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INTRODUZIONE
Era il 4 marzo 2009 quando la Camera Preliminare della Corte Penale
Internazionale emise un mandato d’arresto nei confronti del Presidente della
Repubblica del Sudan Omar Al Bashir. Una decisione senza precedenti che
sollevò un gran numero di dubbi ed interrogativi non soltanto tra gli
studiosi e gli addetti ai lavori. Per la prima volta infatti la Corte Penale
Internazionale accusava di gravi crimini internazionali ed emetteva un
mandato d’arresto nei confronti di un capo di Stato in carica (seppur
golpista). Io stesso fui talmente rapito dalla decisione della Corte che decisi
di dedicare all’argomento la mia tesi di laurea triennale (intitolata La Corte
Penale Internazionale: il caso Omar Al Bashir), con l’obiettivo di mettere
in risalto e rispondere ai dubbi ed agli interrogativi piø lampanti connessi al
caso Al Bashir. Essi riguardavano in primo luogo la giurisdizione della
Corte Penale Internazionale e le possibili interferenze nelle sovranità del
Sudan, non avendo quest’ultimo mai ratificato lo Statuto della Corte, ma
coinvolgevano anche la questione dell’immunità riconosciuta dal diritto
internazionale consuetudinario ai capi di Stato in carica.
A distanza di poco piø di due anni nuovi interrogativi e perplessità
circondano, ancora una volta, l’operato della Corte Penale Internazionale
che, il 27 giugno 2011, ha emesso un nuovo mandato d’arresto nei confronti
di un capo di Stato in carica, il leader libico Muammar Mohammed Abu
Minyar Gheddafi, anch’egli accusato di gravi crimini internazionali.
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Un mandato d’arresto questo destinato a fare piø “rumore” di quello
indirizzato al presidente sudanese Al Bashir e non soltanto perchØ destinato
ancora una volta contro un capo di Stato in carica, o perchØ giunto nel bel
mezzo di una guerra civile, ma perchØ solleva dubbi ed interrogativi che
giungono al cuore del sistema della Corte Penale Internazionale e
colpiscono l’essenza stessa della giustizia penale internazionale.
La prima perplessità del caso in questione è sicuramente legata alla
Risoluzione con la quale il Consiglio di Sicurezza ha deferito la situazione
in Libia al Procuratore della Corte Penale Internazionale. Risoluzione
adottata ai sensi del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, cioè di
quel Capitolo che disciplina le azioni rispetto alle minacce alla pace, alle
violazioni della pace ed agli atti di aggressione, situazioni dunque ben
lontane dal conflitto interno in quel momento in corso in Libia.
Vi è poi la questione legata alla tempistica del procedimento che ha
condotto all’emissione del mandato d’arresto nei confronti di Gheddafi. Se
nel caso Al Bashir, infatti, tra la raccolta di indizi, l’avvio delle indagini e
l’emissione del mandato d’arresto, l’intero procedimento ha occupato un
lasso di tempo di ben quattro anni e mezzo, nel caso Gheddafi solo quattro
mesi sono bastati al Procuratore ed alla Camera Preliminare della Corte
Penale Internazionale per incriminare il leader libico. Una circostanza
questa che, lungi dalle argomentazioni legate all’altissima efficienza della
Corte o all’urgente necessità di fare luce sulla terribile rivolta in suolo
libico, rappresenta certamente ulteriore motivo di perplessità.
A ciò si aggiunge, inoltre, il fatto che il mandato d’arresto nei confronti di
Gheddafi è stato spiccato sulla base di un centinaio di articoli estratti da
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quotidiani, riviste, associazioni umanitarie e siti internet, libri o parti di essi,
mappe, leggi e decreti libici, nonchØ sezioni di blog raccolte come prove dal
Procuratore della Corte. Una circostanza questa che rappresenta anch’essa
motivo di dubbio e che, unita a quanto sopra detto, spinge senz’altro ad
interrogarsi sulla legittimità del procedimento a carico di Gheddafi e sulle
ragioni che hanno permesso la sua incriminazione.
¨ proprio alla luce di questi dubbi ed interrogativi che bisogna esaminare il
caso Gheddafi, analizzando in particolare i legami tra il Consiglio di
Sicurezza delle Nazioni Unite e la Corte Penale Internazionale e non
soltanto perchØ il punto di partenza di tutta la vicenda è racchiuso in un
articolo dello Statuto di Roma che riconosce al Consiglio di Sicurezza la
possibilità di attivare la giurisdizione della Corte anche nei confronti di un
paese non membro della stessa
1
, il c.d. potere di «referral», ma anche
perchØ il sospetto legato alle perplessità del caso in questione è che il
Consiglio di Sicurezza abbia potuto in un certo senso “utilizzare” la Corte
Penale Internazionale per fini ben lontani dalla giustizia penale
internazionale.
Partendo dall’affermazione della soggettività internazionale dell’individuo
e del principio di punibilità dei crimini internazionali, analizzando
l’evoluzione in materia di diritti umani intervenuta nella comunità
internazionale a partire dal secondo dopoguerra, soffermandosi sul Capitolo
VII della Carta delle Nazioni Unite utilizzato come base giuridica per
l’istituzione dei tribunali penali internazionali ad hoc, esaminando il
fenomeno della proliferazione dei tribunali penali ad hoc che ha condotto
1
L’articolo in questione è l’art. 13(b) dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale.
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alla nascita della Corte Penale Internazionale, analizzando poi i referrals
del Consiglio di Sicurezza, gli atti del Procuratore e dei giudici della stessa
Corte, ed utilizzando tutto ciò come spunto di riflessione teorica, si è
cercato di fare luce sui dubbi e sugli interrogativi che circondano il caso
Gheddafi, nonchØ di mettere in evidenza le lacune del sistema della Corte
Penale Internazionale.
Per sviluppare tale analisi il presente lavoro è stato organizzato in quattro
capitoli.
Nel primo capitolo, compiendo innanzitutto un excursus sulla questione
della soggettività internazionale dell’individuo e della conseguente
affermazione del principio di punibilità individuale dei crimini
internazionali all’interno dell’odierna comunità internazionale, sono state
analizzate le ragioni, le vicende ed i processi che hanno condotto
all’istituzione ed alla proliferazione dei tribunali penali ad hoc.
Nel secondo capitolo si è cercato di dare una visione d’insieme della Corte
Penale Internazionale, partendo dalle sue origini ed analizzando, in modo
breve e conciso, i suoi organi, il suo funzionamento e soprattutto le sue
competenze. Molto piø spazio è stato invece dedicato al c.d. potere di
referall, del quale sono stati opportunamente evidenziati la portata ed i
limiti, ed alle vicende che hanno condotto ai deferimenti delle situazioni in
Darfur ed in Libia al Procuratore della Corte Penale Internazionale.
Il terzo capitolo è stato sviluppato analizzando gli atti del Procuratore e i
mandati d’arresto spiccati dalla Prima Camera Preliminare nei confronti di
Muammar Gheddafi, suo figlio Saif Al-Islam e suo cognato Abdullah Al-
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Senussi. Tale analisi ha permesso dunque di esporre ed evidenziare le
lacune e le carenze del caso in questione.
Il quarto ed ultimo capitolo è interamente dedicato alle conclusioni.
Ripercorrendo in breve le tappe del lavoro svolto, esse mettono in risalto le
anomalie e i difetti del sistema della Corte Penale Internazionale. Anomalie
e difetti che il caso Gheddafi ha indubbiamente provveduto ad enfatizzare.
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CAPITOLO I
DALLA SOGGETTIVITÀ INTERNAZIONALE
DELL’INDIVIDUO ALLA PROLIFERAZIONE DEI
TRIBUNALI PENALI INTERNAZIONALI
1. Introduzione
Alla base del mandato d’arresto nei confronti di Muammar Gheddafi vi è la
risoluzione 1970 (2011) del Consiglio di Sicurezza
2
delle Nazioni Unite
3
.
Risoluzione attraverso la quale il CdS, “agendo ai sensi del Cap. VII della
Carta dell’ONU e prendendo misure in virtø dell’art. 41, ha deciso di
deferire la situazione in Libia, a partire dal 15 febbraio 2011, al Procuratore
della Corte Penale Internazionale”.
4
Nel fare ciò il Consiglio di Sicurezza ha sfruttato una precisa disposizione
contenuta nello Statuto di Roma della Corta Penale Internazionale
5
, che
all’articolo 13(b) sancisce quanto segue: «la Corte può esercitare il proprio
potere giurisdizionale su uno dei crimini di [sua competenza], secondo le
disposizioni del presente Statuto, se […] il Consiglio di Sicurezza,
nell'ambito delle azioni previste dal capitolo VII della Carta delle Nazioni
Unite, segnala al Procuratore una situazione nella quale uno o piø di tali
2
D’ora in poi anche «CdS».
3
D’ora in poi anche «ONU».
4
Security Council resolution 1970 (2011), UN doc. S/RES/1970 (2011), 26 February 2011, “[…]
Acting under Chapter VII of the Charter of the United Nations, and taking measures under its
Article 41, […] decides to refer the situation in the Libyan Arab Jamahiriya since 15 February
2011 to the Prosecutor of the International Criminal Court.”
5
D’ora in poi anche «CPI».
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crimini appaiono essere stati commessi». Si tratta del c.d. potere di referral,
già utilizzato nel caso Omar Al Bashir allorquando, in modo analogo, il
CdS deferì la situazione in Darfur al Procuratore della Corte Penale
Internazionale, attivando di fatto la giurisdizione della Corte nei confronti
del Sudan, malgrado questi non avesse mai ratificato lo Statuto di Roma.
Al di là della legittimità del potere di referral, di cui si parlerà
successivamente, giova a questo punto sottolineare l’importanza
dell’articolo 13, il cui scopo principale è di evitare il ricorso, da parte del
Consiglio di Sicurezza, all’istituzione di tribunali penali internazionali ad
hoc, in tutti quei casi in cui esso ritenga che assicurare alla giustizia i
colpevoli di crimini ben precisati costituisca il mezzo adeguato per
mantenere e/o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. In questa
eventualità, il CdS può, proprio in virtø di tale articolo, investire
direttamente la Corte Penale Internazionale, quale istituzione permanente.
6
Dello stesso avviso fu, d’altronde, l’allora Segretario Generale delle
Nazioni Unite Kofi Annan, il quale sottolineò che “il Consiglio di Sicurezza
ha un ruolo particolare da svolgere in questo senso, in quanto investito del
potere di deferire una situazione alla Corte Penale Internazionale, anche nei
casi in cui i paesi interessati non sono Stati parte allo statuto della Corte”
7
.
Alla luce di tutto ciò, risulta dunque evidente che prima ancora di un’analisi
del Capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, il punto di partenza del
6
A. Ciampi, I rapporti della Corte con le Nazioni unite, Argirò, F. [et al.], La Corte Penale
Internazionale: organi, competenza, reati, processo, Giuffrè, Milano 2006, pp. 139 – 140.
7
The rule of law and transitional justice in conflict and post-conflict societies, UN doc.
S/2004/616, 23 August 2004, par. 49, “The Security Council has a particular role to play in this
regard, empowered as it is to refer situations to the International Criminal Court, even in cases
where the countries concerned are not States parties to the Statute of the Court”.
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presente lavoro non può che essere un excursus sulla questione della
soggettività internazionale dell’individuo e della conseguente affermazione
del principio di punibilità individuale dei crimini internazionali all’interno
dell’odierna comunità internazionale, per ben comprendere le ragioni ed i
processi che hanno portato, dapprima, all’istituzione dei tribunali penali
internazionali ed, in ultimo, al deferimento di determinate situazioni alla
Corte Penale Internazionale.
2. La soggettività internazionale dell’individuo e la punibilità dei
crimini internazionali
Com’è noto il diritto internazionale tradizionale, ossia le norme che
regolavano i rapporti tra gli Stati all’interno della comunità internazionale
prima della fine della Seconda guerra mondiale, si rivolgeva esclusivamente
agli Stati nazionali. Soltanto questi, infatti, erano dotati di soggettività
internazionale, essi erano cioè gli unici enti destinatari effettivi di norme
giuridiche e pertanto titolari di diritti ed obblighi internazionalmente
sanciti.
8
Nessuna norma internazionale era indirizzata dunque agli individui in
quanto tali mentre cominciò ad affiorare, a partire dalla fine della prima
guerra mondiale, il principio della personalità giuridica delle organizzazioni
internazionali e della loro soggettività internazionale.
8
U. Leanza, I. Caracciolo, Il diritto internazionale: diritto per gli Stati e diritto per gli individui,
Giappichelli Editore, 2008, p. 28.
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BenchØ l’ordinamento internazionale classico ponesse specifiche norme a
tutela di determinati gruppi d’individui, si trattava invero di previsioni
normative esclusivamente funzionali alla tutela dei diritti degli Stati nei loro
rapporti interstatali. Cosi, in materia di trattamento degli stranieri ad
esempio, le norme consuetudinarie, tuttora in vigore, che impongono allo
Stato territoriale di non richiedere allo straniero comportamenti o
prestazioni non giustificati dal sufficiente radicamento dello stesso nella
comunità territoriale cui esso risiede o dimora, e di prevenire i danni
provocati allo straniero o ai suoi beni, avevano come obiettivo la tutela
degli stranieri non già in quanto individui ma in quanto appartenenti ad un
altro Stato.
Allo stesso modo, le norme convenzionali sul divieto della schiavitø e sul
trattamento dei lavoratori, erano del tutto estranee a fini per così dire
umanitari, ponendosi esse in una mera logica di tutela degli interessi
economici degli Stati. Il loro scopo era, infatti, quello di impedire che lo
sfruttamento della schiavitø o, piø in generale, il mancato rispetto di
standard minimi di trattamento dei lavoratori potesse tradursi in forti
condizionamenti al commercio internazionale, incidendo in modo negativo
nei confronti di quegli Stati maggiormente garantisti, le cui merci, prodotte
nel rispetto delle normative in tema di tutela del lavoro, avrebbero finito per
risultare meno competitive.
9
La fine della seconda guerra mondiale ha inaugurato, sotto quest’aspetto,
una fase nuova nelle relazioni internazionali, caratterizzata sempre piø dalla
centralità assunta dall’individuo in sØ considerato nella Comunità
9
Ivi, pag. 115.