4
INTRODUZIONE
L’età moderna, al pari di ogni altro periodo storico, sfugge ad ogni tentativo di
periodizzazione che pretenda di avere il carattere di certezza. Tuttavia, alcuni elementi ci
permettono di ottenere una categorizzazione cronologica per cui la modernità si afferma come
concetto di “tempo nuovo”, come cambiamento nella coscienza storica, rappresentando tutto
ciò che è temporalmente più vicino a noi. Il moderno costituisce, allora, un'espressione di
contemporaneità, una manifestazione di ciò che è nuovo ed implica, conseguentemente, una
trasformazione nella coscienza del tempo. Questa temporalizzazione è il frutto di una serie di
avvenimenti che segnano un momento di svolta nella storia dell’umanità. Mutamenti di
portata epocale che hanno, per così dire, rappresentato uno spartiacque per l’accelerazione
della storia. A partire dalla scoperta delle Americhe, e con le rivoluzioni scientifiche,
industriali e politiche, che si esplicano in Occidente a partire dal XVI e XVII secolo, si è
assistito ad una serie di mutamenti in tutte le condizioni basilari dell’esistenza umana, tali da
prefigurare un vero e proprio tornante nella storia, da cui è maturata la convinzione di vivere
in una nuova epoca radicalmente diversa dal passato. Con l’Illuminismo, e la correlata idea di
progresso, si fa, inoltre, strada la tendenza a considerare lo stadio moderno delle società come
una condizione irreversibile e come il punto di arrivo di un processo di sviluppo che ha
portato al progetto ed alla parziale realizzazione di un modello universale ed autentico di
umanità.
Il termine modernità rimanda, allora, ad una nuova configurazione dell’esperienza ed
all’emergere di nuovi modi di vita e di ordinamento sociale che sostituiscono gli assetti sociali
tradizionali, in nome di un ordine che attribuisce agli individui il governo della natura e quello
di se stessi (della società). Così, la modernità si realizza nelle forme di vita e nelle visioni del
mondo che condividono l’orientamento e l’apertura verso il futuro come proprio tratto
istitutivo. Secondo questa prospettiva, il mutamento moderno indica un passaggio di ordine
cognitivo da una realtà predeterminata ad una realtà costantemente messa in discussione.
Grazie alla capacità di affrancarsi dai propri condizionamenti sociali e dalle obbligazioni della
tradizione e di accedere, tramite l’esercizio della razionalità scientifica, all’insieme delle
condizioni costanti e naturali, i moderni si sono ritenuti in grado di definire modelli più giusti
ed efficienti della vita collettiva. In questo modo si sono posti sulla punta più avanzata di una
freccia del tempo, pensata come lineare, irreversibile ed universale, tesa verso stadi
progressivamente più evoluti di sviluppo.
5
Nel momento in cui la realtà cessa di essere data per scontata diviene possibile interrogarsi
circa le forme di vita sociale che essa può assumere, al fine di comprendere le ragioni del
cambiamento, per controllarlo, criticarlo o tentare di dirigerlo. In questo modo trova origine
una forma di pensiero e di conoscenza la cui problematica basilare si è formata in stretto
rapporto con il mutamento moderno. La nascita della scienza sociale, definibile come attività
intellettuale orientata alla comprensione del senso, della portata e delle conseguenze dei
cambiamenti in atto e di quelli passati, raccoglie un insieme di problemi, di teorie, concetti e
forme d’indagine eterogenee che condividono l’orientamento a promuovere e rinnovare
costantemente l’autocomprensione della realtà. In particolare, entro il quadro delle scienze
sociali, la sociologia rappresenta una tradizione di pensiero che, grazie ad una metodica della
“curiosità”, si pone con piglio interrogativo circa le forme dell’ordine sociale. Gli sforzi della
sociologia per imporsi come disciplina autonoma hanno coinciso, infatti, con la sua pretesa di
offrire un’analisi del presente realizzata attraverso l’esplorazione e la diagnosi dei tratti
distintivi e nuovi della società moderna. La formazione del sapere sociologico è così
strettamente connessa alla nascita del mondo moderno che quest’ultimo può a buon diritto
rappresentare il principale oggetto di studio del “discorso sulla società”. Le formulazioni
sociologiche classiche hanno identificato, così, il proprio compito nello spiegare il processo di
transizione alla modernità e nel delineare i processi chiave di tale transizione. I primi tentativi
di individuare ciò che è nuovo e moderno nella società sono strutturati nei termini di una
contrapposizione tra la configurazione moderna ed il suo contrario, secondo una serie di
figure dialettiche e dicotomiche che distinguono le forme sociali moderne dal proprio passato
pre-moderno, caratterizzato da ordinamenti sociali predeterminati dalla tradizione.
L’interesse per la riflessione circa le caratteristiche essenziali della modernità e del processo
di modernizzazione confluirà, successivamente, nelle teorie della sociologia del XX secolo,
che ne faranno l’oggetto specifico di un’analisi a vari livelli – sociale, economico, politico,
psicologico e culturale – delle modalità e dei processi che avrebbero condotto le società
arretrate verso la modernità. Il cosiddetto “paradigma classico della modernizzazione” si
propone di spiegare il percorso che le società tradizionali avrebbero dovuto seguire per
modernizzarsi, portandosi al livello delle società occidentali avanzate. Queste teorie
etnocentriche hanno ereditato dai classici la contrapposizione tra società moderne e società
tradizionali, concettualizzando la modernità entro una visione stadiale ed evoluzionistica della
storia, che viene ad essere rappresentata da un continuum lineare su cui si collocano le diverse
realtà sociali. In questo senso, il concetto di modernizzazione assume l’idea di uno sviluppo
storico-sociale unilineare, suddivisibile in fasi o sequenze prestabilite, in cui i tratti sintetizzati
6
dall’esperienza occidentale servono per la comparazione con le differenti realtà pre-moderne.
Per queste teorie, modernizzazione ed occidentalizzazione sono concetti ritenuti sinonimi,
utilizzati entrambi per indicare il percorso evolutivo che porta ad acquisire le caratteristiche
proprie della civiltà occidentale.
Il presupposto di un percorso univoco ed omogeneo verso la modernità, che avrebbe
avvicinato i paesi in via di sviluppo alle società occidentali avanzate si è dimostrato, presto,
infondato. Al divenire moderne delle società non occidentali non ha corrisposto né il
medesimo percorso né le stesse caratteristiche della modernità occidentale. Il processi di
modernizzazione delle società “altre” non sono stati equivalenti a quelli avvenuti in
Occidente. In effetti l’importanza del paradigma classico della modernizzazione, per la teoria
sociale e per la concettualizzazione della modernità, è data soprattutto dalle critiche mosse a
questo all’interno del dibattito sociologico della seconda parte del XX secolo. In tale contesto
è stato messo in discussione l’assunto del carattere universale ed inevitabile della modernità e
della modernizzazione, che ha finito per ignorare la diversità dei percorsi verso, e attraverso,
la modernità, nonché le differenti esperienze della modernizzazione anche all’interno della
civiltà Occidentale. Si è sottolineata la necessità di adottare un approccio più differenziato per
mettere in crisi il modello assoluto di modernità condiviso dal paradigma classico, spostando
l’attenzione verso la specificità, la variabilità e la molteplicità dei percorsi e dei modelli delle
società contemporanee.
Questo ravvedimento all’interno della teoria sociologica ha comportato, peraltro, la necessità
di un ripensamento dei principi stessi con cui è stata definita la modernità nel proprio contesto
di origine. Le categorie dicotomiche della sociologia classica, e la visione evoluzionistica che
faceva della modernità un paradigma coerente e strutturato non sembrano essere più in grado
di descrivere e spiegare i cambiamenti in atto nel dibattito contemporaneo. Si è resa urgente la
problematica questione di rivisitare le caratteristiche essenziali di quella “Grande Divisione”
che ha distinto i moderni dai propri antenati come da tutte le altre culture non-occidentali,
accomunate sotto l’etichetta di pre-moderne.
La stretta correlazione riscontrata tra lo sviluppo della teoria sociale e la definizione cognitiva
della modernità, costituisce l’architrave della presente tesi, volta a rintracciare nuove
condizioni per l’interpretazione della società contemporanea. Nella misura in cui la modernità
è di nuovo al centro della teorizzazione nelle scienze sociali ed il dibattito sembra destinato a
riaccendersi, sarà tentata una rilettura della definizione ontologica ed epistemologica della
modernità ottenuta attraverso una chiave di lettura innovativa, capace di mettere in luce la
natura fondamentalmente ambigua ed ibrida del progetto moderno. Dall’idea di un reciproco
7
arricchimento tra l’offerta di spiegazioni generali e la descrizione del particolare momento
storico contemporaneo sarà avanzata l’ipotesi di collegare la suddetta frattura “antropo-
poietica”, su cui la modernità si fonda, con l’organizzazione del sapere ed in generale con la
visione del mondo manifestatasi nella società tecno-scientifica occidentale. Secondo questa
impostazione, la modernità, non è che il frutto di un particolare punto di vista sulla realtà,
basato a sua volta sulla distinzione ontologica tra fatti e valori, tra ciò che è proprio della
natura e ciò che pertiene alla cultura o alla società. Lo statuto del sapere moderno si è, infatti,
costituito attraverso un processo secolare che ha progressivamente distanziato realtà e
costruzione, separando le modalità di conoscenza in due domini distinti. Nella storia moderna
del pensiero occidentale si è, innanzitutto, conferita priorità epistemologica alla natura,
ritenendo di rinvenire con la conoscenza di essa ottenuta attraverso la scienza, le condizioni
costanti ed universali e le leggi rigorose che regolano il funzionamento della realtà. Secondo
tale visione, il mondo della società e dei costumi culturali diviene qualcosa di cui diffidare e
di cui liberarsi per accedere alla conoscenza pura.
Seguendo questa prospettiva, un primo passo per la rilettura della concezione della modernità,
qui proposta, sarà diretto a rievocare il processo secolare compiuto dalle scienze sociali nella
“scoperta” della società e della consistenza del sociale, come realtà sottoposte, al pari di
quella naturale, ad un insieme di leggi e regolarità specifiche che ne accompagnano
l’evoluzione. Presto, infatti, l’effettiva universalità delle regolarità che una scienza può
definire è apparsa problematica. Se l’epoca moderna si è sviluppata sotto l’impulso della
scienza, della tecnologia e della razionalità, ossia sulla base dell’idea che una maggiore
comprensione razionale del mondo è la premessa per un controllo di esso più efficace, il
mondo della fine del ventesimo secolo presenta, però, caratteristiche sempre meno adeguate
all’immagine offertaci dal sapere moderno. Lo sviluppo della conoscenza avrebbe dovuto
contribuire ad un progressivo aumento del controllo del mondo materiale e sociale, per
rendere gli esseri umani sempre più padroni del proprio destino e permettendo loro di
edificare una realtà sempre più stabile ed ordinata. Previsioni infondate circa quella che era
considerata la principale fonte dell’aumento delle certezze, la razionalità scientifica, che è
risultata coinvolta nell’imprevedibilità e nelle incertezze che dominano la nostra attualità –
dalle crisi politiche a quelle ecologiche, dal fenomeno multiforme della globalizzazione alle
tensioni prodotte dal multiculturalismo – hanno spinto i teorici sociali nel tentativo di
rivisitare e riconcettualizzare l’idea di modernità, e soprattutto i presupposti su cui questa si è
fondata. Da questo punto di vista, il privilegio epistemico e sociale di cui la scienza ha
tradizionalmente goduto, quel dominio di razionalità tecnica, appartato dalla società, fondato
8
su conoscenze certificate attraverso metodi di validità universale, è entrato in crisi durante gli
ultimi decenni del Novecento, quando epistemologi, sociologi e filosofi della scienza hanno
tentato di far breccia con le loro analisi all’interno delle pratiche scientifiche, analizzando i
modi nei quali le condizioni della vita sociale determinano i contenuti della nostra
conoscenza. L’impresa scientifica, lungi dall’essere lo specchio fedele della natura, è stata
interpretata come un’impresa collettiva, e ciò ha aperto delle possibilità per l’indagine dei
principi e delle categorie mediante cui essa è organizzata, ponendone in luce il carattere
convenzionale e negoziale, anziché assoluto e necessario.
Nel presente elaborato, attraverso l’investigazione con metodi etnografici le pratiche concrete
che caratterizzano la moderna produzione di sapere e conoscenza, giungeremo ad una
posizione equidistante dalla distinzione critica tra reale ed artificiale. La chiave di lettura
latouriana qui ricostruita con particolare attenzione alle implicazioni per la teoria della
modernità, rifiuta, infatti, sia l’anticostruzionismo che il costruzionismo assoluto, per
concedere pieno riconoscimento all’ontologia ibrida e variabile dei fenomeni che popolano la
realtà, nella convinzione che la coppia di concetti oppositivi data dalla distinzione tra natura
(realtà) e società (costruzione), siano nient’altro che frutto di un’”invenzione”. Analizzando e
decostruendo la storia di questa distinzione che è all’origine dell’idea di modernità, e che ha
caratterizzato le relazioni che i moderni hanno intrattenuto con le altre popolazioni, colpevoli
ai loro occhi di non effettuare un’analoga separazione tra ordine naturale ed ordine sociale, si
potrà, forse, approdare ad una nuova lettura della contemporaneità. Il compito antropo-
poietico a cui sono chiamate tutte le culture contemporanee si realizza, infatti, in modi che
non tengono conto della distinzione menzionata. Un apporto importante, infatti, della teoria di
Bruno Latour è che natura e società, prima pensate come domini autonomi, sovrapposti e
dotati di un’esistenza indiscutibile, sono entrambe “oggetti teorici” variabili, ovvero
costruzioni che strutturano in una molteplicità di direzioni le realtà prodotte dai diversi
collettivi. Contemporaneamente sarà, infatti, argomentata l’idea che le linee di confine tra i
due domini, anziché date per scontate, sono il risultato tracciato da differenti prospettive che
appartengono tutte alla medesima matrice antropologica. La distanza tra collettivi moderni e
pre-moderni, invece di essere ricondotta a differenze essenziali o di contesto, verrà, piuttosto,
riconosciuta nella diversità di taglia e di misura delle reti prodotte. Nel contesto
contemporaneo globale occorre effettuare un ripensamento parallelo dei concetti di natura e
società, al fine di comprendere la molteplicità delle realtà prodotte, e per rintracciare nuove
modalità con cui il mondo può trovare coesione. Esse appaiono non unilineari e rendono
conseguentemente difficili le interpretazioni classiche, richiedendo la fuoriuscita dagli schemi
9
di pensiero moderni, nonché della sociologia tradizionale. In questo modo, alla crisi del
concetto di modernità viene fatta corrispondere la crisi della sociologia.
Nonostante la dicotomia natura/società sia ormai fortemente saldata con il nostro modo di
pensare è senz’altro utile una sua messa in discussione per superare quella “Grande
Divisione” che ha separato i moderni occidentali dagli altri nello spazio e nel tempo, per
approdare ad una definizione “non moderna” della civiltà moderna. Occorrerà, allora,
abbandonare ogni connessione con una periodizzazione storica per esplorare la modernità
come processo nel passato e nel presente e ridefinire le caratteristiche ontologiche della nostra
vita quotidiana, e per riconcettualizzare, in tale ottica, le stesse categorie interpretative della
teoria sociale. L’idea di modernità ne uscirà modificata? Forse, con essa, anche il “discorso
sulla società”? In che modo la riflessione sugli strumenti e sui metodi combinata all’analisi
del mutamento sociale moderno potrà riconvertire gli schemi teorici e analitici con cui la
sociologia ha determinato le lettura della modernità?
10
CAPITOLO PRIMO
LE FORME DEL MODERNO: COMPOSIZIONE E SEPARAZIONE NELLA LOGICA
DEL MUTAMENTO SOCIALE
Il tentativo di rintracciare le dimensioni costitutive della modernità rappresenta un’operazione
imprescindibile allorché ci si accinge ad analizzare la condizione delle società
contemporanee. Questo in quanto le lenti che utilizziamo nell’osservare la realtà che ci
circonda sono state forgiate nell’arco di una storia plurisecolare, che coincide con lo sviluppo
e l’affermazione della civiltà occidentale moderna. Le rivoluzioni scientifiche, industriali e
politiche, che si esplicano a partire dal XVI e XVII secolo, e gli sconvolgimenti culturali che
esse comportano, possono essere considerate delle vere e proprie matrici di mutamento della
mentalità con cui vengono definite le forme ontologiche della realtà ed i criteri per conoscerla.
Una realtà in cui la progressiva scomparsa delle tradizionali fonti di legittimazione religiosa
della conoscenza e dell’autorità viene ad essere rimpiazzata da nuovi principi con cui vengono
definiti gli ambiti di verità e di giustizia. Ad una realtà data per scontata e preordinata
divinamente, definita secondo giustificazioni morali e religiose, subentra una visione
secolarizzata e laicizzata capace, grazie al connubio tra scienza e ragione, di emanciparsi dai
costumi e dai condizionamenti sociali per porsi a contatto diretto con la natura, scoprendone
leggi e strutture, con lo scopo di realizzare un modello naturale dell’umanità, universale ed
universalizzabile. Il sapere della modernità risulta così concepito come un’esplorazione diretta
delle forme naturali, che sono per definizione necessarie, universali, durature, perenni ed
indiscutibili, nella consapevolezza che <<le costruzioni dei costumi sono precarie e prima o
poi destinate a cadere, […] mentre la ragione naturale, costruisce edifici non traballanti, ma
solidi e duraturi>>
1
. La purificazione della conoscenza dai costrutti culturali, dalle abitudini
collettive, dai costumi sociali, che sono il frutto di invenzioni arbitrarie, particolari e locali,
sola consente di approdare all’essenza della verità: <<ragione e scienza consentono di
superare lo schermo dei costumi e di leggere direttamente nella natura>>
2
, scoprendo le forme
autentiche e indiscutibili dell’umanità, attraverso cui poter definire modelli certi e definitivi
della vita collettiva. L’autoaffermazione della civiltà occidentale moderna come presa di
distanza dalla falsità delle tradizioni culturali, ne consegna un’immagine di soglia epocale, di
svolta nella storia dell’umanità, che separa i moderni dal proprio passato pre-scientifico, tanto
1
Remotti, F., Prima lezione di antropologia, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 145.
2
Ivi, p. 148.
11
da poter parlare di un prima e di un dopo il suo avvento, così come dalla molteplicità delle
altre culture contemporanee, incapaci di accedere alla verità così com’è conosciuta dalla
scienza, ed in grado di mobilitare e produrre solo immagini o rappresentazioni simboliche
della natura e della società. Questa profonda spaccatura, questo modo di suddividere il tempo
e separare lo spazio, rivela il principio di fondo della modernità e struttura i rapporti tra gli
occidentali moderni e le altre collettività non moderne: emancipati dalle forme culturali,
passate e contemporanee, grazie alla nuova forma di conoscenza extraculturale rappresentata
dalla Scienza, gli occidentali pensano se stessi diversi da tutti gli altri, assimilando in un'unica
categoria i propri antenati come gli altri popoli non occidentali. La separazione tra realtà
naturale e bisogni sociali, istituisce una distinzione tra ciò che esiste già, e deve essere
scoperto e conosciuto, e ciò che è artificialmente costruito nel processo di realizzazione
umana.
Così come ogni costituzione opera una separazione dei poteri, quella moderna, basandosi
sulla scissione ontologica tra mondo naturale e mondo artificiale (sociale), distingue “due
branche del governo” con autorità separate: alla Scienza spetta di conoscere l’ordine naturale
per poter giungere alla definizione della verità, alla Politica spetta il compito di costruire le
condizioni utili a regolare il giusto funzionamento dell’ordine sociale. La Scienza per
rappresentare la realtà non può fare appello alla tradizione o alla religione, né alla politica e
all’opinione, ma deve basarsi su elementi oggettivi, forniti dal mondo della natura attraverso
tecniche e metodi scientifici. La Politica ha il dovere di rintracciare i giusti fondamenti della
vita collettiva, al fine di rappresentare fedelmente i soggetti di cui si fa portavoce.
Il pensiero moderno in rapporto al mondo è, dunque, caratterizzato dalla separazione tra la
natura, che esiste come realtà indipendente e trascendente gli esseri umani, popolata di oggetti
e caratterizzata da leggi da sempre esistenti, ed una società, immanente, totalmente costituita
da uomini, che si compone di leggi artificialmente prodotte attraverso le forme del contratto
sociale. La natura è l’insieme delle condizioni costanti, che agiscono in tutti i tempi e in tutti i
luoghi; la società, risulta invece essere un principio di differenziazione da cui derivano le
varie manifestazioni culturali, essa costituisce il fondamento delle molteplici direzioni di
sviluppo della civiltà.
Destinando lo studio della natura e delle sue leggi alle scienze naturali elaborate nei
laboratori scientifici, lo studio della società, che qui ci interessa più da vicino, viene dedicato
alla conoscenza delle condizioni di vita cui deve farsi carico e su cui deve intervenire il centro
politico, garante della stabilità e dell’ordine. Con l’estensione degli interessi dello Stato a
molti settori della vita sociale, il sociale stesso viene a costituirsi come un nuovo oggetto di
12
studio, un nuovo campo di sapere e di intervento. La nascita della moderna scienza sociale,
oltre ad una svolta nella storia delle idee, rappresenta la base per la pratica politica di
costruzione della vita organizzata. La conoscenza della società è, infatti, funzionale al suo
governo, e così l’indagine scientifica viene estesa a tutti i settori della vita associata.
1.1 La società come artificio
Come messo in luce da Procacci-Szakolczai
3
, la scienza sociale si costituisce a partire dalla
necessità d’indagine della complessità sociale, con il fine di conoscerne e governarne il
funzionamento. L’analisi dell’organizzazione sociale moderna può giovare, innanzitutto,
dell’apporto offerto dallo sviluppo degli strumenti di misurazione statistica e di calcolo
quantitativo riscontrabili in tutta la cultura europea a partire dal XVII secolo. L’impiego degli
strumenti del calcolo statistico applicati allo studio della popolazione permette un’analisi
quantitativa delle principali dinamiche sociali, e promuove l’idea che vi sia un ordine
intrinseco alle relazioni sociali, conoscibile e decifrabile matematicamente. La quantificazione
e classificazione sistematica del territorio, dei suoi abitanti e dei comportamenti sociali
consente di individuare l’azione politica più adatta e dirigerla verso i problemi della
popolazione: l’analisi degli aggregati viene condotta al fine di controllare ed intervenire sulle
condizioni della vita sociale.
La conoscenza delle leggi e delle tendenze che strutturano il sistema delle relazioni sociali,
rientra nel progetto di statistica morale condotto da Quetelet
4
, il quale è interessato ad
esaminare le regolarità emergenti dalle distribuzioni dei dati statistici raccolti sulla
popolazione. Egli nota che i valori medi ricavati dai dati su proprietà di ordine demografico si
distribuiscono in modo “normale”, secondo la tipica curva campanulare gaussiana, in cui i
valori estremi rappresentano gli scarti dalla media, mentre il punto di massima aggregazione
dei dati statistici stabilisce il tipo medio. Questo non è solo il risultato della media aritmetica,
è nelle intenzioni di Quételet, il “tipo generale”, il più frequente, in altre parole, il tipo
normale, mentre gli scarti dal tipo medio definiscono quello anormale. A partire dagli anni
trenta dell’Ottocento, dedicandosi allo studio della devianza e della criminalità, Quételet,
3
Procacci, G., e Szakolczai, A., La scoperta della società. Alle origini della sociologia, Carocci, Roma, 2003.
4
Quételet pubblica nel 1835 Sur l’homme et le développement de ses facultés ou Physique sociale, in cui
descrive il suo progetto di fisica sociale, il cui scopo era di capire le leggi statistiche che sono alla base dei
fenomeni sociali. Nella sua lezione, le leggi statistiche determinano i tratti di una popolazione, le cui variabili
vengono spiegate attraverso il ricorso ad altri fatti sociali, anticipando ed influenzando, ad esempio, lo studio di
Durkheim sul suicidio.
13
sviluppa il concetto di penchant (tendenza), con cui concettualizza la probabilità che un
crimine venga commesso, estendendo lo studio statistico a proprietà non fisiche, bensì morali,
quale appunto la tendenza al crimine. L’affermazione che le caratteristiche morali della
popolazione ed i comportamenti collettivi siano studiabili e descrivibili allo stesso modo dei
caratteri fisici deriva dall’orientamento naturalistico, impianto epistemologico tipico del
positivismo, caratterizzato dallo studio scientifico dei fenomeni empirici che cadono sotto il
dominio di leggi e regolarità naturali. Leggi e regolarità fondano i rapporti fra gli uomini
ordinando l’assetto strutturale e la dinamica dello sviluppo sociale
5
. L’intenzione è quella di
dimostrare come i comportamenti collettivi travalichino le volontà e le motivazioni dei singoli
individui, essendo il prodotto di tendenze e leggi sociali esterne, più forti e costrittive. Questo
orientamento a considerare la società come un “corpo” dotato di logiche proprie, conoscibili
attraverso l’analisi degli aggregati, trova motivi di sviluppo anche fuori dal campo della
statistica, in particolare nello sviluppo della medicina moderna. Alcuni dei concetti elaborati
dalla medicina del XVIII e XIX secolo contribuiscono alla formazione dell’idea di società
come realtà dotata di una particolare trascendenza. L’importanza assunta dalla medicina per lo
sviluppo delle scienze sociali è conseguente alla mutata concezione della malattia, che nel
corso del XVII secolo si inserisce in una nuova prospettiva incentrata sul passaggio da una
“metafisica del male”, che fondava una differenza qualitativa tra salute e malattia,
concettualizzando quest’ultima come realtà specifica ed extranaturale, all’integrazione della
malattia stessa entro il corpo vivente. Se, nella fase pre-moderna, la salute veniva identificata
con la normalità naturale e la malattia come realtà qualitativamente ed essenzialmente diversa
ed opposta alla natura, con l’epoca moderna, in riferimento allo sviluppo della fisiologia
sociale, prevale un’idea di continuità tra normale e patologico: <<ciò che è fisiologico può
deviare dallo stato normale e tradursi in stato patologico per eccesso o per difetto, per una
differenza quantitativa dunque, e non qualitativa>>
6
. La differenza essenziale tra individuo
sano ed individuo malato lascia il posto all’idea di relazione tra patologico e normale, in
quanto salute e malattia vengono viste in reciproca connessione. Questo passaggio viene
favorito dall’importante sviluppo settecentesco dell’anatomia come studio ed analisi
dell’organizzazione interna dell’essere umano. Si scopre, in altre parole, che gli organi interni
non sono enti separati ed autonomi, ma organizzati tra loro ed interconnessi funzionalmente
per assicurare le funzioni vitali. Il corpo umano viene ad essere interpretato come il risultato
dell’organizzazione gerarchica di organi e funzioni dotati di una logica propria, ed in cui la
5
Per una presentazione sulla riflessione circa i presupposti teorici delle scienze sociali cfr. Sparti, D.,
Epistemologia delle scienze sociali, il Mulino, Bologna, 2002.
6
Procacci G. - Szacolczai A., 2003, op. cit. p. 34.
14
malattia si inserisce, non come risultato di una natura malefica esterna, ma come deviazione
patologica interna allo stato di salute. Diventa evidente, dunque, l’intima relazione esistente
tra lo stato di salute e quello patologico, ed il cambiamento di valore della malattia indirizza
l’indagine scientifica verso lo sforzo di definizione dello stato normale, evidenziando il
suddetto cambiamento di prospettiva: la patologia non è più definibile a priori, ma come stato
di deviazione quantitativa dalla normalità, dallo stato di salute. La fisiologia assume, dunque,
l’interesse per lo studio del funzionamento del corpo sano, e la conoscenza della sua logica
specifica diviene la condizione per individuare la sede patologica in cui si sviluppa la
malattia. Prevalendo l’idea di continuità tra normale e patologico, declina la concezione
ontologica del male, e dunque la definizione a-prioristica della patologia (metafisica del
male). Divengono sempre più essenziali le tecniche di indagine al fine di localizzare
spazialmente la malattia per curare lo stato patologico e ricondurlo al normale ordine
fisiologico.
Nella prospettiva della formazione della sociologia diventa centrale la questione del
normale/patologico, poiché, per curare e risolvere disordini e crisi sociali è essenziale la
conoscenza e definizione del normale e della norma. Questi concetti di norma e di normale
non derivano da un sistema di valori predeterminato, ma stanno ad indicare la regola
rilevabile nelle tendenze statisticamente osservabili nei comportamenti collettivi. Allo stesso
modo, la società viene ad essere concettualizzata come un organismo, una totalità composta
dall’integrazione ed interconnessione delle parti, dotata di una propria logica capace di
regolare le relazioni sociali. La realtà sociale dotata di equilibri e connessioni tra le diverse
funzioni, come l’organismo umano, deve essere descritta non in termini ideali, ma osservata
empiricamente e materialmente nella logica interna che ne determina il funzionamento. I
progressi della fisiologia, vengono ripresi da Saint-Simon e applicati all’ambito sociale: <<la
nuova scienza deve studiare i fenomeni umani in società, gli esseri organizzati, deve essere
una fisiologia che ha per oggetto specifico l’essere sociale, non come semplice aggregato di
individui, ma come una realtà sui generis>>
7
, paragonata ad una macchina in cui ogni parte
contribuisce al funzionamento dell’insieme. La fondazione dell’indagine scientifica sulla
società quale realtà sui generis risponde all’esigenza di conoscere la natura specifica delle
dinamiche proprie dell’ordine sociale, ed alla necessità di formulare le decisioni politiche
adatte a governarne il funzionamento. Se l’economia e la scienza del diritto, sorte ad inizio del
XVII secolo, trovavano le risposte alla crisi prodotta dalla dissoluzione delle tradizionali fonti
di legittimazione nello sviluppo delle libertà individuali, la scienza sociale nascente propone
7
Ivi, p. 42.
15
come fondamento dell’ordine sociale e nuovo oggetto di analisi il gruppo sociale, inteso non
solo come ambito di identificazione ed appartenenza nel quale si sviluppa il legame sociale,
ma soprattutto come entità autonoma e trascendente l’individuo, le cui dinamiche non sono
riconducibili alla semplice somma delle parti che lo compongono. Sarà con Auguste Comte
che verrà formalizzato il termine sociologia per intendere lo studio positivo delle connessioni
tra le molteplici dimensioni del mondo sociale moderno, con l’intenzione di individuare le
leggi proprie che lo determinano. Con Comte, la società diventa la vera realtà oggetto di una
scienza positiva, che si sostanzia in una ricerca delle leggi che la dominano, basata
sull’osservazione empirica di dati incontrovertibili, sistematica e finalizzata al miglioramento
delle condizioni sociali nel contesto in cui sono inserite: <<Spiegare positivamente significa
stabilire relazioni fra singoli fenomeni e leggi generali>>
8
. L’oggetto d’indagine specifico di
questa nuova scienza non riguarda il soggetto individuale, ma i fenomeni collettivi, il cui
elemento basilare è rintracciabile nel gruppo sociale e nel legame che ne permette
l’integrazione. Per Comte la questione dell’integrazione sociale deve essere letta dal punto di
vista dell’impersonalità delle dinamiche del sistema sociale e non da quello dell’individuo che
vi appartiene. Un esempio di questa sussunzione dell’individuo alle logiche del sociale può
essere facilmente indicato nella ridefinizione, in chiave secolarizzata, del significato sociale
della povertà. Come mostrano Procacci-Szakolczai, tra la fine del XVII e l’inizio del XVIII
secolo, il problema della povertà legata all’industrializzazione e quello della diseguaglianza
protrattosi anche dopo la Rivoluzione politica francese, costituiscono insieme la “questione
sociale”, che unisce i principali problemi della transizione verso la società moderna, quelli di
inclusione della cittadinanza e quelli di stabilizzazione dell’ordine sociale. In questo contesto
si assiste al processo di secolarizzazione dell’assistenza etico religiosa, che porta verso la
“governamentalità” della disuguaglianza e della povertà. Tradizionalmente, le fasce più
povere della popolazione, costrette ad uno stato d’indigenza tale da essere obbligate alla
mendicità ed al vagabondaggio, venivano affidate ad istituti privati di carità, i quali elargivano
un’assistenza diretta tramite la concessione di denaro. Lentamente si fa strada, dopo la
Rivoluzione, l’idea che la questione della povertà, che comporta un serio pericolo per la
8
Comte formalizza la legge storica che permette di stabilire i progressi della conoscenza e della società. La legge
“dei tre stadi” rappresenta, infatti, sia il principio evolutivo dello sviluppo della conoscenza, sia la dinamica dello
sviluppo sociale: l’evoluzione si sostanzia nel passaggio dallo stadio teleologico-immaginativo a quello
metafisico-astratto, verso quello positivo scientifico. Questo ultimo stadio, che rappresenta l’età adulta
dell’umanità, ha inizio nella seconda metà del sec. XIX, col Positivismo, e vede il dominio assoluto della
Scienza che prende il posto della Filosofia la quale, a sua volta, aveva preso il posto della Religione. Dal punto
di vista della conoscenza, alla fantasia del primo stadio ed alla ragione del secondo segue l’osservazione
empirica del terzo, sintesi tra ragione ed osservazione (procedimento logico-sperimentale). L’interesse si rivolge
verso le leggi costanti, le relazioni ricorrenti.
16
stabilità dello Stato, dipenda maggiormente da un cattivo governo dell’economia, cui
sfuggirebbe il valore economico della popolazione, e che la reale soluzione al problema della
miseria sia quella di sviluppare una politica economica capace di incorporare una politica di
assistenza. Tanto più che, con la Rivoluzione, la distruzione delle corporazioni medievali e
l’istituzionalizzazione dei diritti di cittadinanza estesi a tutta la popolazione, aveva portato alla
liberalizzazione dell’accesso al lavoro salariato anche le fasce povere, tradizionalmente
escluse. Diventa cruciale, insomma, governare il problema della diseguaglianza economica,
sociale e politica tra cittadini considerati costituzionalmente “uguali”. L’assistenza,
secolarizzandosi, diventa servizio nazionale, in quanto non è più considerata come una
questione di carità, ma di giustizia sociale. Si passa così dalla categoria del “povero” a quella
impersonale di “povertà”, esito ed espressione di dinamiche economiche squilibrate, piuttosto
che di volontà o destini individuali, che necessita di essere regolata e governata attraverso lo
Stato, coniugando la politica di assistenza a quella del lavoro. Infatti, visto che le condizioni
di miseria dipendono dalla mancanza di lavoro, il contenuto dell’assistenza dovrà consistere
nel concederlo a tutti, indistintamente, e soprattutto a coloro che ne sono esclusi e quindi
costretti ad una condizione di indigenza, causa potenziale di disordini sociali. In tale contesto,
<<Il lavoro diventa l’unica causa e l’unico rimedio, permette di unificare le misure di
assistenza, di sostituire il soccorso diretto in denaro, con un soccorso indiretto in opere
pubbliche, che ristabilisce la reciprocità sociale. Per di più consente di moralizzare il povero,
colpevolizzando quella condizione di miseria che si leghi alla scelta dell’ozio>>
9
. La nuova
prospettiva da cui osservare il problema della miseria sposta l’attenzione dall’azione del
singolo a quella dell’impersonalità del sistema, tratteggiando i contorni di una società
osservabile come realtà complessa. Da questo punto di vista, la sociologia si legittima come
scienza, proprio tramite l’analisi delle connessioni tra le molteplici dimensioni della realtà
sociale.
Il progetto sociologico di una scienza che ha per dominio il sociale, e per oggetto la
collettività ed il contesto sociale che la determina, viene ripreso da un altro capostipite della
sociologia, Emile Durkheim, che sulla scia di Comte, pone al centro della sua riflessione il
problema dell’integrazione. Tramite il concetto di coscienza collettiva, Durkheim designa
l’insieme di valori comuni propri di ogni collettività, <<l’insieme delle credenze e dei
sentimenti comuni alla media dei membri della stessa società forma un sistema determinato
che ha vita propria>>
10
. La coscienza collettiva, seppure si realizzi nelle coscienze
9
Procacci G., – Szakolczai, A., 2003, op. cit. p. 37.
10
Durkheim, E., La divisione del lavoro sociale, Comunità, Milano, 1971, p. 101.