2
espressione politica e di manifestazione delle proprie rivendicazioni
senza il carico ideologico a cui li relegava il semplificato linguaggio
propagandistico bipolare.
Degno di analisi è il fatto che se in Europa orientale la rinascita del
nazionalismo si presentava come una logica conseguenza
dell’oppressione subita dalle minoranze nazionali sotto il regime
comunista, in Europa occidentale la situazione era alquanto diversa.
I principi democratici a cui si ispiravano le costituzioni degli stati ed
i vincoli a carattere europeo ed internazionale a cui erano legati
circa la protezione delle comunità allogene sul proprio territorio
sembravano tutto ad un tratto insufficienti a garantire un sistema
efficace di tutela e la stabilità delle istituzioni nazionali.
Il principio di protezione delle minoranze, che rappresenta uno dei
capisaldi del regime instaurato all’indomani della prima e della
seconda guerra mondiale come palliativo alle modifiche confinarie, è
tra i punti più controversi del diritto internazionale e costituisce
l’argine al nazionalismo ufficiale – quello dello stato centrale – e ai
suoi tentativi di sopraffazione delle lealtà alternative. Pertanto,
nella trattazione di questa tesi, risulterà indispensabile uno sguardo
d’insieme circa le applicazioni concrete della protezione delle
minoranze in ambito internazionale ed europeo oltre che
l’individuazione degli strumenti a disposizione degli stati per
rendere la tutela effettiva, anche attraverso l’adozione di una forma
di stato più adeguata, con particolare enfasi alla formula
dell’autonomia regionale e del federalismo.
Quando le rivendicazioni poste dalle minoranze nazionali subiscono
un’evoluzione verso un’autoaffermazione a tutto tondo, che non si
esaurisce in forme più meno sviluppate di autonomia, il dilemma
3
degli stati riproduce il dilemma della comunità internazionale: fino a
che punto il principio di autodeterminazione può ritenersi
applicabile nel contesto dell’Europa occidentale, specialmente nella
sua versione più estrema e radicale della secessione? Quest’aspetto,
anch’esso molto controverso, verrà esaminato alla luce del più
recente diritto internazionale, sottolineandone non solo la liceità
giuridica che pare limitata ad alcune ipotesi, ma soprattutto
l’inopportunità politica nella maggior parte dei casi.
Il fatto che ogni stato europeo sia un caso a se stesso, dato il lungo
trascorso storico caratteristico ed unico di ciascuno, non può più
costituire un limite all’elaborazione di una strategia comune, che
permetta di giocare sulla flessibilità delle frontiere europee senza
provocare strappi istituzionali insanabili, che influenzerebbero
anche il futuro dell’Unione. Senza contare che la costruzione
europea non può prescindere da una democratizzazione dal basso
che il processo di integrazione non ha, fino a questo momento, preso
in troppa considerazione. Adottare un approccio più locale significa
applicare alla realtà più immediata il principio di sussidiarietà, e
predisporre a livello statale un sistema strumentale che ne consenta
la realizzazione. In questa ottica, il quadro di riferimento politico e
giuridico che l’Europa fornisce può rappresentare un espediente che
garantisca simultaneamente una partecipazione più democratica e
la stabilità sistemica. Tra gli strumenti che consentono il
raggiungimento di questo duplice obiettivo si può annoverare il
potenziamento del ruolo delle regioni, che costituiscono l’ente
territoriale intermedio tra lo stato nazionale e il megastato europeo;
e, quando alle regioni vivono minoranze autoctone radicate sul
territorio, enfatizzarne la capacità di agire sia in ambito statale che
4
europeo ed internazionale significa creare i presupposti per
un’autonomia di ampio respiro, particolarmente se le minoranze
autoctone in questione hanno carattere nazionale ed aspirano ad
uno status di maggiore indipendenza. In altri termini, l’Europa
fornisce una molteplicità di strumenti per regolare pacificamente le
dispute tra i nazionalismi delle minoranze e le ragioni dello stato
nazionale. A volte, sarebbe scorretto negarlo, i mezzi già esistenti si
sono dimostrati inadeguati, anche per la riluttanza degli stati a
vedersi privati di crescenti porzioni di sovranità dall’alto e dal basso;
tuttavia, con indispensabili migliorie, sia a livello generale che a
livello particolare, questo sembra il percorso da seguire.
Chi è partitario di una edificazione dell’Europa che non soffochi né le
legittime riserve degli stati nazionali né soprattutto l’opinione ed
eventualmente il dissenso dei loro cittadini non può non salutare con
soddisfazione quelle iniziative che mirano ad intensificare uno
scambio più equo tra le istituzioni e quelli che esse rappresentano.
Considerare l’Europa un’opportunità per tutti, e non solo per gli
stati, permette di trovare delle soluzioni adeguate anche in quelle
situazioni in cui i confini statali costituiscono più un ostacolo che
una delimitazione del senso di appartenenza.
È proprio in questo contesto che il caso dei Paesi Baschi risulta
esemplificativo, anche in luce ai recenti sviluppi della posizione
nazionalista, che si avvicina sempre più pericolosamente ad uno
strappo con il governo centrale. Una soluzione sul piano nazionale,
oltre a rivelarsi inattuabile data l’attuale fase di stallo, sarebbe tra
l’altro limitata per via della vastità del fenomeno nazionalista in
Europa occidentale e il nuovo quadro di relazioni in cui la Spagna si
trova coinvolta, che provoca una inevitabile e necessaria
5
“europeizzazione” delle tensioni interne. In un certo senso, l’Europa,
che ha avuto in origine un ruolo fondamentale nel processo di
pacificazione franco-tedesca, è chiamata a farsi carico anche della
risoluzione dei conflitti inerenti i rapporti degli stati membri con le
rispettive articolazioni interne. Verranno perciò analizzati quali
sono questi strumenti e in cosa potrebbero rivelarsi perfettibili, in
particolare nell’ambito delle minoranze nazionali e delle loro
rivendicazioni, e in che modo l’Europa possa compiere fino alle
ultime conseguenze il suo “progetto di pace”.
Ancora una volta, i Paesi Baschi rappresenteranno il caso empirico
volto a dimostrare tanto l’efficacia che i limiti di una soluzione
parziale e, tutto sommato, raggiungibile – dato il quadro di
riferimento che è rigorosamente iscrivibile in seno all’attuale
configurazione dell’Europa – a quelle rivendicazioni del
nazionalismo che appaiono legittime nel contesto più generale della
necessità di democratizzazione dell’integrazione europea.
Si può affermare che in potenza l’Europa dispone, attualmente, del
più flessibile apparato di proposte che permette una modulazione del
principio di autodeterminazione pressoché infinita: il modello
tracciato per i Paesi Baschi rientra nella necessità più generale di
un approccio dal basso nella costruzione dell’Unione e permette
inoltre di attenuare degli attriti che possono essere assorbiti
dall’attuale strumentazione a disposizione.
Si cercherà in definitiva di dimostrare che il quadro di soluzione per
i conflitti etnici ed identitari è da ricercare nell’ambito delle
opportunità che ha creato l’Europa: di quanto qualsiasi soluzione
nazionale sia insufficiente e fallimentare nel processo di devoluzione
dei poteri sovrani da parte dello stato nazione; e di come alcuni
6
cambiamenti sistemici non determinino necessariamente il
passaggio ad un altro sistema, ma che anzi contribuiscano a
stabilizzare quello attuale e ad accentuarne le caratteristiche di
solidarietà trasversale. Solamente se l’Europa diventa, e,
soprattutto, viene percepita un’opportunità da ogni categoria, che
sia stato, minoranza, opposizione o cittadino farà fede al suo
obiettivo ultimo, che, come recita il preambolo del progetto di
Costituzione citando Tucidide, è diffondere il potere non nelle mani
di pochi, ma nelle mani dei più
1
.
1
“La nostra costituzione si chiama democrazia […] perché il potere non è nelle mani dei
pochi, ma nella mani dei più”, Tucidide, II, 37, Preambolo del Progetto di Costituzione
Europea, 18 luglio 2003
7
PARTE I
IL NAZIONALISMO E I CONFLITTI ETNICI.
L’EUROPA OCCIDENTALE.
PREMESSA
Approfondire il fenomeno del nazionalismo consente di accedere ad
una chiave di lettura suggestiva sugli eventi storici e politici.
L’incidenza con cui che l’ideologia nazionalista ha marcato gli ultimi
due secoli di storia recente merita, ai fini della nostra trattazione,
un’analisi, seppur non dettagliata, ma almeno il più possibile
esaustiva sul malum terribile accusato di avere provocato due
guerre mondiali.
Il suo successo si attribuisce alla facilità di diffusione e di
entusiastico sostegno da parte delle masse, nonché alla
primordialità dei sentimenti che suscita, e tra i suoi meriti è
annoverata la nascita e lo sviluppo del concetto di stato-nazione e
della sua istituzionalizzazione nel quadro dell’Europa
risorgimentale, così come dei movimenti di liberazione nazionale
nelle ex-colonie di ogni continente. Per converso, allo stesso modo è
ritenuto responsabile delle più odiose tragedie del secolo passato,
prime della fila, come accennato, le due guerre mondiali. Inoltre, si
calcola che le violenze etniche legate a movimenti nazionalistici di
8
varia natura hanno condotto, nel giro di trent’anni, dal 1945 al 1975,
a più di dieci milioni di vittime in tutto il mondo
1
.
Tra gli anni ’60 e gli anni ’70, il nazionalismo è tornato a disturbare i
sonni tranquilli della vecchia Europa all’interno dei confini nazionali
degli stati e, in concomitanza con la fine dell’ordine internazionale
bipolare, sembra rivivere una seconda giovinezza.
Non sorprende pertanto che lo studio delle sue origini, delle cause
che l’abbiano generato e della sua influenza sull’ordine politico
internazionale sia stata tra le preoccupazioni principali di politologi,
sociologi e storici da qualche generazione a questa parte. Sono state
elaborate una serie di teorie estremamente suggestive al fine di
trovare un “filo rosso” in grado di fornire un quadro esplicativo; ma
la maggior parte delle spiegazioni monocausali si sono rivelate
spesso carenti o comunque insufficienti a rappresentare la
complessità di un fenomeno che è stato definito in modo molto
puntuale come “una categoria ribelle alla conoscenza scientifica”
2
.
Definire il nazionalismo in maniera complessiva non è cosa agevole:
Acosta Sanchez lo identifica in “un’ideologia ed azione politica volta
alla costruzione della nazione o alla difesa della nazione già
esistente”
3
, e utilizza volutamente una formula elementare allo
scopo di individuare un valido punto di partenza per
un’investigazione più dettagliata. Ovviamente, si resta abbastanza
sul vago; ma del resto il fenomeno richiede un certo respiro
1
D.L. Horowitz, Ethnic Groups in Conflict, Berkley-Los Angeles – London, University of
California Press, 1985, che cita H.R. Isaac, Idols of the Tribe, New York, Harper & Row,
1975
2
M. Leclercq, La Nation et son idéologie, Anthropos, Paris, 1979 ; recensione in « Revue
Française de Science Politique », IV, agosto 1980
3
J. Acosta Sanchez, “Los Presupuestos Teóricos del nacionalismo y el nuevo ciclo del
fenómeno”, in Revista de Estudios Políticos (Nueva Epoca), num 77, Luglio-Settembre
1992
9
esplicativo, per lo meno al principio, per evitare schemi troppo
predefiniti che finirebbero per intrappolarlo.
Un autorevole autore, Gellner, definisce il nazionalismo “il principio
per cui l’unità politica e l’unità territoriale debbano coincidere”
4
.
Questa definizione, di certo più elaborata e allusiva della
precedente, rischia di confondere l’ideologia e i suoi presupposti con
l’applicazione empirica a casi specifici: in pratica, fa coincidere un
intero fenomeno con l’aspirazione alla creazione di uno stato
indipendente, che non è necessariamente un elemento costitutivo del
sentimento nazionalistico.
E’ necessario tuttavia chiarire alcuni punti fumosi della definizione
di Acosta Sanchez, che è stata presa in esame come pilastro della
trattazione successiva del tema in questo capitolo. Lo stesso autore
provvede a fugare questi dubbi, quando sottolinea che è importante
tracciare una distinzione netta tra il nazionalismo e l’imperialismo,
che spesso, nella propaganda imperialista europea del XIX e XX
secolo, sono stati confusamente sovrapposti. L’imperialismo non è,
infatti, né costruzione né difesa della nazione, ma l’espansione dello
stato
5
.
E’ del tutto sterile parlare di nazionalismo senza metterlo in
relazione con ciò che si propone di rappresentare e di promuovere,
ovvero, la nazione. La nazione può definirsi come un gruppo di
persone che si percepiscono come parte di una comunità, tenuta
insieme da legami e tradizioni storiche, culturali, linguistiche e
concentrata in una definita porzione di territorio o comunque
riconducibile ad una certa area geografica (caratteristiche
4
cfr. E. Gellner, Nations and Nationalism, Oxford, 1983
5
J. Acosta Sanchez, op. cit.
10
“oggettive”), che conservi la consapevolezza della propria nazionalità
e del senso di appartenenza e di solidarietà comunitaria
(caratteristiche “soggettive”)
6
.
Nel corso della storia, il termine nazione è stato utilizzato in modo
improprio – e in alcuni casi intenzionalmente – per definire gli stati:
ad esempio, l’Organizzazione delle Nazioni Unite è il consesso degli
stati del mondo; i popoli e le etnie non vi sono rappresentati, tranne
che in particolari circostanze e nel caso sui generis del popolo
palestinese. In alcuni casi, la denominazione di stato-nazione è
legittima: ma ciò è di certo l’eccezione e non la regola. La maggior
parte degli stati è composta da due o, ancor più frequentemente, da
più comunità etniche che si contendono la gestione della leadership:
generalmente, la conquista delle posizioni di potere è ad
appannaggio della comunità etnica dominante. Di fatto, pochi stati
possono considerarsi stati-nazione in piena regola, cioè etnicamente
omogenei: in Europa, la patria tradizionale degli stati-nazione e del
risorgimento nazionale, paradossalmente solo Portogallo, Grecia,
Islanda, Malta, e Norvegia rispettano i canoni. Nel resto del mondo,
la situazione non è certo più confortante: secondo una statistica di
Walter Connor, fino al 1971, su 132 stati indipendenti, soltanto 12
risultavano etnicamente omogenei, pari al 9,1% del totale
7
.
Nessuna sorpresa, dunque, se nella stragrande maggioranza dei casi
gli stati abbiano avvertito il bisogno di applicare all’interno dei loro
confini una politica di assimilazione e di omogeneizzazione culturale:
in Africa e in Asia, dopo la decolonizzazione, le linee guida di molti
governi sono impostate su un’impronta fortemente assimilatrice, con
6
J. G. Kellas, Nazionalismi ed etnie, Il Mulino, Bologna, 1993
7
A.D. Smith, Il revival etnico, Il Mulino, Bologna, 1984, pag. 25
11
l’obiettivo di combattere le forze centrifughe e di rinforzare, non
importa quanto artificialmente, il senso di appartenenza delle varie
etnie ad un modello predefinito, che, in generale, coincide con quello
dell’etnia dominante
8
. In Europa, in un lasso di tempo più diluito, si
è assistito allo stesso fenomeno, sebbene con modalità e risultati
molto variegati.
8
A.D. Smith, Ibidem
12
1. TEORIE SULL’ORIGINE DEL NAZIONALISMO
E’ ora di chiedersi quali sono le condizioni che rappresentano il
terreno fertile per la nascita di sentimenti nazionalistici. Sebbene
ogni fase ed eventuale revival sia caratterizzato e generato da una
serie di fattori contingenti, la ricerca dell’insieme di cause e
concause del fenomeno nazionalista è in realtà un quesito di
carattere astorico. Compito della scienza politica è creare modelli
che consentano la spiegazione di un determinato evento su basi
scientifiche e, di conseguenza, il meno possibile formalizzate nella
realtà. Il caso di studio specifico è in ultima analisi la
manifestazione empirica particolare della teoria più generale; d’altro
canto determinate circostanze storiche, economiche e sociali possono
assumere una loro rilevanza nella spiegazione del singolo fenomeno.
Il nazionalismo, come già accennato in precedenza, è stato oggetto di
studio tra i più privilegiati. Teorie sulla nascita del nazionalismo
sono riscontrabili in ogni corrente di pensiero ed ogni autore vi ha
apportato la propria sfumatura. Non si intende qui naturalmente
stabilire quale teoria sia più valida rispetto alle altre; per motivi di
esposizione e di trattazione, verranno citate quelle che risultano più
attuali e strumentalmente più funzionali al tema oggetto di tesi.
Una gran parte di studiosi esperti di nazionalismo, pur nel
considerevole ventaglio di opinioni, hanno ricollegato strettamente
la nascita di questo fenomeno alla “modernizzazione”.
Deutsch individua nella mobilitazione sociale provocata dalla
modernizzazione, e la conseguente aumentata complessità della
13
comunicazione sociale tra gli individui, il progresso delle tendenze
nazionali presenti all’interno di una determinata comunità
9
.
Hechter prende in esame il contesto britannico, il che è piuttosto
significativo se si considera il fatto che la Gran Bretagna è stata la
pioniera europea della modernizzazione e dell’industrializzazione
nel secolo scorso. Secondo la teoria di Hechter, che viene
ulteriormente elaborata da Preibisch e da Wallerstein e
sistematizzata nel concetto di “dipendenza”, la modernizzazione,
lungi dall’essere un fattore di coesione e di omogeneizzazione etnica,
è in realtà il detonatore dei conflitti etnici. Le regioni periferiche,
emarginate ed escluse, o comunque meno avvantaggiate dal
progresso economico, sociale e civile, rispetto al nucleo, sono relegate
ad una posizione marginale e gradualmente assumono un
atteggiamento ostile verso le regioni dominanti. Questo
“colonialismo interno”, determinato dall’ineguaglianza di condizioni
e di opportunità innescata dalla modernizzazione, genera nelle
regioni sfavorite un sentimento ostile verso chi invece ne ha tratto
vantaggio; e se queste regioni hanno carattere nazionale, questo
sentimento si traduce in nazionalismo. Il nazionalismo gallese,
scozzese ed irlandese nascono, secondo Hecther, in reazione al
“colonialismo interno” imposto dall’Inghilterra. Questa situazione di
svantaggio sarebbe inoltre perpetuata da una divisione del lavoro
che emargina le popolazioni delle aree escluse a ruoli di subalternità
e di stratificazione gerarchica alla cui sommità è preposta l’élite del
nucleo, in genere l’etnia dominante, che gestisce il potere effettivo
10
.
9
cfr. K.W. Deutsch, Nationalism and Social Communication: an Inqiry into the
Foundations of Nationality, Cambridge, Massachussets, MIT Press, 1966
10
M. Hechter, Internal Nationalism Revisited, in E. A. Tiryakian e R. Rogowski (a cura
di), 1985
14
Il caso della Scozia, tuttavia, falsifica in parte la teoria, perché, data
la particolare struttura istituzionale di questa regione, i suoi
abitanti occupano delle posizioni di prestigio all’interno della propria
area di competenza. Tuttavia, è interessante, come fa giustamente
notare Kellas, che, a prescindere dai singoli casi specifici, una certa
gerarchizzazione della divisione del lavoro esiste nelle società
multietniche, per lo più favorevole all’etnia dominante
11
.
La posizione probabilmente più originale è quella di Gellner, che,
sulla scia dell’ideologia marxista - che non condivide - , mette in
stretta correlazione la nascita del nazionalismo con l’avvento della
società industriale. Questo nuovo tipo di organizzazione sociale
originata dallo sviluppo industriale necessiterebbe di un apparato
istituzionale che trova la sua migliore espressione nello stato-
nazione. Lo stato-nazione sarebbe pertanto l’organizzazione politica
funzionale a un certo stadio di sviluppo economico, in particolare,
quello industriale del XIX secolo. La struttura feudale, fortemente
decentralizzata e priva di un’autorità politica in grado di imporre un
preciso indirizzo, era inadatta a sostenere le sfide e le necessità che
l’economia su base industriale avrebbero presentato
12
.
I conflitti nazionalistici all’interno degli stati-nazione, nel quadro di
questa teoria, sono spiegati in termini economici: l’ineguale
diffusione dello sviluppo economico provoca divari sociali che
assumono carattere nazionalista quando la classe sfavorita coincide
con una nazione, dotata di comuni caratteri culturali e un senso di
solidarietà intraetnica. Nella sua visione rigida e monocausale, non
c’è spazio per uno stato che riesca a conciliare interessi non
11
J. G. Kellas, op. cit., pag. 35
12
E. Gellner, op. cit., pag. 36
15
necessariamente in conflitto: lo sviluppo economico e una politica
economica più o meno pianificata e l’apertura alle rivendicazioni di
specificità culturale di componenti allogene della popolazione, cioè
alle nazioni “altre” rispetto alla nazione superiore. Di fatto, viene
riprodotta in altri termini – cioè non marxisti – la teoria del
“colonialismo interno” di Hecther e rielabora, anche senza accettarne
i presupposti filosofici, la teoria marxista sul nazionalismo.
Contrariamente a Gellner, per cui non è ipotizzabile alcuna
alternativa allo stato- nazione e al nazionalismo “ufficiale” che ne è
il corollario, Marx aveva però sostenuto che, con l’avvento della
dittatura del proletariato, il nazionalismo non avrebbe avuto più
ragione d’essere: ciò che generava nazionalismo non era lo stadio
dello sviluppo economico, ma il modello su cui quest’ultimo si
basava. Marx identificava le nazioni etniche con le classi sociali
oppresse e vedeva nel nazionalismo un confuso insieme di
rivendicazioni e aspirazioni frustrate che contraffacevano i veri
bisogni fondamentali. Tanto Marx che Lenin riconoscevano la forza
dirompente del nazionalismo che poteva essere facilmente
strumentalizzato dalla borghesia; i primi marxisti, Kautskij tra gli
altri, misero in atto un tentativo di incanalare la sua forza
distruttrice e generatrice verso la propria causa.
Il ruolo di dipendenza di alcune regioni rispetto al nucleo dello stato,
quantomeno in termini economici, non è sempre vero. La “privazione
relativa”, concetto già tratteggiato da Marx
13
, non sempre trova
riscontri positivi nella realtà: esempi viventi di questa perplessità
sono la Catalogna e i Paesi Baschi, le province in assoluto più
13
K. Marx, La dominazione britannica in India, in “Opere”, vol. XII, Roma, Editori
Riuniti, 1978
16
avanzate e sviluppate della Spagna con forti rivendicazioni
autonomiste e, nel secondo caso, addirittura indipendentiste, o la
Slovenia nella ex- Iugoslavia.
Teorie che si basano su relazioni esclusivamente economiche sono
comunque insufficienti ad una spiegazione veramente esaustiva dei
movimenti etnici, che obbliga a considerare altri fattori almeno
altrettanto rilevanti. E’ piuttosto significativo che a volte gli stessi
nazionalisti, facendo ricorso ad argomentazioni di carattere
economico, danno voce a rivendicazioni di matrice psicologica e
politica
14
. La componente economica rappresenta senza dubbio un
elemento fondamentale perché fornisce un rivestimento
pseudoscientifico al discorso politico; ma è parziale e fuorviante
considerala l’unica causa e il solo detonatore. La natura
sostanzialmente eurocentrica di queste teorie costituisce un
ulteriore limite: c’è la tendenza a fornire una spiegazione
storicizzata e localizzata, facendo riferimento ad un determinato
periodo storico e ad una certa regione del mondo. Perdono, pertanto,
gran parte della loro forza esplicativa per mancanza di generalità ed
astrattezza che permetterebbero di spiegare anche situazioni
lontane e diverse da quelle europee. I movimenti di liberazione in
Africa, America Latina ed Asia, senza contare i vari movimenti
etnici attivi a livello europeo e i sentimenti nazionalisti che hanno
condotto alla secessione dalla Gran Bretagna degli Stati Uniti in
America del Nord e della colonie spagnole dalla madrepatria,
possono avere, ed in molti casi effettivamente hanno, origine da ciò
che si può definire un senso di “scomodità economica”; ma ritenere
ciò l’unica ragione è sicuramente riduttivo.
14
cfr. A.D. Smith, op. cit, pag. 282. e § 4 di questo capitolo