2
I due percorsi affini di cinema e metropoli all’interno della cornice
storica del ‘900 finiscono inevitabilmente per intrecciarsi, sovrapporsi e
talvolta addirittura coincidere in certi aspetti, rispecchiandosi
mutuamente l’uno nell’altra. La natura di tali reciproche intime
corrispondenze può essere indagata tramite una preliminare definizione
dei tratti distintivi del concetto di metropoli, da un lato, e delle
prerogative del mezzo cinematografico, dall’altro.
CONSIDERAZIONI SPARSE SULLA METROPOLI
“Cosa potremo usare per riempire gli spazi vuoti, dove eravamo
soliti parlare? Come potrò riempire lo spazio finale? Come potrei
completare il muro?”. Empty Spaces
1
, la breve canzone riportata in
apertura del capitolo, esprime e per certi versi riassume (se ciò fosse
possibile) alcuni dei tratti che caratterizzano lo spirito della civiltà
metropolitana: essa dà voce al grido di angoscia dell'uomo
contemporaneo smarrito in una realtà che non riesce più ad afferrare,
sulla quale ha perso ogni capacità non solo di controllo, ma anche di
comprensione. E' il grido di un uomo che si trova immerso in una realtà
che lo spiazza, lo sopravanza, non gli concede il tempo di adeguarsi ai
suoi mutamenti ed alle sue evoluzioni.
La realtà contemporanea avanza ad un ritmo forsennato, frenetico,
al di fuori di ogni controllo, e l'uomo, a suo tempo artefice di questo
sviluppo, ne diventa, senza quasi il tempo di accorgersene, spettatore e
vittima.
L'uomo della metropoli si ritrova isolato, circondato appunto da
“spazi vuoti” che non è più in grado di riempire: i luoghi dove un tempo
“si era soliti parlare”, i luoghi della socialità, dei rapporti umani, degli
scambi vitali. Ora, al loro posto, il deserto, il vuoto, il silenzio, la “terra
di nessuno”, che si frappone, metaforicamente e fisicamente, tra il muro
di un “io” e i muri di tanti altri “io”.
1
R. Waters-Pink Floyd, The Wall, Harvest 1979.
3
IL DESERTO, LE ROVINE, I RIFIUTI
Questa “terra di nessuno” appare disseminata di rovine e rifiuti, due
segni caratterizzanti dello spirito della metropoli. Di una metropoli
diventata un enorme organismo vivente che tutto comprende e tutto
divora. Rovine e rifiuti sono due realtà completamente diverse tra loro,
ciascuna delle quali evidenzia un aspetto peculiare di questa metropoli
“autofaga”.
Le rovine, infatti, sono i segni del passato, le impronte di una
civiltà che è stata e che, morendo, ha ceduto il passo al proprio futuro, al
proprio ultimo stadio o, per usare un concetto di Spengler, alla
"civilizzazione".
2
Le rovine sono dunque i segni, gli avanzi di una civiltà
fagocitata dal suo proprio evolversi in civilizzazione.
I rifiuti invece sono i segni della civilizzazione che divora se
stessa: è il presente che divora il presente prima ancora che abbia avuto
il tempo di diventare passato. I rifiuti non rappresentano il vecchio
sovrastato dal nuovo, perché è il nuovo stesso che è già vecchio nel
momento in cui nasce. La velocità della tecnica è superiore alla sua
stessa capacità di realizzazione e di fruizione, tanto che un oggetto
appena creato è già da buttare, superato da qualche nuovo modello più
sofisticato.
Dalle rovine e dai rifiuti scaturiscono due tendenze proprie del
metabolismo metropolitano: il museo ed il riciclaggio.
Il primo rappresenta il bisogno recondito di conservare, di
mantenere in vita una memoria collettiva che si è persa, il senso delle
proprie radici. Perché l'uomo metropolitano è in realtà forzatamente
nomade.
Il secondo esprime il bisogno di recuperare l'inutilizzato, di
reinventare una funzione a ciò che è stato abbandonato prima ancora che
le sue potenzialità fossero effettivamente esaurite.
2
O. Spengler, Il tramonto dell'occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia
mondiale, (tr. it. di J. Evola, a cura di R. Calabrese Conte, M. Cottone e F. Jesi),
Guanda, Parma 1991.
4
Una sorta di sintesi tra museo e riciclaggio è costituita dal
collezionismo: esso può riguardare tanto le rovine quanto i rifiuti, dal
momento che si può rivolgere tanto ai reperti del passato quanto agli
scarti del presente, ed implica la dimensione della perdita e il
conseguente bisogno di compensazione.
La paura della perdita, del passaggio fugace che non lascia traccia,
spinge l'uomo metropolitano a raccogliere e conservare tutto ciò che gli
offre l'illusione di fermare il frenetico ritmo del tempo, di dominarlo. La
collezione si sostituisce così alla memoria, al racconto del passato, sia
recentissimo sia remoto, nel tentativo di adeguarsi all'accelerazione della
vita contemporanea. La conservazione e lo studio di frammenti raccolti
insieme e spesso non legati ad un contesto sistematico preciso, diventano
un agente di estraniazione dal presente.
5
IL CARATTERE DELLA METROPOLI
Parlare della metropoli significa parlare per accenni, per
considerazioni sparse, per frammenti, perché la natura della metropoli è
frammentaria. La metropoli non può essere compresa in tutta la sua
complessità con uno sguardo unico e onnicomprensivo: non esiste una
visione panoramica che la contenga, perché essa non ha limiti né confini.
Non ha mura di cinta né una struttura lineare, come le vecchie città
dell'era borghese, dove il confine urbano era il baluardo di difesa
dell'individuo, era il segno della contrapposizione tra la città e la
provincia, tra il dentro e il fuori.
Nella metropoli non esiste un dentro e un fuori: esiste solo la
metropoli.
Come sostiene N. Goodman nel suo saggio Come conquistare la
città
3
, conquistare la metropoli (nel senso di coglierne il carattere
attraverso i mezzi di rappresentazione) è una missione impossibile in
partenza. Non tanto e non solo per la sua vastità, complessità,
frammentazione e stratificazione, quanto soprattutto perché non esiste il
carattere della metropoli, non un suo solo modo d'essere. La metropoli
ha infiniti modi d'essere spesso in contrasto tra loro, perché nella
metropoli che tutto contiene convivono gli opposti e le contraddizioni.
Si può dunque solo arrivare ad una conquista relativa, ad una
rappresentazione parziale della metropoli, perché i materiali di cui
disponiamo sono molteplici e difficilmente integrabili: osservazione,
impressioni, ricordi, racconti, immagini, nozioni e frammenti
costituiscono la “nostra” idea di metropoli, estremamente relativa ed
incompleta. Combinando e riorganizzando questi materiali cerchiamo di
ottenere una caratterizzazione il più possibile efficace, ma non c'è un
ordine preciso, una scaletta da seguire o una visione d'insieme definitiva
e assoluta.
3
N. Goodman: Come conquistare la città, in Aa. Vv., Oltre la città, la metropoli,
Catalogo della Triennale di Milano.
6
LO SGUARDO SULLA METROPOLI
Se già risulta difficile arrivare a comprendere la metropoli, ancora
più difficile diventa cercare di rappresentarla. Ciò che si può percepire
di essa sono solo dei frammenti che sommati insieme non danno il tutto.
Perché il tutto dell'essenza della metropoli consiste proprio nella sua
frammentarietà. Un avvicinamento alla metropoli si realizza attraverso
una percezione da cui si cancella il concetto di confine fisico per far
posto a quello più ambiguo di “confine psicologico”
4
.
La metropoli non ha confini. Non esiste sguardo panoramico che la
contenga: esistono tanti sguardi frammentari e parziali della realtà
metropolitana, la cui somma però non dà la totalità.
Lo sguardo dell'uomo metropolitano è lo sguardo del “flâneur”, lo
sguardo cioè di colui che vaga senza meta guardandosi intorno ed
assorbendo, più o meno volontariamente, gli infiniti stimoli e
sollecitazioni, o meglio “shock” visivi, cui la vita metropolitana lo
sottopone senza tregua.
“Il grande magazzino è l'ultimo rifugio del flâneur”
5
.
Il grande magazzino induce infatti ad una visione per frammenti.
Dalle sue vetrate scorgiamo frammenti di panorama urbano, dai piani più
alti scorgiamo frammenti di paesaggi ormai irraggiungibili allo sguardo,
nei suoi locali ascoltiamo frammenti di musiche, sui suoi scaffali
percepiamo frammenti di merci in vendita, attraverso gli stessi scaffali
cogliamo frammenti di persone e di vite. Il tutto in modo istantaneo e
precario.
Il grande magazzino diventa la realizzazione involontaria ma
concreta dell'arte surrealista, che bene si addice al carattere dell'uomo
metropolitano, ormai assuefatto alla tecnica del frammento. Il grande
magazzino, così come il collezionismo ed il museo, è anch'esso un luogo
del feticismo metropolitano
6
.
4
Cfr. F. Raggi, Città senza disegno, in Aa. Vv., Oltre la città, la metropoli, op. cit.
5
W. Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1995.
6
Cfr. V. Burgin, Seiburealismo, in Aa. Vv., Oltre la città, la metropoli, op. cit..
7
Lo sguardo sulla metropoli non può essere panoramico: è piuttosto
frantumato, atomizzato, sezionato e ricostruito a livello del suolo, dove
“anche l’aspetto complessivo della città si rifrange in aspetti parziali”
7
.
Ma c'è un altro aspetto fondamentale che condiziona lo sguardo e ne
accentua il senso di frammentarietà, ed è la velocità. La velocità, a sua
volta, in quanto prodotto del rapporto tra un dato spazio da percorrere ed
il tempo impiegato per percorrerlo (V = S/T), implica necessariamente la
dimensione spazio-temporale che costituisce un elemento fondamentale
del carattere dello stile di vita metropolitano.
La metropoli, a differenza della città, non è più uno spazio “a
misura d'uomo”: sarebbe impensabile percorrerla a piedi. E' percorribile
solo con mezzi di trasporto che consentano di ridurre il tempo di
spostamento, in modo da restituire l'illusione di uno spazio a misura
d'uomo. Ciò condiziona notevolmente le modalità visive e percettive.
Il visitatore contemporaneo, dal finestrino di un mezzo di trasporto,
ha una visione “televisiva” dello spazio urbano: la sua percezione è
infatti filtrata dal riquadro del finestrino e “montata” in una sorta di
collage dalla velocità di spostamento, prototipo della visione simulata
operata appunto dalle tecniche televisive, quella che Santachiara
definisce, coniando un neologismo, “dromoscopia”, ossia visione in
velocità
8
.
Un discorso a parte merita invece la metropolitana, linea di
trasporto per eccellenza della metropoli contemporanea, come dice la
parola stessa: essa infatti non concede possibilità di sguardo durante il
tragitto, ma restituisce artificialmente il tempo umano, rendendo
raggiungibili spazi tra loro distanti come in una piccola città. In questo
modo, alla visione reale degli spazi urbani si sostituisce una visione
“immaginata” tra il frammento del luogo di partenza e il frammento del
luogo d'arrivo.
7
A. Cappabianca, M. Mancini, Ombre urbane. Set e città dal cinema muto agli anni
’80, Edizioni Kappa, Roma 1981.
8
D. Santachiara, Dromo-design e metropoli, in Aa. Vv., Oltre la città, la metropoli,
op. cit.
8
Lo spazio fisico in cui è situata la linea metropolitana costituisce
d'altronde un ambiente a sé, una sorta di strato sotterraneo della
metropoli ancora tutto da inventare e progettare: una “sub-architettura”.
Così come è ipotizzabile, in un futuro non si sa quanto remoto, un livello
“supra-architettonico” da pianificare e organizzare quando i mezzi di
trasporto terrestri non saranno più adeguati a garantire uno spostamento
sufficientemente veloce. Ma questo, almeno per il momento, fa parte
solo del campo delle ipotesi.
L'INVISIBILE NELLA METROPOLI
D'altronde, la cartografia della metropoli è, una “cartografia
dell'invisibile”
9
, in quanto esistono diversi livelli che, pur non essendo
visibili ad uno sguardo organico, pure costituiscono in potenza l'ossatura
della metropoli.
I livelli dell'invisibile nella metropoli sono molteplici: c'è ciò che
non si vede (il sottosuolo), ciò che non si vede più (il passato), ciò che
non si vede ancora (i progetti), ciò che non si vedrà mai (le utopie), ciò
che non è in atto, ma è latente (le potenzialità).
La metropoli dunque contiene al suo interno tanto le tracce di
paesaggi fossili da esplorare archeologicamente quanto i progetti non
realizzati e le infinite potenzialità non ancora emerse. Un'integrazione
tra questi differenti livelli apre prospettive nuove e concrete in vista di
un'urbanistica futura, costituendo un ponte tra presente, passato e futuro,
e consente molteplici prospettive di rappresentazione.
Le tracce del passato, come abbiamo più volte accennato, persistono
nella metropoli e ne costituiscono un elemento essenziale, ma non
altrettanto si può dire delle strutture urbanistiche del passato.
9
Cfr. P. Pnon, Cartografia dell'invisibile, in Aa. Vv., Oltre la città, la metropoli,
op. cit.
9
La città del passato aveva una struttura ben definita e riconoscibile,
che tendeva a conferirle una forma sostanziale precisa: mura, porte, vie
di comunicazione per lo più perpendicolari tra loro e confluenti verso il
centro. Ciò la rendeva inaccessibile dall'esterno, perché protetta e
fortificata, e, nello stesso tempo, più facilmente percorribile all'interno,
in quanto i criteri di geometria e perpendicolarità favoriscono
l'orientamento.
La metropoli moderna, invece, è priva di porte e mura, poiché un
limite o una protezione sarebbero in contrasto con i suoi meccanismi.
Anche le strade e le piazze (i luoghi dove un tempo “si era soliti
parlare”) sono state sostituite da strutture sempre più funzionali
all’esigenza di velocità, finendo così per perdere la funzione di punti di
riferimento sia sociali che topografici.
In effetti, la città contemporanea non è più il luogo
dell’insediamento umano, ma piuttosto un punto di intersezione tra merci
ed individui, regolato dal valore astratto del denaro. In questo modo si
creano spazi pubblici pensati nella loro transitorietà e non in virtù della
ricerca di unità e continuità.
La perdita del centro e di tutto ciò che un tempo aveva a che fare
con l'ordinamento prospettico e gerarchico dello spazio è uno dei dati
salienti della struttura sia fisica che psicologica della metropoli: essa
non ha una vera e propria forma, in quanto il suo non è un tutto
articolato ed ordinato, ma costituisce una struttura aperta, reticolare,
indefinita.
10
MEZZI DI RAPPRESENTAZIONE DELLA METROPOLI
Lo sguardo sulla realtà metropolitana è, dunque, per molti motivi,
uno “sguardo inquieto”
10
. Da un lato, la civiltà contemporanea vive
un'inquietudine che deriva dal fatto di percepire il proprio momento
storico come un'era di transizione oltre la quale non si sa bene cosa ci
sarà. Dall'altro, la stessa velocità di sviluppo e di ritmi che la vita
moderna impone senza via di scampo, costringe inevitabilmente l'uomo
metropolitano ad uno sguardo frettoloso, istantaneo e frammentario su
ciò che lo circonda.
Non è infatti un caso che, proprio con la metamorfosi della città in
metropoli, nascano e si evolvano nuovi mezzi di rappresentazione che si
vanno ad affiancare alle forme d'arte consolidate. Questo perché, ad un
mutamento di stile di vita e di categorie estetiche corrisponde
necessariamente l'esigenza di creare strumenti adeguati, in grado cioè di
cogliere e rappresentare i tratti essenziali della nuova realtà.
Così la fotografia, nata agli inizi del XIX secolo, mostra sin dalle
origini prerogative fondamentalmente urbane: ha la capacità, infatti, di
fissare la realtà in un'immagine istantanea e frammentaria, dispone di
una molteplicità di punti di vista ed offre la sensazione di una
sospensione temporale che carpisce un momento di vita e lo immortala
imprimendolo sulla pellicola e costringendolo entro uno spazio definito.
D'altro canto, la nascita della fotografia corrisponde alla
consapevolezza dei limiti dei nostri mezzi linguistici a rappresentare la
realtà moderna in evoluzione, mezzi inadeguati ed insufficienti ad
esprimere una percezione sempre più stratificata e complessa.
La fotografia si sostituisce, almeno in parte, alla memoria, diventa
documento di un passato (individuale e collettivo) che non si riesce più a
trattenere e raccontare, ma, al limite, si può "collezionare" in una sorta
di bagaglio di reliquie che testimonino la propria esistenza personale e
storica.
10
Cfr. L. Ghirri, Lo sguardo inquieto, un'antologia di sentimenti, in Aa. Vv., Oltre
la città, la metropoli, op. cit.
11
L'essenza dell'arte fotografica, pur senza aver esaurito la propria
funzionalità rappresentativa, resta comunque legata ad un contesto
cittadino in via di sviluppo, un contesto, cioè, nel quale spazi e tempi
sono ancora a misura d'uomo ed il processo di velocizzazione non ha
ancora travolto i parametri dell'esistenza urbana.
Con l'avanzata prepotente ed incontrollabile della velocità, si fa
strada anche l'esigenza di rappresentare non più solo l'istantaneità degli
eventi, ma anche e soprattutto la loro dimensione di movimento. Nei
primi anni del '900, un'avanguardia artistica come il Futurismo pone alla
base del proprio manifesto programmatico la celebrazione delle
manifestazioni di velocità, movimento e rumore in tutta la loro violenza
esplosiva. Così, in letteratura, in pittura, in scultura, in architettura si
cerca con ogni mezzo di rendere percepibile la dimensione del
movimento, il principio di velocità e dinamismo, sovrapponendo in modo
sincronico i frammenti diacronici dell'azione che si vuole rappresentare.
Si tratta dello stesso procedimento che sta alla base della tecnica
cinematografica: proporre, cioè, una sequenza di istantanee il cui
risultato sia la resa dell'azione in movimento. Non per niente, infatti,
proprio il cinema ha raccolto l'eredità della tecnica fotografica,
ampliandone le potenzialità e riuscendo quindi ad avvicinarsi ad una
ancor più conforme rappresentazione della realtà contemporanea.
Al cinema, più che a qualsiasi altra tecnica, è concesso il privilegio
di rappresentare in modo adeguato le diverse matrici dell'anima
metropolitana, in quanto ne rispecchia, per molti versi, carattere e
meccanismi: sintetizza infatti i concetti di istantaneità, frammentarietà e
molteplicità di punti di vista, insiti nello spirito della metropoli e già
espressi con la fotografia, secondo un principio di consequenzialità
dinamica delle immagini, che rende riproducibile l'effetto del
movimento. Inoltre, si avvale delle potenzialità tecniche ed espressive
del montaggio, strumento attraverso il quale acquisisce la facoltà di
accostare spazi, situazioni e singole immagini tra loro distinte e di
riorganizzarle secondo precisi criteri di significazione.
12
Il cinema, a prescindere dalle storie che racconta e dai suoi
contenuti, propone una prospettiva di sguardo sul mondo che assomiglia
molto a quella “flânerie” cui ho accennato in precedenza: uno sguardo
errante e vagabondo che è in grado, da un guazzabuglio di dettagli
carpiti qua e là, spesso disarticolati e privi di correlazione, di
estrapolare e cogliere la fisionomia ed il senso della realtà nella sua
complessità caotica.
Nella metropoli, dove il singolo frammento ne lascia presupporre
altri analoghi all'infinito, la parte rappresenta il tutto, e la visione per
inquadrature e per sequenze rivela, molto più di qualsiasi altra visione, il
carattere sostanziale della civiltà metropolitana e delle sue
manifestazioni sensibili.
13
PUNTI D’INCONTRO TRA METROPOLI, CINEMA E FANTASCIENZA
Proprio sulla base di queste affinità strutturali tra il mezzo
cinematografico e l’essenza della metropoli, il cinema risulta essere la
forma di rappresentazione più completa e idonea a riprodurre e a rendere
visibile la natura della metropoli postmoderna.
Il cinema, anche quando non rappresenta specificamente un contesto
urbano come sfondo al proprio sviluppo narrativo, presuppone comunque
come destinatario un pubblico metropolitano, dinamico e “di massa”, e
parte quindi necessariamente da una prospettiva urbana.
La città è spesso elemento scenografico presente nella narrazione
filmica: a volte fungendo semplicemente da sfondo alla vicenda
rappresentata, altre volte divenendone, più o meno intenzionalmente,
protagonista essa stessa.
Indipendentemente dal genere cinematografico entro il quale la
vicenda si iscrive (si tratti di genere storico, poliziesco, giallo, noir,
gangster, fantastico, catastrofico o quant’altro), l’ambiente urbano
diventa talvolta scenario imprescindibile, se non addirittura elemento
caratterizzante dell’azione filmica
11
: in quanto contesto ambientale entro
il quale i personaggi si muovono e agiscono, esso fornisce le coordinate
spaziali della narrazione e indica i punti di riferimento visuali necessari
alla comprensione dello sviluppo dell’azione.
In alcuni casi esso acquisisce caratteristiche e connotati
iconografici specifici proprio a seconda del genere al quale fa da sfondo.
Nel genere poliziesco, per esempio, la città assume implicitamente
l’aspetto di un labirinto, all’interno del quale il criminale si nasconde
alla giustizia e la polizia, nell’intento di stanarlo, innesca quel
meccanismo di inseguimento, di caccia del gatto al topo, che è proprio di
questo genere. Nel dedalo di nascondigli e di rifugi che la città del
11
Cappabianca e Mancini parlano di una “vocazione delle città”, per cui
esisterebbero delle “affinità elettive” tra generi cinematografici e città reali, le
quali, per qualche intrinseco connotato strutturale, si presterebbero a fare da sfondo
ad un determinato genere piuttosto che a un altro. New York, per esempio, si
proporrebbe come “luogo deputato” per il genere poliziesco. (cfr. A. Cappabianca,
M. Mancini, Ombre urbane, op. cit.).
14
poliziesco offre, le coordinate spaziali si sovrappongono e si intersecano
a quelle dell’indagine
12
.
Spesso, inoltre, l’ambientazione cinematografica urbana richiede
una ricostruzione in studio di monumenti e di complessi architettonici
esistenti, determinando quella che Cappabianca e Mancini definiscono
“duplicazione dell’architettura”
13
. Ciò risulta particolarmente evidente,
per esempio, nella costruzione scenografica propria del genere storico,
dove la riproduzione di intere città del passato crea un vero e proprio
“doppio” artificiale di un originale andato perduto.
Ma l’impiego della duplicazione architettonica nella costruzione di
set cinematografici non si limita ai monumenti storici o agli edifici
“importanti”: molto spesso, anzi, essa si incarica di riprodurre spazi
architettonici “normali”, luoghi comuni della fisionomia urbana, come
vie, piazze, quartieri, edifici e locali pubblici, la cui utilizzazione “dal
vero” come set cinematografico risulterebbe scomoda o inadatta alla
realizzazione del film.
Questo potere squisitamente cinematografico di creare e ricreare,
tramite la riproduzione architettonica, scenografie urbane credibili
14
,
consente di spaziare ben oltre l’esistente o l’esistito, aprendo la strada
alla materializzazione di spazi e ambienti puramente immaginari, alla
costruzione di mondi possibili al di fuori della realtà: i mondi del
fantastico o del futuribile.
Dunque, il genere cinematografico fantascientifico, o, meglio, di
science fiction, acquisisce un potere supplementare rispetto ad altri
generi: quello di costruire immaginari che vadano al di là del “già visto”
12
“La ragnatela dell’indagine si sovrappone così all’apparente caos urbano, ne
designa la logica e la mappa dell’organizzazione significante. Ciò che sembra
agglomerato informe, si aggrega attorno ad alcune linee-forza strutturanti. […] La
città sembra il caos, ma non lo è abbastanza. L’indagine, l’investigazone, la
strutturano, la disegnano. La sua sola geometria possibile è la possibilità del delitto,
come tutte le mappe urbane appese alle pareti negli uffici di polizia, segnate dalle
tacche colorate del crimine, si incaricano di ricordare. La città-nuda, la città-
giungla, sono città che un moralismo ostinato si affanna a chiamare senza senso solo
perché non ricevono senso che dal delitto.” (ibid.).
13
Ibid.
14
“[…] l’arte degli scenografi dovrebbe piuttosto avvicinarsi a quella
dell’illusionista (i cui giochi hanno per condizione che non si scopra il trucco…)”
(ibid.).
15
e che, liberi dai vincoli dell’esistente, prefigurino e rendano visibili
alcuni dei potenziali sviluppi della realtà contemporanea, portando alle
estreme conseguenze alcuni aspetti intrinseci dell’evoluzione della
nostra civiltà e del nostro tempo.
Quello che mi interessa analizzare a questo proposito è appunto il
modo (o meglio, i modi) in cui si concretizza, nel cinema di science
fiction, l’elaborazione di immaginari urbani futuri.
Nel campo del futuribile, dell’ipotetico o del fantastico, tutto (o
quasi) è concesso all’immaginazione, proprio perché si tratta solo di
congetture, più o meno attendibili, su ciò che potrebbe accadere. La
science fiction può permettersi di giocare in bilico tra realtà e irrealtà,
lungo la “linea d’ombra” che le separa (senza demarcarle), proprio
perché non può esistere un “vero” e un “falso” assoluto in ciò che deve
ancora venire. Ed inoltre, ha la facoltà di caricare la prefigurazione
fantastica del futuro dei significati e delle valenze che preferisce:
fiducia o pessimismo, speranza o paura, utopia o catastrofe.
Esiste una molteplicità di modi di guardare al futuro e, di
conseguenza, esistono differenti possibilità di resa visiva del futuro
stesso, a seconda della prospettiva da cui si parte e delle problematiche
che si vogliono affrontare, siano esse di carattere scientifico,
tecnologico, politico, sociale, antropologico, metafisico, estetico o
quant’altro.
Dice James G. Ballard: “Penso agli scrittori di fantascienza come a
dei pensatori. Essi cercano di immaginare le conseguenze e le
implicazioni delle cose. Fra un paio di secoli questi scrittori saranno
considerati i filosofi importanti del ventesimo secolo.”
15
La stessa affermazione dovrebbe essere estesa, a maggior ragione,
al regista di film di science fiction, il quale, a differenza dello scrittore
che può solo evocare o suggerire all’immaginazione dei lettori, tramite
la parola scritta, gli scenari futuristici concepiti dalla sua mente, dispone
di un’arma supplementare: ha il potere, cioè, di visualizzare questi
15
James G. Ballard, Il futuro è morto. Psicogeografia della modernità, ed. Mimesis,
Milano, 1995.
16
scenari attraverso la scenografia e quindi di rendere concreti e “reali”
(quasi tangibili) le sue prefigurazioni del futuro.
Quello che per lo scrittore resta un atto di creazione mentale di
mondi immaginari che si esprimono in forma letteraria, per il cineasta
diventa un atto di costruzione fisica degli ambienti e dei paesaggi creati
dalla sua immaginazione. E non si tratta qui semplicemente di una ri-
costruzione scenografica di spazi urbani consueti, ma piuttosto di un atto
di fondazione ex novo di un intero immaginario urbano che definisca
l’atmosfera globale del futuro in tutti i suoi aspetti e in tutta la sua
complessità.
Ma l’aspetto del futuro, “the way the future looks” (citando il titolo
di un saggio di Robert Silverberg sull’argomento
16
) varia a seconda
dell’angolatura, del punto di vista, della prospettiva da cui si parte
nell’interpretare il presente. Un presente inteso come serbatoio che
contiene già in potenza le linee direttrici delle sue evoluzioni future, i
segni del suo destino. La pre-visione del futuro si sviluppa quindi a
partire da una presa di coscienza analitica del presente e dalla sua
rielaborazione critica.
A questo proposito, mi è sembrato di individuare, nel panorama
cinematografico della science fiction, tre differenti tipologie di
rappresentazione della città del futuro, ciascuna delle quali risulta
fortemente influenzata dal contesto storico all’interno del quale è stata
concepita, prende le mosse da un’impostazione filosofico-estetica ben
precisa e, di conseguenza, offre un’interpretazione del tutto peculiare del
paesaggio urbano del futuro.
Il primo criterio d’impostazione che intendo analizzare è quello che
guarda al futuro in chiave simbolico-allegorica e che imposta la
rappresentazione scenografica della città come metafora di una struttura
socio-politica, più che non come vera e propria prefigurazione della
metropoli del futuro. Ambienta la vicenda narrata in un futuro indefinito,
senza preoccuparsi di fornire coordinate temporali precise, e utilizza
16
Robert Silverberg, The Way the Future Looks: THX 1138 and Blade Runner, in Aa.
Vv., Journey into the Future, …
17
l’organizzazione spaziale e la stratificazione architettonica
essenzialmente con l’intento di rendere comprensibile, anche a livello
visivo, la stratificazione e l’evoluzione di un certo modello di
ordinamento sociale. Film emblematico di questa chiave di
interpretazione del genere fantascientifico è Metropolis di Fritz Lang
(1926).
Il secondo orientamento è quello che rappresenta in modo più
marcato la proiezione fantascientifica dell’utopia negativa, in un’ottica
che prende effettivamente spunto dai presupposti scientifici e dalle
prospettive, spesso inquietanti, aperte dall’evoluzione della biogenetica
e della biomeccanica, per elaborare una visione fortemente distopica del
mondo, dove ogni settore dell’agire umano è scientificamente e
tecnologicamente controllato. Questo tipo di impostazione si esplica
attraverso la proiezione della vicenda in una dimensione temporale molto
lontana nel tempo, cosa che aiuta a conferire maggiore credibilità alle
esasperazioni nella rappresentazione degli esiti aberranti di una scienza
totalitaria. Si avvale, inoltre, di un’organizzazione spaziale all’insegna
dell’ordine e dell’asepsi, che fa da riscontro visivo a quel modello
utopico di “società perfetta” che l’ipertecnologizzazione e
l’iperfunzionalizzazione della scienza sembrano promettere (o
minacciare). E’ il tipo di scenario proposto dal film di George Lucas
THX 1138 (tit. it. L’uomo che fuggì dal futuro) del 1970.
Infine, l’ultimo criterio di rappresentazione della metropoli del
futuro che ho individuato si sviluppa sulla base di un intento
specificamente realistico ed acritico di prefigurazione dell’ambiente
urbano, che pone come obiettivi dichiarati e primari i principi di
attendibilità e di verosimiglianza. Insomma, non si limita alla messa in
scena di congetture astratte, frutto dell’immaginazione e di una
concezione etico-filosofica del presente o dei suoi presupposti scientifici
e socio-politici, ma si preoccupa principalmente di fornire una visione
estetica credibile dello scenario metropolitano a venire.