dall’intervista a voce, è anche formulato in una forma adatta alla
pubblicazione, la possibilità di contattare personaggi molto lontani o poco
propensi a rilasciare interviste di persona.
Come spiega Salvatore Romagnolo, i lettori di un giornale «si aspettano
che il cronista abbia usato lo strumento dell’intervista per cercare notizie e
informazioni attendibili, magari scavando a fondo, con domande
appropriate, alla ricerca di qualcosa in più di quanto l'intervistato avrebbe
voluto dichiarare»
2
. Al contrario, l’intervista via e-mail comporta che il
giornalista ponga delle domande in anticipo e l’interlocutore mandi le
risposte successivamente. Non essendoci contemporaneità comunicativa, il
giornalista non ha la possibilità di insistere sugli argomenti su cui
l’interlocutore ha glissato.
Inoltre, come spiega Romagnolo, «gli intervistati spesso sottovalutano
l’importanza o l’interesse di una dichiarazione, di un’informazione, e
proprio la professionalità del giornalista può far emergere aspetti che
rischierebbero di rimanere sotto silenzio»
3
.
Un altro rischio dell’intervista via e-mail risiede nella mancanza di
cognizione degli spazi che il giornalista deve riempire da parte degli
intervistati. Le loro risposte possono essere in alcuni casi troppo prolisse o
troppo brevi. In entrambi i casi, gli interlocutori costringono il giornalista
ad intervenire o, se le risposte non sono sufficienti, anche a dover ripetere
l’intervista.
Come spiega Romagnolo, «un altro vantaggio delle interviste via e-mail è
rappresentato dalla possibilità di raggiungere facilmente e a basso costo,
personaggi famosi o realtà, entità particolari. Ma anche questi vantaggi
hanno un lato oscuro. Tramite la posta elettronica, infatti, non sempre
2
Romagnolo S., “Luci e ombre delle interviste via e-mail” in www.salvatoreromagnolo.it
3
ibidem
abbiamo la garanzia che il nostro interlocutore sia realmente la persona che
crediamo»
4
.
Soprattutto tra i personaggi molto impegnati o molto famosi è ampiamente
diffusa l’usanza di affidare la compilazione di questo tipo di interviste ai
loro incaricati, che nel testo di Pratellesi vengono chiamati “ghost-writer”
5
.
In certi casi, questo tipo di personaggi dispongono di veri e propri staff che
fungono da ufficio stampa.
La verifica dell’autenticità delle risposte che arrivano nella casella di posta
elettronica del giornalista è praticamente impossibile. Essa si basa solo
sull’accordo fiduciario tra il giornalista e il suo interlocutore e con gli
strumenti finora a disposizione non c’è un modo per compiere una
attendibile verifica di tale autenticità.
L’unica soluzione potrebbe essere l’uso di mezzi ancor più evoluti della
posta elettronica, come la videochat e la videochiamata. Secondo Pratellesi,
«si tratta di tecniche non ancora molto diffuse, ma destinate a prendere
piede con la diffusione della banda larga in Internet e nella telefonia
cellulare»
6
.
Finora, è solo attraverso questo tipo di mezzi che si pensa di risolvere il
problema della verifica dell’identità di chi risponde. In ogni caso, secondo
Pratellesi, «non sarà mai come l’esperienza diretta: mancheranno il colore
sull’ambiente, la percezione degli odori, il movimento delle mani o dei
piedi che tradiscono aspetti del carattere, imbarazzi, bugie e mezze verità»
7
.
In pratica, se da una parte questi nuovi mezzi tecnologici aiutano il
giornalista in termini di produttività e di velocità, dall’altra parte
diminuiscono le possibilità di servirsi della propria esperienza sul campo.
4
ibidem
5
Pratellesi M., NewJournalism, Milano, Mondadori, 2004
6
ivi, pag. 95
7
ibidem
2.5 Il terrore corre sul Web
Tornando alle “catene di sant’Antonio”, anche se non si rivolgono in
particolare ai giornalisti, bensì agli utenti della Rete, alcune di esse sono
diventate casi di cronaca. Come spiegano Porro e Molino, le “catene di
sant’Antonio”, per essere ritrasmesse da una casella di posta elettronica
all’altra si servono di “esche” per creare il loro meccanismo di
comunicazione virale.
Porro e Molino, nel testo “Disinformation Technology” annoverano fra i
vari tipi di “esche” le diverse forme di solidarietà (umanitaria o sociale)
8
. A
queste, da un po’ di tempo, se ne può aggiungere un’altra: si tratta della
sensazione di pericolo imminente, la psicosi, che fa viaggiare i messaggi ad
altissima velocità, come è successo per le recenti “catene di sant’Antonio”
che preannunciavano attacchi terroristici.
Dopo l’11 Settembre 2001 il livello di allerta è diventato altissimo. Almeno
una volta alla settimana, almeno un medium fra i tanti dichiara che c’è il
rischio di attentato nel nostro Paese o altrove. È in clima di paura come
questo che attecchiscono con una facilità impressionante le “catene di
sant’Antonio” che predicono gli attentati terroristici.
Un mese dopo il terribile attentato di Madrid, avvenuto l’11 Marzo 2004, in
moltissime caselle di posta elettronica è giunto un messaggio che diceva
pressappoco: “una mia amica che fa la hostess di cui mi posso sicuramente
fidare ha sentito parlare sul suo aereo di un attentato previsto per il giorno
di Pasqua”, poi l’e-mail rigirata veniva attribuita all’amica della mia amica
e così via.
In una notizia come questa, l’esca principale è la paura diffusa, ma non
mancavano altri “ingredienti” per rendere credibile quella che si è rivelata
8
cfr. Molino W. e Porro S., Disinformation tecnology, Milano, Apogeo, 2003
una bufala. Dopo gli attentati di New York e Madrid, infatti, tutti avevano
notato la predilezione dei terroristi islamici per l’11 del mese e il fatto che
Pasqua fosse l’11 Aprile rendeva più che plausibile l’idea di un attacco
proprio quel giorno.
In più, nello stesso periodo giornali e telegiornali si erano dedicati
spontaneamente all’eventualità di un attentato terroristico in Italia, centro
della cristianità e paese coinvolto nella guerra in Iraq con le proprie truppe.
Il pericolo sembrava imminente e le cosiddette “zone rosse” erano
ovunque: da Roma a tutte le altre città grosse dimensioni o di grosso peso
religioso.
Questa “catena di sant’Antonio” si è diffusa tanto rapidamente e in maniera
tanto capillare contando proprio sul clima che già si era creato e sui
particolari sensibili come la data, la guerra in Iraq, il timore per gli obiettivi
della cristianità come la basilica di San Pietro, in quei giorni impegnati per
la liturgia pasquale.
La Pasqua è passata tranquillamente, senza alcun pericolo, ma dopo l’11
Settembre e l’11 Marzo sembrava molto probabile che anche l’11 Aprile
sarebbe divenuto un altro giorno da commemorare.
2.6 Le rivoluzioni dell’11 Settembre
Gli esiti mondiali della tragedia dell’11 Settembre non si possono ridurre
alla creazione di un terreno fertile per catene di sant’Antonio basate
sull’allarmismo. Tanto più che il livello di diffidenza per gli islamici e la
paura di attentati erano già all’ordine del giorno da anni. L’attacco alle due
torri ha prodotto una sorta di reazione a catena che ha coinvolto tutti i
settori: politico, militare, economico, sociale e non può mancare il settore
della comunicazione.
Già dai primi minuti successivi all’attacco, si potevano notare i segnali di
un cambiamento epocale nella storia, anche della comunicazione mondiale.
Le immagini delle due torri in fiamme che hanno fatto il giro del mondo
non erano esclusivamente di carattere professionale, ma molti erano gli
obiettivi amatoriali puntati sulla tragedia.
Come spiega Michele Mezza, «nelle successive tre ore, calcola il sito
www.journalism.it, circa l’80% delle informazioni che fluirono nel mondo
in forma audio, video o scritta non ebbe un’origine professionale»
9
. In altre
parole, in un fluire di informazioni concitate come imponeva la
drammaticità della situazione, attecchiva come non mai il nuovo soggetto
dell’informazione, il reporter diffuso.
Un’altra marca del cambiamento sta nei dati dei contatti ai siti Internet di
informazione nel giorno dell’attacco all’America. Si è verificato un
fenomeno di congestione della Rete Internet di proporzioni impressionanti.
Mai come quel giorno il pubblico mondiale cercava informazioni su
Internet, col pensiero che, anche se in diretta e se concentrati
esclusivamente su quella tragedia, gli altri media non riuscissero a dare
tutte le informazioni. Come spiega Michele Mezza, «nella spirale ansiosa
prodotta dall’attacco terroristico a New York e Washington, se è vero che
per il grande pubblico la televisione è stata il medium di riferimento, il
citofono del mondo, è altrettanto vero che Internet è saltata perché milioni
di persone cercavano qualcosa in più e sapevano di poterla trovare sulla
Rete»
10
.
Due siti hanno attirato di più i navigatori delle prime ore dopo l’attacco:
www.1stheadlines.com e www.abyznewslinks.com. Il primo è un motore
intelligente che aggiorna in tempo reale le rassegne stampa delle pagine dei
9
Mezza M., Media senza mediatori, Perugia, Morlacchi, 2002, pag. 73
10
ivi, pag. 80
grandi quotidiani mondiali. Il secondo, secondo la definizione di Mezza, è
un «hub on-line che permette di arrivare a qualsiasi fonte giornalistica di
ogni paese del mondo. Questo ha permesso alla stessa Cnn inizialmente di
monitorare agenzie, televisioni e radio di Pakistan, Iraq e Afghanistan in
tempo reale, iniziando così di fatto la guerra annunciata»
11
.
Non solo alla Cnn, ma in tutte le redazioni del mondo, i giornalisti subito
dopo l’attacco alle torri e nei giorni a venire setacciavano la Rete, per
trovare una testimonianza insolita, una credibile rivendicazione degli
attentatori o anche solo un sito islamico che inneggiasse al terrorismo.
Le informazioni e le testimonianze non mancavano, perché subito il popolo
informatizzato di Manhattan scelse di non tacere ma di raccontare in prima
persona. Lo conferma Emilio Carelli, che racconta che «nei giorni
immediatamente successivi alla tragedia dell’11 Settembre, per esempio, i
blogger newyorkesi si sono moltiplicati, raccontando attraverso il proprio
personal computer tutto ciò che accadeva e si viveva»
12
.
Alle tante rivoluzioni portate dallo sconvolgimento dell’11 Settembre, si
può quindi aggiungere anche il lancio della filosofia del blog, in quanto
diario virtuale. Mai come in quei giorni la sconvolta platea del mondo
occidentale aveva bisogno di raccontare, commentare, commemorare le
vittime innocenti di quella tragedia, gridare come fece Oriana Fallaci in
quei giorni attraverso le pagine del quotidiano Il Corriere della Sera e del
suo libro-pamphlet, “La rabbia e l’orgoglio”
13
.
11
ivi, pag. 81
12
Carelli E., Giornali e giornalisti nella Rete, Milano, Apogeo, 2004, pag. 68
13
cfr. Fallaci O. La rabbia e l’orgoglio, Milano, Rizzoli, 2001
2.7 La Seconda Guerra del Golfo: la prima guerra del Web
A cominciare dall’11 Settembre 2001, continuando con le guerre in
Afghanistan e in Iraq, l’assetto della produzione mondiale di notizie è
cambiato radicalmente. Si è imposta la necessità di assumere informazioni
dal mondo arabo, attraverso i suoi stessi canali informativi.
Le motivazioni sono di diversi tipi: è nel mondo arabo che negli ultimi anni
si sta scrivendo la storia, i musulmani preferiscono affidare i comunicati ai
loro media e ancora il mondo occidentale è talmente impaurito che vuole
tenere sotto controllo il mondo islamico.
Il cambiamento si avverte subito, basta pensare che al predominio della
Cnn sui fatti della prima guerra del Golfo, nel secondo conflitto si è
sostituito il predominio di Al Jazeera. Si tratta del canale satellitare del
Qatar, discusso per le sue collusioni con gli estremisti islamici, ma
comunque organo di riferimento e tramite fra terroristi e mondo
occidentale, insieme all’altra emittente panaraba Al Arabja.
Oltre all’importanza che hanno assunto le televisioni arabe, non bisogna
dimenticare che, come è stato scritto da Marco Pratellesi su Il Corriere
della Sera nel 2003, «quella del 1991 fu la guerra che consacrò la Cnn
come emittente “all news”. Dodici anni dopo, la guerra che si combatte in
Iraq potrebbe essere ricordata come il primo conflitto nell’era di
Internet»
14
.
Nello stesso articolo, Pratellesi sottolineava che, a pochi giorni dall’inizio
del conflitto, «per capire quanto la Rete sia diventata un’importante fonte
di informazione sulla guerra basta riflettere sul fatto che la parola “war” ha
14
Pratellesi M., “Video e diari hi-tech: la guerra ai tempi del Web” in Il Corriere della Sera, 28 Marzo
2003
superato la parola “sex” nell’indice dei motori di ricerca e che i siti di
informazione hanno raddoppiato il loro traffico»
15
.
Anche nelle redazioni è chiara questa filosofia della guerra sulla Rete e
all’indicizzazione tradizionale è stato necessario aggiungere nuovi siti, sia
che abbiano a che fare con il conflitto nel Golfo, sia di ispirazione araba.
Come ha scritto su La Repubblica il giornalista Riccardo Staglianò, il sito
«Asarnet
16
è apparso ai radar dei media occidentali all’indomani della
decapitazione del cittadino americano Nicholas Berge da lì ha ospitato ogni
sorta di rivendicazione»
17
.
Asarnet è un forum di discussione che ha accolto involontariamente anche
notizie di rilievo, tanto da esser stato oscurato per vari giorni e poi, proprio
a causa del polverone alzato da alcune dichiarazioni lanciate attraverso il
forum, è stato sottoposto all’iscrizione obbligatoria per chi vuole
partecipare.
Nell’infographic dello stesso articolo di Staglianò vengono citati insieme
ad Asarnet, anche altri due siti di rilievo internazionale:
www.worldofislam.info (portale con link a vari siti islamici) e
www.haganah.org.il, un sito all’opposto dell’estremismo, che cerca
piuttosto di contrastare.
Con tutti i problemi di copertura che un conflitto in terra araba comporta, la
verifica delle informazioni è diventato un problema sempre più rilevante. Il
controllo incrociato non è sempre possibile e più volte è successo che i
media di tutto il mondo siano caduti in terribili errori.
Fabbricare delle fotografie o un video fai-da-te e spacciarlo per uno scoop è
diventata un’arte accessibile a tutti, grazie alle nuove tecnologie. Così
15
ibidem
16
www.asarnet.vs
17
Staglianò R., “Quelle false minacce all’Italia tutti i siti trappola di Al Qaeda” in La Repubblica, 18
Giugno 2004
come il fenomeno del reporter diffuso permette a chiunque di passare dal
rango di semplice testimone a quello di produttore della notizia, nello
stesso modo, con un po’ di dimestichezza con le nuove tecnologie, la
notizia può essere contraffatta.
Quando Andy Warhol pronunciò il famoso motto “chiunque ha diritto a
cinque minuti di celebrità”, non sospettava che ci sarebbe stato qualcuno
talmente desideroso di diventare protagonista di un evento da crearlo con
videocamera e computer.
È successo quando un impiegato di banca di San Francisco, nell’Agosto del
2004, ha messo in Rete il video della propria esecuzione ad opera dei
terroristi. Si tratta di un video fatto in un garage di San Francisco, montato
con immagini cruente e parti dell’audio delle decapitazioni dei veri
condannati a morte e con messaggi analoghi a quelli usati dai veri terroristi
islamici. Benjamin Vanderford, il finto condannato a morte, è stato
smascherato in fretta dalla Associated Press
18
.
Intanto, la notizia aveva fatto il giro del mondo in pochi minuti, rilanciata
proprio dalle televisioni arabe che per prime avevano raccolto il video da
Internet. Le stesse Al Jazeera ed Al Arabja, annunciando il video-choc
della decapitazione di Vanderford avevano aggiunto il proprio marchio di
attendibilità alla notizia.
L’autore del video ha ammesso subito che alla base della sua trovata c’era
una edonistica voglia di apparire, ma ha aggiunto che voleva dimostrare
come è facile realizzare un finto video perfettamente credibile e farlo
passare per le maglie dei controlli dei giornalisti.
18
cfr. Zucconi V., “La macabra beffa della falsa decapitazione” in La Repubblica, 8 Agosto 2004
Le parole pronunciate da Enrico Mentana in seguito a questo episodio sono
state: «noi giornalisti siamo molto attenti a controllare le fonti tradizionali,
ma non Internet, un sistema per sua natura anarchico»
19
.
Se un video come quello di Vanderford è passato senza controlli non è solo
colpa dei giornalisti e dell’anarchia della Rete, ma è anche merito delle
capacità tecniche dell’autore che ha realizzato un prodotto di ottima qualità
(benché le immagini fossero volutamente rovinate, per farle risultare più
credibili) e che ha scelto il momento giusto per metterlo in Internet, cioè
nel momento di massima psicosi da guerra di religione
20
.
Bisogna aggiungere che il secondo conflitto iracheno si distingue
nettamente dal primo per la quantità notevole di immagini e notizie che ha
prodotto. «Dei quarantadue giorni di battaglia della prima guerra del Golfo
– riassume Marco Pratellesi – restano tre immagini: il volto di Peter Arnett,
che dai microfoni della Cnn raccontava il conflitto; il cielo notturno di
Baghdad tagliato dal fuoco della contraerea irachena; il volto tumefatto del
capitano Cocciolone, che ripeteva davanti alla telecamera “My name is
Maurizio Cocciolone”»
21
.
Non c’è confronto con questo secondo conflitto, iniziato nell’era di
Internet, in cui si diffondono le notizie prima ancora che avvengano.
Ancora Pratellesi definisce la seconda guerra del Golfo come «il conflitto
più giornalisticamente coperto e raccontato della storia. Mai prima di allora
si erano avute tante notizie e immagini da un fronte di guerra. Ma mai
come allora è stato difficile capire che cosa veramente stesse succedendo al
fronte. L’Iraq era improvvisamente diventata la terra delle bufale dove le
19
riportato in La Repubblica, 8 Agosto 2004
20
cfr. Iannuzzi F., “Pochi strumenti ma tanta abilità” in La Stampa, 8 Agosto 2004
21
Pratellesi M., “Video e diari hi-tech: la guerra ai tempi del Web” in Il Corriere della Sera, 28 Marzo
2003
città (vedi il caso di Bassora) venivano conquistate prima dai titoli dei
giornali che dalle truppe alleate »
22
.
La filosofia di chi ha deciso il conflitto è all’opposto di quella del
predecessore che ha condotto l’attacco l’Iraq nel 1991: non più poche
notizie e immagini, ma al contrario una copertura totale degli eventi. Sono
stati gli stessi americani che hanno inventato la figura del giornalista
“embedded”, cioè un giornalista che vive con i soldati, si muove ed è
protetto da loro.
Sono stati selezionati ed addestrati seicento giornalisti, perché vivano
gomito a gomito con i soldati e raccontino il conflitto dallo stesso punto di
vista degli americani. Come spiega Pratellesi «per quanto intellettualmente
attrezzato, finirà per vedere le cose con gli occhi dei soldati e per parlare di
“noi” riferendosi ai marines e di “loro” per indicare gli iracheni»
23
.
Ma oltre ai seicento “scelti” e previsti dagli americani, per l’Iraq sono
partite anche truppe di giornalisti indipendenti che cercano di condurre dei
reportage di guerra avvantaggiati dalle nuove tecnologie leggere, che
permettono di andare in giro da soli ed anche di passare inosservati.
Mentre prima il materiale necessario all’inviato di guerra era molto
ingombrante, si trattava di quintali di attrezzature, oggi, come spiega
Pratellesi «si sono visti servizi di guerra trasmessi con il videotelefono
satellitare TH-1 (Talking Head- 1): una valigetta di 35 x 25 centimetri che
funziona con temperature da -10 a 60° C e si alimenta da 90 a 260 volt o
con la batteria dell’auto. Costo a partire da 10.000 dollari, peso 4 chili. Per
immagini di alta qualità l’attrezzatura non è comunque molto più
ingombrante: il piatto satellitare Swe-Dish pesa 40 chili tutto compreso, sta
22
Pratellesi M., NewJournalism, Milano, Mondadori, 2004, pag. 37
23
ivi, pag. 31
in una valigia e si accende in un minuto. Costa 100.000 dollari e un solo
operatore è sufficiente a farlo funzionare»
24
.
Molti di questi inviati lavorano per la Rete o usano Internet per diffondere i
loro reportage dalla zona di guerra attraverso i loro web-log. Fra le fonti di
questa guerra mediatica, si possono annoverare, infatti, anche i web-log:
quelli dei giornalisti, quelli degli abitanti, quelli dei soldati.
Esemplare è la storia di Salam Pax, noto come il blogger di Baghdad, che,
come spiega Pratellesi «non ha mai smesso di informare, anche sotto le
bombe, attraverso reportage brillanti e antiretorici trasmessi via Internet sul
suo blog (www.dearraed.blogspot.com)»
25
. Non ha mai voluto rivelare il
suo vero nome, ma ha accettato la proposta del quotidiano britannico The
Guardian e ha pubblicato un libro
26
.
Sul siti come www.blogsofwar.com, si possono trovare le storie dei soldati
americani e britannici. Come spiega Marco Pratellesi «grazie a potenti
computer satellitari indistruttibili di cui sono dotati, i soldati americani
raccontano in Rete la loro guerra: una visione privata che li trasforma da
combattenti in reporter dei fatti di cui sono protagonisti»
27
.
24
ivi, pag. 32
25
Pratellesi M., NewJournalism, Milano, Mondadori, 2004, pag. 35
26
Pax S., Salam Pax the Baghdad Blogger, 2003, Milano, Sperling & Kupfer
27
Pratellesi M., “Video e diari hi-tech: la guerra ai tempi del Web” in Il Corriere della Sera, 28 Marzo
2003