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Ho osservato come la facoltà di psicologia, non solo seleziona ed
espelle (prove di ingresso), ma forma (lezioni, esami) gli studenti che
iniziano il percorso universitario.
Quanto l’Istituzione, in questo caso universitaria, imprimerà una sua
specifica impronta all’individuo?
Quanto, in nome di tale impronta, verrà modificata sia la condotta
esterna che la vita interiore dello studente?
D'altronde, solo attraverso l’acquisizione di determinate
motivazioni si può correttamente interpretare un ruolo ed essere garantiti
nella sua attuazione!
Quanto tutti i ricordi che nascono all’interno del contesto
universitario si appoggiano l’uno sull’altro e non solo su ricordi esterni?
In altre parole, la memoria autobiografica è strettamente individuale
o è anche il frutto di una memoria collettiva?
Tale memoria collettiva quanto è influenzata e “figlia” delle
rappresentazioni sociali di un determinato ambiente?
Queste domande sono state per me le radici su cui si è costruita la
mia tesi ed a queste domande ho cercato le risposte attraverso l’analisi delle
interviste condotte con gli studenti di Psicologia.
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I Capitolo
MEMORIA COLLETTIVA
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1.1 Quadro storico
1.1.1 Lo studio sperimentale dell’apprendimento
Alla fine dell’Ottocento, nel suo sforzo di conquistare una dignità ed
un profilo autonomo, differenziandosi dalla matrice filosofica, la psicologia
cercò, come noto, di collocarsi vicino alle discipline empiriche che
spiegano le regolarità delle leggi della natura. La sfida da affrontare era
grande. Si trattava di dimostrare nei fatti (cioè nella ricerca) che le modalità
semplici e rigorose della sperimentazione sarebbero state in grado di
investigare anche i processi mentali superiori.
Nel clima di fine Ottocento, Hermann Ebbinghaus (1850-1909),
elaborò la famosa invenzione metodologica dell’uso di liste di sillabe senza
senso. Questo materiale estremamente semplificato (sillabe composte da
due consonanti unite da una vocale ed incontri casuali di lettere da cui
veniva escluso ogni suono che somigliava ad una parola reale) venne usato
per esplorare sperimentalmente, in condizioni controllate e replicabili, i
processi di memorizzazione. Infatti poiché il materiale da apprendere non
aveva alcun significato, il modo in cui il soggetto, di ripetizione in
ripetizione, lo rievocava e lo riconosceva, oppure lo dimenticava, dipendeva
esclusivamente dal formato del processo di memorizzazione e non dalle
differenze individuali nella possibilità di associare lo stimolo da
memorizzare alle conoscenze pregresse.
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Studiando se stesso come soggetto ed osservando la velocità di
apprendimento di questo materiale elementare, Ebbinghaus potè ben presto
mettere in luce indiscutibili regolarità nei processi tramite cui si realizzava
l’apprendimento, regolarità che suggeriva l’esistenza di una sorta di
“ossatura” alla base dei processi di memoria.
Il prezzo del grande impegno collettivo del lavoro sperimentale, che
ha consentito di raccogliere un imponente insieme di dati empirici sulla
memorizzazione, è stato spesso pagato con il progressivo affievolimento
della riflessione sul significato (individuale e sociale) dell’attività mentale
oggetto dello studio stesso.
Inoltre, la necessaria semplificazione della situazione di laboratorio
ha messo sempre più in ombra il bisogno individuale e sociale reale, alla
base di questi processi, ed il suo utilizzo nella vita quotidiana. Ciò,
evidentemente, è dovuto al limite del, pur potente, metodo sperimentale. I
suoi risultati non sono, infatti, sempre riscontrabili in tutte le situazioni
complesse, che la realtà ci offre quotidianamente, mancando spesso di
validità ecologica.
Infatti, tutta l’accurata regia, che guida passo per passo l’esecuzione
di un esperimento, è finalizzata a controllare ed arginare la reinterpretazione
soggettiva del partecipante. Una presenza “eccessiva” di memoria
individuale è trattata come una minaccia, che può mettere in crisi lo studio
delle componenti di base della memoria stessa, intesa come facoltà
generale.
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1.1.2 Dall’ osservazione alla memoria
Le precedenti considerazioni hanno portato ad una soluzione di tipo
essenzialmente metodologico. Essa suggerisce la necessità di abbandonare
la sicurezza della sperimentazione per tornare ad un processo più lento,
legato maggiormente all’osservazione dei fenomeni (Neisser, 1982;
Neisser, Winograd, 1988). Questo nuovo percorso consente, infatti, di
vedere in modo diverso i fenomeni, riaccostandosi, finalmente, alla
possibilità di comprendere come funzionamento reale della memoria nella
vita quotidiana.
“ Se X è un aspetto interessante o socialmente rilevante della
memoria, allora molto difficilmente gli psicologi avranno studiato X”
(Neisser, 1978, p.4). Obiettivo della citazione, indirizzata ad un’assemblea
molto qualificata di psicologi, è di mettere in luce la grave lacuna di validità
ecologica del mainstream di studi sperimentali sulla memoria.
Tornando a percorrere la lenta e faticosa strada della metodologia
osservativa, suggeriva Neisser (1982; 1988b), lo psicologo potrà ricostruire
una definizione più ampia dei fenomeni studiati: non soffermandosi solo sui
processi, ma riflettendo anche (e forse soprattutto) sulla diversità e
specificità dei contenuti della nostra memoria.
Si tratta di argomentazioni importanti e per molti versi convincenti.
E, in effetti, queste osservazioni si sono via via ampliate e concretizzate in
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una vera e propria integrazione allo studio tradizionale della memoria, cui è
stato dato il nome di approccio ecologico (Neisser, Winograd, 1988).
La corrente critica, originata dall’insoddisfazione per la rigidità
metodologica propria del mainstream delle ricerche sperimentali,
attualmente si affianca, e per molti versi si integra, all’approccio
sperimentale classico.
Questa convergenza nei fatti è possibile perché la nuova corrente di
studio ecologico della memoria non propone, in fin dei conti, cambiamenti
rilevanti nell’inquadramento del fenomeno studiato. Esso rimane ancora
concepito come un insieme di processi che si svolgono all’interno della
mente individuale, sia pure osservata in un contesto concreto piuttosto che
ricreato artificialmente.
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1.1.3 Gli aspetti storici e culturali dei processi di memoria
Rimaneva un problema fondamentale: come studiare la memoria in
quanto atto di significazione della realtà, e non solo come base in larga
misura inconsapevole dell’apprendimento, se tutta la situazione di ricerca
era organizzata per chiedere ai soggetti di rispondere e non di pensare.
La soluzione proposta dall’approccio ecologico sottoponeva i
compiti dati al soggetto ad una sorta d’iniezione di realtà, riavvicinando il
laboratorio alle stanze della vita quotidiana; ma non metteva in dubbio che
lo scopo finale del ricercatore fosse quello di scoprire le regole fisse che
governano il funzionamento della memoria per così dire “dall’interno”,
perché dipendono dal modo in cui è strutturata la mente.
Una corrente diversa di riflessione, non integrativa ma alternativa a
questo approccio, individuava, invece, la risposta, a questo vicolo cieco,
nel progressivo impoverimento dell’attenzione teorica per gli aspetti storici
e culturali dei processi cognitivi di base, e non tanto in motivi di rigidità o
di scarsa rappresentatività metodologica,.
A questo punto, sorge spontanea una domanda: come si possono
separare le funzioni mentali “interne” dal contesto sociale in cui si
svolgono?
Era necessario capire, quindi, dove andava tracciato il confine che
divide i processi di base della mente dalla loro “cornice” storica e sociale,
poiché il contesto è in continua e considerevole mutazione. Tale
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cambiamento avviene sia in senso sincronico (le persone in posizioni
sociali diverse possono vivere nella stessa epoca, ma in modo
soggettivamente differente, talvolta incompatibile) sia in senso diacronico
(epoche diverse cambiano l’esperienza soggettiva del mondo, anche per
individui che possano pensare in modo simile nelle loro caratteristiche
strutturali di base).
Una risposta estrema alla sfida conoscitiva che si pone come
alternativa non solo metodologica, ma anche teorica, sia all’approccio
classico che ecologico, è costituita dall’ analisi socio-costruzionista.
Questa corrente di studio considera il gioco delle forze sociali non
solo come un contesto in cui si svolge la vita mentale, ma anche il suo
stesso fondamento. Secondo quest’approccio teorico, di conseguenza,
nessun atto mentale sarebbe possibile né concepibile nel vuoto sociale;
persino le nostre teorie scientifiche su com’è strutturata e funziona la mente
non sarebbero, in fin dei conti, che dei prodotti dell’evoluzione storica del
pensiero collettivo, una costruzione sociale al pari delle altre (Gergen,
1973)
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1.1.4 La memoria come atto sociale
Da questa provocatoria tesi nascono cambiamenti fondamentali, sia
nello statuto teorico delle discipline psicologiche, sia nelle scelte
metodologiche, che utilizzano la sperimentazione per svelare le strutture di
base della mente.
Un esempio significativo di quanto questo cambiamento di
prospettive possa significare concretamente per lo studio della memoria è
dato dal testo Collective Remembering a cura di Middleton e Edwards
(1990). In questa rassegna di saggi la memoria è rappresentata come un atto
sociale, cioè un comportamento che trova nei rapporti sociali il suo
momento di inizio e la sua finalizzazione, prescindendo completamente
dalle ipotesi sulla presenza di strutture mentali interne che possano generare
una qualsiasi ossatura dei processi osservati.
In altri termini, secondo Middleton ed Edwards, non esisterebbe
qualcosa, definibile come memoria, situata all’interno della mente
dell’individuo (come un insieme di rappresentazioni o immagini conservate
nella sua testa), ma solo un insieme di ricordi comunicati ad altri o ricevuti
da loro: in altri termini, la nostra memoria non sarebbe che l’insieme dei
frutti di un “negoziato sociale” sul significato del passato.
I nostri ricordi, infatti, sarebbero definibili come sociali per queste
ragioni:
ξ perché riguardano non solo noi ma anche altre persone con
cui siamo in rapporto;
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ξ perché appartengono ad una corrente di pensiero che
sentiamo affine o lontano dalla nostra visione del mondo;
ξ perché assumono una convenzionalità culturale che li rende
immediatamente riconoscibili e storicamente collocabili;
Nella prospettiva dell’Analisi del Discorso (Discourse Analysis) i
ricercatori rifiutano a priori l’ipotesi dell’esistenza di una memoria come
insieme di processi individuali di immagazzinamento o di recupero delle
informazioni, e ritengono, conseguentemente, impraticabile la scelta
metodologica della sperimentazione. Poiché il ricordo individuale è
considerato solo come un aspetto parziale di una transazione sociale
complessiva, esso risulta teoricamente incomprensibile al di fuori delle
interazioni con gli altri interlocutori, con cui viene costruito e negoziato.
Dal punto di vista metodologico, la via proposta dalla Discourse
Analysis, per cogliere l’atto sociale che costituisce la negoziazione del
ricordo, è lo studio delle interazioni quotidiane, specialmente nei loro
aspetti linguistici.
I ricercatori analizzano minuziosamente i brani di discorsi svolti in
situazioni usuali della vita quotidiana, ritenendo che essi nascano dal
desiderio di ricordare insieme.
Il ricordare è visto, quindi, come un atto sociale, la cui “bontà” non
dipenderà tanto dalla sua fedeltà rispetto ad un dato di partenza, quanto
dalla sua efficacia pragmatica nell’imporre o meno una certa versione del
passato nel contesto relazionale odierno.