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INTRODUZIONE
Perchè parlare oggi dello spaghetti western, un fenomeno irripetibile, ma morto e
sepolto? Un fenomeno i cui effetti non sembrano essere stati particolarmente
rilevanti nel processo di mutamento culturale di un paese?
Queste sono alcune delle domande che mi sono posto nel momento in cui ho preso
in considerazione la scelta di questo argomento. Senza dubbio, questa tesi è stata
per me l’opportunità di mettere ordine a molte idee e intuizioni che ho sviluppato in
questi due anni di full-immersion nel western all’italiana. Sono dell’opinione che il
western all’italiana abbia molto da insegnare, a livello di capacità comunicativa e
creativa.
Affronterò, nel corso della tesi, la questione dell’importanza dell’istinto e dell’
inequivocabilità nel fare comunicazione e, tracciando un profilo dello spaghetti
western, tenterò di dimostrare quanto l’assimilazione e la rielaborazione di una
cultura da parte di un’altra porti a forme di comunicazione innovative e originali.
Conferme e stimoli sono pervenuti dai colloqui con il professor Fabrizio Lucherini e
da alcuni testi della Scuola Fiorentina della Comunicazione: Giornalismo e post-
giornalismo di Giovanni Bechelloni, dove viene sottolineata l’efficacia della forma
fictional nel trasmettere concetti profondi e importanti, e Indigeni si diventa di Milly
Buonanno, dove l’Autrice parla di spaghetti western, nell’ambito del concetto di
“indigenizzazione”.
Ho tentato, inoltre, di concentrarmi su aspetti e chiavi di lettura che non ho
riscontrato nella letteratura sull’argomento; la bibliografia che riguarda questo
genere è ancora piuttosto limitata. L’eccezione è rappresentata dai contributi,
abbastanza numerosi e qualificati, relativi al regista Sergio Leone. Vale a dire colui
che del western all’italiana è stato il maggior autore e, anzi, il vero e proprio
creatore.
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Per di più, nella maggior parte dei casi, la critica si è accostata a questo importante
e interessante filone della cinematografia italiana con una certa sufficienza, se non
addirittura con un nemmeno tanto dissimulato alone di disprezzo.
Eppure si è trattato di una produzione, quella del western all’italiana, che si è
estesa per un periodo temporale di quasi un trentennio (dal 1964 ai primi anni
settanta) e che assomma oltre quattrocento titoli.
C’è da dire che critiche più o meno aspre non sono state certamente risparmiate
neppure allo stesso Sergio Leone, che pure di questo genere resta la stella polare.
Il risultato finale di questo controverso atteggiamento è stato quello di accostarsi, in
modo poco obiettivo e poco costruttivo, anche ai venticinque-trenta film che pure si
distaccano nettamente per la loro qualità dalla restante produzione (costituita da
pellicole che sono il più spesso decisamente brutte e vuote). Vale a dire che lo
stato mentale della critica si è mostrato spesso non disponibile a scandagliarne a
fondo le tematiche, le atmosfere, le logiche e soprattutto il ruolo assolutamente
innovativo rispetto al canovaccio classico americano.
Solo da qualche anno a questa parte si sono manifestate eccezioni alla tendenza
prevalente. Scorrendo infatti i titoli della bibliografia ci si rende conto come, negli
ultimi tempi, ci si stia da più parti accorgendo di questo difetto di approccio. In
particolare i contributi più recenti, contando su oltre tre decenni di distacco e
sedimentazione critica, risultano sempre meno bellicosi e più obiettivi.
Un punto di partenza interessante per guardare con occhio criticamente non
condizionato e attento alla migliore produzione western italiana di quegli anni è
sicuramente “l’imprinting mitico” che aleggia attorno al western all’italiana,
soprattutto per la generazione dei ventenni e dei trentenni. Una generazione
cresciuta in un’epoca nella quale la potente divulgazione televisiva ha spesso
insistito nella programmazione di tante pellicole appartenenti a questo genere. Ciò
può aver avuto la sua notevole influenza nel determinare lo slancio che ha portato
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ad appassionarsi verso questo genere filmico e ad osservarlo con occhi diversi da
come era stato fatto dalle generazioni precedenti.
Il western classico americano
Il western classico, genere tipico del cinema americano da cui lo spaghetti western
prende le mosse, nasce come rielaborazione mitica di un fatto storico. Esso pone
come tema centrale la conquista dei territori dell'Ovest e la nascita della nazione
americana che ne conseguì.
Alla realtà storica finisce tuttavia per sostituirsi una manipolazione in chiave
esageratamente epica rispetto ai reali accadimenti.
I pionieri vengono disegnati come coloro che portarono la civiltà e che dettero vita a
una nuova società in territori dove prima regnava la barbarie degli indiani. Sono
rappresentati come coloro che difesero la terra e la comunità dai fuorilegge, e da
chiunque avesse intenti in qualche modo trasgressivi. Sempre guidati da un rigido
codice morale da cui si profila, maestosa, la figura dell'eroe virtuoso e
disinteressato. Quello che garantisce sempre la vittoria finale del Bene sul Male.
Questa appare, in una sintesi estrema, l'essenza ideologica del western classico.
Un genere che ha trovato in registi come J. Ford, H. Hawks e R. Walsh i suoi
maggiori cantori nel corso degli anni trenta e quaranta.
A partire dagli anni cinquanta il western americano, pur restando sostanzialmente
fedele ai suoi canoni classici di fondo, tende ad acquistare inflessioni sempre più
malinconiche e problematiche. Tanto che taluni parlano, con riferimento a questo
periodo, di western del crepuscolo. La figura dell'eroe inizia a riflettere i dubbi
sulla propria identità ovvero ad avvertire il senso di una solitudine legata
all'incedere inarrestabile della civilizzazione che metterà in crisi il suo ruolo. E'
questo il periodo che riconduce a registi come A. Mann, W. Wellman, N. Ray, F.
Zinneman, G. Stevens ed altri.
Negli anni sessanta e settanta il western d’oltre oceano, già in forte crisi, viene
rivitalizzato da una rivisitazione polemica che trova sostegno nel clima di
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contestazione di quegli anni. Inizia a confrontarsi così con la verità storica, senza
tuttavia abbandonare del tutto la sua dimensione leggendaria. E finisce per porre
l'accento sulle brutalità, sulle violenze, sulle ingiustizie e sullo sfruttamento di cui è
stata storicamente intrisa la conquista del West. In particolare si comincia a fare
strada quella che per troppo tempo è stata una verità nascosta. E cioè si riconosce
che gli indiani sono stati vittime di uno spietato genocidio. Tra i tanti registi di
questo periodo emerge soprattutto il nome di S. Peckinpah, oltre a film come
Soldato Blu, Un uomo chiamato cavallo e Piccolo grande uomo.
Il western all’italiana
Al di fuori degli Stati Uniti, nell'Italia degli anni sessanta, nasce e si sviluppa il
cosiddetto spaghetti western ovvero il western all'italiana. Esso si segnala, da
subito, per alcuni suoi caratteri peculiari rispetto al genere classico da cui trae
ispirazione e linfa.
"Ford era un ottimista. Io sono un pessimista. I personaggi di Ford, quando aprono
una finestra scrutano sempre, alla fine, questo orizzonte pieno di speranza; mentre
i miei, quando aprono la finestra, hanno sempre paura di ricevere una palla in
mezzo agli occhi".
In queste parole di Sergio Leone - considerato universalmente l’inventore del
genere spaghetti western a partire da quando diresse, nel 1964 e sotto la copertura
dallo pseudonimo americanizzato di Bob Robertson, il film Per un pugno di dollari -
si riassume tutta la profonda diversità con cui gli americani e gli italiani hanno
trattato un genere ritenuto classico come il western.
Nella recensione della pellicola capostipite del western all’italiana diretto da
SergioLeone, Tullio Kezich trovò in essa "qualcosa di eccessivo, che denuncia la
mancata appartenenza a un filone originario... stragi salgariane, torture sadiche,
sangue che imbratta tutto" e la scomparsa di ogni "legame con i miti della giustizia,
della fantasia e della libertà, così vivi nel western classico".
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Il western all’italiana, trattando il genere dopo averlo sradicato dalla sua terra di
origine, si trovò dunque a esprimere coordinate culturali differenti e, in parte, anche
a rispondere a esigenze di una maggiore veridicità, quali erano avanzate da platee
sempre più smaliziate.
All'eroe anomalo messo in scena da Leone - che ritroveremo con poche variazioni
nella sua fondamentale trilogia di cui fanno parte, oltre al titolo già ricordato, il
successivo Per qualche dollaro in più (1965) e il picaresco Il buon, il brutto e il
cattivo (1966) - mancano i tratti cavallereschi della tradizione. Non si combatte in
quanto spinti da motivi etici. Gli ideali sono, prosaicamente, riassunti nel dio dollaro.
Che campeggia già nei titoli di testa.
Gli spaghetti western appaiono come film abitati più da maschere che da
personaggi. Costruiti su sfondi cripto-onirici che nulla conservano dell'ariosità di un
tempo. I western indigeni, rispetto al modello classico americano, sono percorsi
interamente da un penetrante istinto di morte. Le colt sgranano quasi senza sosta il
proprio rosario funebre. I cadaveri vengono spesso addirittura impilati. Il panorama
si trasmuta in "un cimitero la cui superficie sembra quasi incommensurabile
dall'occhio umano e i cui confini si spingono quasi oltre la linea dell'orizzonte, dove
lo spazio è misurato e scandito da un numero indefinito di croci" (G. P. Brunetta).
Grazie a un montaggio nervoso - che alterna rapide accelerazioni a ieraticità del
gesto e a una spiccata evidenziazione dei dettagli - e facendosi forte delle
innovative colonne sonore di Ennio Morricone (ove, immaginificamente, si
mescolano musica sacra e sonorità jazzistiche), il regista romano crea un
linguaggio del tutto inedito e dà origine a uno stile che si farà via via più raffinato, di
pari passo con l'irrobustirsi della sua vena narrativa.