, sulla 
base di una differenza che essa stessa suggerisce, emergerebbe l’idea di Dio, o della Verità, 
come ciò che sfugge a tale fluire costante ed inarrestabile. E il discorso vale anche per quella 
verità che dice che non esiste alcuna verità, data la relatività costitutiva di ogni interpretazione e 
dato che si dà realtà solo all’interno di una specifica interpretazione. Secondo questa lettura 
interpretativa, una filosofia veramente in grado di porsi al di fuori dal percorso della tradizione 
metafisica occidentale dovrebbe essere in grado di abbandonare definitivamente la visione 
greca del divenire. Soltanto allora si potrebbe, a ragione, affermare come Dio sia 
definitivamente morto.
23
 
Alla base della prospettiva di Nietzsche, come più volte affermato, sta la volontà di potenza. È 
fondamentale, a questo punto, cercare di comprendere questo concetto fondamentale, a partire 
dal quale l’intero edificio filosofico nietzscheano si sviluppa.       
                                                 
23
 A tal proposito rimandiamo al testo di E. Severino La filosofia futura. Oltre il dominio del divenire, Bur, Milano 
2006. 
 16
2. La volontà di potenza: la ripresa della filosofia presocratica  
 
Spiegare cosa intenda Nietzsche per volontà di potenza è difficile, poiché egli non ne fornisce 
mai una definizione chiara e distinta. Ciò non deve stupire. Se è vero che l’essere va a 
coincidere con la volontà, nel determinare l’essenza di questa non ci potremo richiamare ad un 
ente determinato nè ad un modo d’essere particolare. Partire dall’ente quale noi stessi siamo per 
definirne le caratteristiche essenziali significa compiere un tradimento, evidente quanto 
inevitabile. “Nell’idea corrente che se ne ha – scrive Heidegger – la volontà è ritenuta una 
facoltà psichica. Si determina che cosa sia la volontà in base all’essenza della psiche; ed è la 
psicologia che tratta della psiche. Se ora, per Nietzsche, la volontà determina l’essere di ogni 
ente, allora non è la volontà ad essere qualcosa che ha il carattere della psiche, ma è la psiche 
qualcosa che ha il carattere della volontà”.
1
 Lo stesso Nietzsche definisce la volontà come 
affetto, passione o sentimento, “stati” che normalmente è la psicologia a considerare e studiare
2
, 
con l’obbiettivo, però, di illustrare cosa egli intenda per volontà di potenza cercando di 
delinearla a partire da condizioni psichiche particolari che da essa derivano. 
Prendiamo ancora una volta le mosse dalla considerazione di un aforisma contenuto in Al di là 
del bene e del male: 
 
In definitiva  la questione è se noi effettivamente riconosciamo la volontà come agente, se noi 
crediamo alla causalità del volere: se ci comportiamo in questo modo – e in fondo la fede in tutto 
                                                 
1
 Cfr. M. Heidegger, Nietzsche, cit., pag. 50. 
 
2
 Del resto, se è vero che la volontà di potenza fonda il pensiero del filosofo tedesco, se ne dovrà pur parlare in qualche 
modo, anche nella comprensione che ciò che stiamo dicendo costituisce un tradimento necessario. L’essere, in quanto 
Innominabile, determina la condizione di possibilità del Nominabile, cioè dell’ente, che si costituisce a partire da esso. 
Nominabile è l’ente; Innominabile ciò che lo determina, essendo per l’ente quale noi stessi siamo impossibile 
comprendere ciò che fonda l’ente stesso ed essendo per l’ente in generale contraddittorio definire il suo presupposto a 
partire da sé medesimo. Notiamo come definire l’essere come Innominabile lo situi già all’interno dell’orizzonte di 
senso che la pratica alfabetica apre, cioè lo traduca paradossalmente in un nominato.  
A tal proposito, cfr. C. Sini, L’analogia della parola, cit., pagg. 46 – 47.  “Il Nominabile presuppone l’Innominabile; 
altrimenti il Nominabile sarebbe interamente nominato e non sarebbe più Nominabile. Il Nominabile, allora, ha 
l’Innominabile dentro di sé. Ma se invece si chiede: “C’è qualcosa di Innominabile?” l’unico effetto di una eventuale 
risposta comporterebbe una traduzione dell’Innominabile nel Nominabile e perciò in un nominato. Il solo fatto di questa 
denominazione coinciderebbe allora con la distruzione dell’Innominabile.” 
 17
questo è appunto la nostra fede nella causalità stessa –, siamo costretti a fare il tentativo di porre 
ipoteticamente la causalità del volere come causalità esclusiva. “Volontà” può agire naturalmente su 
“volontà” (non su “nervi”, per esempio -): insomma, occorre osare l’ipotesi se, ovunque vengano 
riconosciuti “effetti”, non agisca il volere sul volere – e se ogni accadimento meccanico, in quanto in 
esso diventa operante una forza, non sia appunto forza volitiva, effetto del volere. Posto infine che si 
riuscisse a spiegare tutta quanta la nostra vita istintiva come la plasmazione e la ramificazione di 
un’unica forma fondamentale del volere ci si sarebbe con ciò procurati il diritto di determinare ogni 
forza agente come: volontà di potenza.
3
 
 
Mettiamo innanzitutto in evidenza il rapporto intrinseco tra forza e volontà. Ovunque si 
riconoscano degli effetti, ovunque si possa constatare l’accadere di qualcosa, dovremmo 
supporre l’agire di una forza operante: ogni evento emergerebbe come l’esplicarsi di una forza 
determinata. Ora, come sottolinea Deleuze, “l’essere della forza è plurale e, a rigore, sarebbe 
assurdo pensare una forza al singolare”
4
. Parlare di una forza vuol dire, secondo questa 
interpretazione, considerarne implicitamente un’altra, che le si oppone e la contrasta. È in virtù 
di questa relazione di incontro/scontro che due forze emergono e si costituiscono: in questo 
caso, è la relazione di opposizione che permetterebbe la considerazione degli elementi relati e 
non viceversa. Pensiamo alla forza fisica impiegata, ad esempio, per svolgere un lavoro, 
immaginiamo di voler spostare un oggetto molto pesante: l’azione che esercitiamo si determina 
solo in relazione alla resistenza dell’oggetto della nostra attività, al suo peso, alle sue 
caratteristiche in generale. Senza di essa non si potrebbe parlare di alcuna forza, nè di alcun 
lavoro. Una Forza sui generis non si dà mai; si manifestano più che altro particolari attività 
reciprocamente contrastanti, che in virtù di questo contrasto si definiscono come attività. Ad 
una massa maggiore deve corrispondere una maggiore forza impiegata: essa deve “adattarsi” 
alla superiore resistenza del suo oggetto, al maggior contrasto da parte di una forza che le si 
                                                 
 
3
 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit.,  pag. 44. 
4
 G. Deleuze, Nietzsche et la philosophie,  Nietzsche e la filosofia, trad. it. di Fabio Polidori, Einaudi, Torino 2002, pag. 
10. 
 18
oppone. Una forza si esercita solo là dove essa si può misurare con una resistenza, con qualcosa 
che le permetta di esplicarsi nel momento in cui le si oppone: si tratta di vincere contro un 
attrito, un antagonismo, una opposizione costitutiva. “Una forza è il dominio e 
contemporaneamente l’oggetto su cui questo dominio viene esercitato”
5
, continua Deleuze. 
Ovunque si riconosca l’operare di una forza, saremmo costretti ad “osare l’ipotesi” che un 
volere stia agendo su un altro volere: per Nietzsche il concetto di forza implica che una forza 
entri in contatto, in relazione, con un’altra. In questo senso si può parlare della volontà come 
“elemento differenziale della forza”.
6
 Ogni qualvolta un’attività emerga sulla scorta di una 
relazione, di una costitutiva distanza, dovremmo considerare questa attività come volontà. 
Essenzialmente volontà è differenza, relazione tra elementi distinti che tentano di emergere 
l’uno in contrapposizione con l’altro. Quindi tutto è volontà, in particolare volontà di potenza: 
ogni accadimento può essere ricondotto a questo principio fondamentale, se è vero che là dove 
accade qualcosa è una forza che sta operando e se è vero che si dà forza solo dove sussiste 
pluralità e opposizione. Da qui la ripresa da parte di Nietzsche della filosofia presocratica. Egli  
vede in Eraclito il pensatore al quale dovremmo ritornare al fine di abbandonare la metafisica 
tradizionale. Il filosofo greco concepisce l’essere come divenire. Famoso il frammento che 
recita: “Negli stessi fiumi tanto entriamo quanto non entriamo, tanto siamo quanto non siamo”.
7
 
È impossibile entrare due volte nelle stesso fiume, poiché nulla è stabile, immutabile, dato una 
volta e per sempre. Tutto scorre, in ogni istante l’essere emerge dal nulla per ritornare ad 
esserne inghiottito; in ogni momento tanto noi quanto il fiume siamo diversi rispetto al 
momento immediatamente precedente, siamo e contemporaneamente non siamo, cioè siamo nel 
nostro non essere più e non essere ancora. Questo incessante fluire viene concepito, in Eraclito, 
come lotta tra opposti: “Ciò che si oppone converge, e la più bella della trame si forma dai 
                                                 
5
 Ibid. 
6
 Op. cit., pag. 11. 
7
 G. Colli, La sapienza Greca, volume terzo, Adelphi, Milano 2006, pag. 57. 
 19
divergenti; e tutte le cose sorgono secondo la contesa”.
8
 Il divenire si esplicherebbe come 
contesa, come contrasto, come lotta in virtù della quale i contendenti sorgono e si determinano 
come due facce della stessa medaglia. Come divergenti essi, alla fine, convergono, cioè si 
manifestano solo nella relazione che tiene loro insieme. L’Uno si esplica nella molteplicità, si 
costituisce solo in essa; non esistono principi eterni che le sono estranei, trascendenti, la 
molteplicità è cifra dell’unità. L’essere è essere del divenire in quanto tale, movimento, 
soppressione, lotta e non c’è nulla al di là di ciò: “L’essere è l’affermazione del divenire, l’uno 
è l’affermazione del molteplice – commenta Deleuze – l’affermazione molteplice è il modo in 
cui si afferma l’uno. L’unità è la pluralità”.
9
 Come afferma Severino, nel commentare questa 
particolare visione ontologica, “ l’unico “oggetto persistente” è la non persistenza di tutto ciò 
che è immerso nel divenire; l’unica certezza che sta al fondamento e sul fondo di ogni 
trascorrere è il trascorrere di ogni (altra) certezza”.
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 I contrari emergerebbero in quanto 
frammenti  di quel costante movimento di opposizione e lotta che li tiene insieme; allo stesso 
modo, come abbiamo visto all’interno dell’aforisma tratto da Al di là del bene e del male, le 
forze non sarebbero altro che esplicazioni di quella distanza originaria che costituisce 
l’elemento essenziale della volontà. In questo senso Nietzsche è eracliteo, innanzitutto nel 
negare che vi sia altro oltre il divenire, qualcosa che lo trascenda. Infatti, “il mondo veduto 
dall’interno, il mondo determinato e qualificato secondo il suo “carattere intelligibile” – sarebbe 
appunto “volontà di potenza” e nient’altro che questa”.
11
 In secondo luogo nel modo di 
concepire il divenire stesso come continua opposizione. Nei confronti della chimica e delle sue 
leggi, Nietzsche afferma: “Io mi guardo bene dal parlare di “leggi” chimiche. Piuttosto, ne va di 
una fissazione assoluta di rapporti di potenza: ciò che è più forte si impadronisce di ciò che è 
più debole, nella misura in cui quest’ultimo non può conservare il proprio grado di 
                                                 
8
 Op. cit., pag. 23. 
9
 Cfr. G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pag. 37. 
10
 E. Severino, L’anello del ritorno, Adelphi, Milano 1999, pag. 45. 
11
 Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pag. 44.