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Introduzione
Questa tesi nasce dalla voglia di approfondire un tema tanto attuale quanto delicato
come quello dell’esilio e come tale esperienza abbia segnato la vita di un famoso
critico letterario: Edward Wadie Said.
L’attenzione, nella prima parte di questa tesi, è posta sulla condizione generale
dell’esilio.
Viene descritto il profilo dell’intellettuale esule, figura chiave del secolo scorso,
approfondendo l’esperienza tragica di Iosif Brodskij, lo spaesamento di Tzvetan
Todorov e lo sradicamento in George Steiner.
Tra le molteplici difficoltà che l’esule incontra non appena giunge nel nuovo paese,
quello della barriera linguistica, appare ai suoi occhi come quella più insormontabile.
Vengono qui considerati i casi di Ovidio, esule che temeva il plurilinguismo,
Norman Manea che definisce la lingua materna una placenta in cui rifugiarsi, Agota
Kristof che sfida l’analfabetismo scrivendo nella “nuova lingua” e Derrida seppur
non essendo esule, vive una condizione di monolinguismo imposta dal colonialismo.
La prima parte si conclude con uno sguardo rivolto ai migranti, alla Letteratura della
Migrazione e all’esilio come laboratorio letterario.
Nella seconda parte della tesi si entra più nello specifico esaminando la vita di
Edward Said e l’esperienza dell’esilio. Procedendo passo dopo passo, scopriamo
come la sensazione di essere out of place lo abbia accompagnato fin dalla nascita. La
redazione dell’autobiografia rappresenta un processo di ricostruzione della sua
identità frammentata, durante la sua malattia terminale e, allo stesso tempo, il
recupero di un mondo sostanzialmente perduto: la Palestina.
Said ci racconta la sua Palestina, una dimensione onirica durante l’infanzia e la terra
per cui lottare dopo il 1967.
Nella terza ed ultima parte, il discorso si concentra sul significato dell’esilio secondo
Said.
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L’esilio è soprattutto una condizione di perdita circoscritta dall’impossibilità del
ritorno. In Said, l’impossibilità del ritorno si traduce in una condizione di non
appartenenza, e proprio questa diventa la rotta da seguire nelle sue indagini.
Le riflessioni che nascono da tale intuizione, o se si preferisce da tale presa di
coscienza, consistono nella critica al sionismo, l’ammonimento alla letteratura
d’esilio e gli aspetti positivi dell’esilio che un critico può ricavarne.
Sempre in questa parte, viene trattata la questione linguistica nell’esilio di Said.
L’ultima riflessione qui proposta di Said è quella dell’esilio nella sua accezione
metaforica, ovvero la possibilità di vivere l’esilio in patria.
Nelle conclusioni si darà spazio al dibattito postcoloniale che ha visto Said schierarsi
in prima linea e alla nascita del tema di Calibano come archetipo letterario del
colonizzato grazie all’opera The Pleasures of Exile di George Lamming.
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Capitolo 1
La condizione che chiamiamo esilio.
Il termine “esilio”, la cui etimologia ancora controversa potrebbe significare “fuori
suolo”, indica la condizione di allontanamento voluto o forzato spesso drammatico,
permanente o temporaneo, di una persona dalla sua patria.
L’esilio ha origini molto remote, ed è attestato in diversi codici penali dell’antichità:
in Grecia, ne troviamo attestazione nel quinto secolo a.C. ed era pena per delitti di
sangue e colpe politiche. Una sua variazione era l’ostracismo, un esilio di cinque o
dieci anni a cui erano condannati, i sospetti al popolo. Gli ostracizzati erano nominati
da un’assemblea per mezzo di elezione, i cui partecipanti scrivevano il nome del
sospetto su dei cocci (ostrakon appunto). A Roma assumeva la forma dell’interdictio
aquae et ignis: il cittadino veniva privato della cittadinanza romana, i suoi beni
venivano confiscati, veniva poi allontanato da Roma. Conobbero la pena filosofi e
poeti come Seneca, Cicerone e Ovidio.
Proprio a quest’ultimo dobbiamo la nascita della poesia dell’esilio, che fece della
dolorosa sensazione di essere senza patria un topos della letteratura occidentale.
Ovidio fu bandito dalla capitale e confinato ai limiti del’impero, a Tomi sul Mar
Nero nell’8 d.C.. Il motivo del suo esilio non è chiaro, Ovidio crede che il suo
“genio” gli abbia procurato l’esilio, gli storici vagliano diverse ipotesi: la sua lirica
amorosa, forse l’ars amatoria che dispiacque all’intransigente Augusto, oppure la
conoscenza di dissensi coniugali entro la famiglia imperiale. Durante il suo esilio
nacque quella poesia piena di nostalgia per Roma, divenuta prototipo dell’infelicità
spirituale di ogni esiliato: i Tristia. Queste elegie hanno come tema lirico
l’inestinguibile nostalgia per la patria. A Ovidio non resta che piangere:
“Quando o Nasone, porrai fine al lacrimoso tuo canto?”/ mi dici. Quando avrà termine
questa sventura./ Essa da una fonte copiosa mi fornisce i lamenti/ e non sono mie ma del
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mio fato queste parole. / Ma se tu mi restituissi la mia patria con la cara consorte/ il mio
volto sarebbe lieto e io sarei quello di prima
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.
Dando così forma poetica al tenace ricordo della patria. L’unica consolazione per la
durezza della vita in esilio, secondo Ovidio, è il ricordo.
Nel moderno diritto tale pena è del tutto desueta e trova applicazione similare solo se
considerata in un significato più ampio e generale che comprenda l’espulsione
intraterritoriale di chi venga condannato ad uno spostamento da o verso alcune
località del paese; assume in tal caso il nome di confino, divieto di residenza, o
obbligo di residenza.
Esiste poi l’auto-esilio, nel caso in cui un essere umano percepisca un’irreparabile
differenza fra sé e la sua patria (soprattutto con la sua società, la sua comunità) e
decida conseguentemente di partire e vivere in esilio, lontano dalla sua terra.
La scelta dell’auto-esilio, il più delle volte è l’unica soluzione.
La condizione dell’esule implica uno spostamento forzato dell’individuo, una sua
perdita e un sentimento di solitudine; come corollario seguono nostalgia e
malinconia. Nostalgia per l’unico posto che davvero potrebbe considerarsi una casa;
malinconia a causa dell’effettiva impotenza cui l’esule è ridotto.
Sull’esiliato ricade tutta l’ambiguità della condizione umana; l’esilio è il luogo
dell’abbandono e della rivelazione, dell’estraneità e della scoperta, dell’aridità e del
pianto, della vulnerabilità e dell’immensità.
La consapevolezza che grava di più sulle spalle dell’esule è quella dell’espulsione
dalla comunità. Essere espulsi dalla propria comunità non comporta necessariamente
l’esistenza di un’altra comunità a cui si possa realmente appartenere.
Leon e Rebeca Grinberg, due fratelli emigrati anch’essi dall’Argentina, hanno scritto
un’opera molto dettagliata sui traumi che comporta l’emigrazione e l’esilio.
In quest’opera la migrazione e l’esilio sono approfonditi da una prospettiva
completamente psicoanalitica, riguardo alla difficoltà di appartenere ad una comunità
per un esule, scrivono:
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Ovidio, “Tristia”, Garzanti Libri, 1991, trad. Renato Mazzanti, p. 171
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Gli esiliati hanno più difficoltà di altri immigrati a trovare nella nuova società una loro
collocazione in quanto impossibilitati a riprodurre nella nuova situazione ciò che
costituiva il nucleo della loro vita.
La situazione degli esiliati nel nuovo paese è complessa. Non vanno verso qualcosa, ma
fuggono e sono scacciati da qualcosa, amareggiati risentiti frustrati .
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Considerare l’esilio solo come allontanamento dalla propria casa implica che si possa
desiderare ardentemente di farvi ritorno, anche se solo in sogno in modo simbolico.
Quando la propria comunità non esiste più, solo allora il ritorno diventa impossibile.
Il filosofo Siegfried Kracauer proprio riguardo l’esule e la comunità scrive:
Penso all’esule che da adulto è stato costretto ad andarsene dal proprio paese o se ne è
andato di propria spontanea volontà […] ed è molto probabile che egli non apparterrà mai
completamente alla comunità alla quale ora per un verso appartiene […]. Dove vive
allora? Nel vuoto pressoché totale dell’extraterritorialità, in una terra di nessuno […]. Il
vero modo d’esistenza dell’esule è quello di uno straniero.
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Lo stesso George Trakl sosteneva che essere esuli è come essere stranieri in terra e
che l’esule è l’anima straniera sulla Terra.
Già, uno straniero. L’esule è nudo, spogliato delle sue abitudini, secondo Rella:
Non può avvalersi in terra straniera delle abitudini che lo hanno vestito e protetto: la sua
esposizione è assoluta e sempre rischiosa. Tanto più rischiosa è la sua condizione in
quanto in terra straniera tutto gli è straniero, anche il suo canto, come ha scritto Saint John
Perse, anche la sua parola. L’esule parla dunque una lingua straniera non solo per chi lo
ascolta, ma anche per se stesso.
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L’esule è uno sradicato, un reietto, uno scomodo personaggio che può alterare
l’omogeneità di una comunità.
2
Grinberg Leon e Grinberg Rebeca: Psicoanalisi dell’emigrazione e dell’esilio, Franco
Angeli libri, p 162
3
Kracauer Siegfried , “Prima delle cose ultime”, Marietti, Alessandria, 1985 p 67
4
Rella Franco: “Dall’esilio. La creazione artistica come testimonianza”, Feltrinelli, Milano, 2004 p.
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L’esule è un testimone e fino a quando avrà i mezzi, potrà continuare a raccontare la
sua storia; è segnato da una ferita esistenziale che può essere positivamente
sublimata mediante un’elaborazione culturale, ma non può essere sanata del tutto.
Un luogo pronto ad accogliere la sua testimonianza ed a medicare le sue ferite è la
letteratura.
La letteratura diventa così un rifugio, una necessità di appartenenza, una nuova
comunità pronta ad accogliere l’esule ancora spaesato.
La letteratura degli scrittori esuli, la cosiddetta Letteratura d’esilio, abbraccia
l’esperienza della non appartenenza, dello sradicamento e la necessità di ricreare la
dimora attraverso la letteratura.
Per gli scrittori, l’esilio rappresenta un doppio sradicamento e isolamento e quindi
una doppia necessità di ricucire i fili dispersi, lo scrittore esiliato viene privato, alla
fonte, all'inizio del processo comunicativo della scrittura, di ispirazione, e a valle,
alla fine dello stesso processo, di destinatari. Tanto più allora scrivere la propria
biografia significa ricostruire questo ponte, ripartire dalla fonte ispiratrice, la madre
patria lontana, per ritornarvi, nella scrittura, come processo compiuto, come parabola
sacrificale.
L’autobiografia diventa in qualche modo un’ancora di salvezza, uno scoglio solido e
concreto nella vita precaria di un esule privato dei propri riferimenti culturali.
Scrivere la propria autobiografia consente allo scrittore esiliato, di ripercorrere con
sana lucidità, tutti gli avvenimenti traumatici del suo vissuto, riordinarli e fissarli nel
tempo per poi costruirvi sopra un’attenta riflessione da consegnare ai lettori e alla
propria personalità affamata di concretezza e stabilità.
L’esule, con la sua autobiografia, per usare le parole di Nabokov sbroglia e rimonta i
fili ingarbugliati della propria personalità.
Le motivazioni specifiche, che giustificano la grande quantità di scritti autobiografici
dell’esilio, si possono quindi riscontrare a due livelli: uno esistenziale – individuare
una continuità del proprio essere e della propria esistenza al di là e malgrado le
fratture dell’esilio - e l’altro storico - di testimonianza diretta di un fenomeno di
massa, di un terremoto che ha provocato conseguenze irreparabili nell’individuo e
nella società.
Esilio e luogo della scrittura coincidono, poiché secondo Maria Zambrano:
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La scrittura nasce dalla sconfitta della parola parlata. L’eccesso di parole porta a una
disgregazione, ma la scrittura è il luogo del segreto, di ciò che non si può dire. […]
L’esilio è il luogo della scrittura, luogo di isolamento effettivo ma comunicabile, nel quale,
proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei
rapporti tra esse.
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L’esilio, condizione di negazione-assenza, nella letteratura si rivela come condizione
esistenziale di solitudine, nostalgia e angoscia.
A proposito dell’esilio Mario Luzi scrive:
L’esilio è una metafora ricorrente nella poesia moderna. Esclusione, separazione e
alienazione costituiscono infatti lo stato variabile ma permanente che il poeta occidentale
moderno accusa come sofferenza e diminuzione impostegli.
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L’esilio è un tema ricorrente nella letteratura, ne troviamo traccia dalla Bibbia fino
alla contemporanea letteratura d’emigrazione e l’esule è una figura chiave per
comprendere la storia e la cultura di un dato paese e/o di un periodo storico; il
Novecento, ad esempio, è il secolo per eccellenza dell’intellettuale esiliato.
L’intellettuale esule è il testimone del Novecento, con la sua vita ci guida nelle
peggiori pagine di un secolo fatto di diaspore, migrazioni, deportazioni e guerre.
Maria Teresa Chialant, scrive a riguardo all’esule del Novecento:
Non è un caso che sia il Novecento il secolo in cui, per gli eventi politici e culturali che lo
hanno attraversato, l’esilio, l’emigrazione e il nomadismo siano le modalità del percorso
più ricorrenti in letteratura. […] Il/la nomade, l’immigrato/a e l’esule sono tra le
immagini di diversità più caratterizzanti dell’epoca contemporanea. Esse declinano,
secondo modalità distinte, la stessa figura dell’alterità e della non appartenenza, ma anche,
in positivo, le categorie della pluralità, del multiculturalismo, dell’identità multipla su cui
si sono espressi molti intellettuali del Novecento appartenenti ad etnie e culture diverse.
Intorno ai concetti di casa, patria, radici il dibattito è ancora in corso. Se per Simone Weil
5
Maria Zambrano, Perché si scrive, in Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1991, p.23
6
Luzi Mario, L’esilio, Dante, La poesia. in Naturalezza del poeta. Saggi critici a cura di G.
Quiriconi, Garzanti, Milano, 1995 p. 200
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l’essere radicati è forse il più importante, eppure il più disconosciuto dei bisogni
dell’anima, per Theodor Adorno fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria. Per
Said l’esilio non è soltanto una condizione reale ma anche metaforica. L’intellettuale
esule, nonostante il costante senso di perdita che segna la sua vita, gode dei vantaggi
offerti dalla marginalità e dalla dislocazione; egli si sottrae alla logica del conformismo e
abbraccia quella del cambiamento. L’irrequietezza e il movimento propri dell’esilio,
conferiscono un senso di libertà e permettono di vedere ogni cosa da una doppia
prospettiva, ogni situazione come contingente e transitoria.
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Nel mare magnum della letteratura mondiale del Novecento, gli autori che hanno
vissuto l’esperienza dell’esilio sono numerosissimi, basti pensare a Bertolt Brecht
che durante l’esilio scrisse “Vita di Galileo” una delle sue pièce più famose; a James
Joyce, l’autore della crisi d’identità che sceglie l’esilio autoimposto, ritorna più volte
sul tema dell’esilio, ad esempio, nel suo unico dramma teatrale “Gli esuli” e in
“Ritratto di un giovane artista” in cui Stephen, il protagonista è un esule; ad Erich
Auerbach che durante l’esilio forzato in Turchia, compone “Mimesis”, pietra miliare
della critica letteraria e della Letteratura Comparata e come ha osservato Edward
Said il distacco fisico dall’Europa permette una riflessione più lucida riguardo il
realismo nella letteratura europea; a Primo Levi principale narratore della Shoa e
della deportazione nei campi di concentramento; a Vladimir Nabokov scrittore e
critico letterario autoesiliatosi dalla Russia prima in Europa, poi negli Stati Uniti,
tematizza più volte l’esperienza dell’esilio e più in particolare il momento di
spostamento e spaesamento nelle sue opere, ad esempio “Pale Fire”; a Julio
Cortazar, dichiarato “persona indesiderata” in Argentina e costretto all’esilio, prende
parte al fenomeno della letteratura d’esilio ispanico americana cui si farà riferimento
a fine capitolo; a Chinua Achebe, autore fondante della letteratura postcoloniale
nigeriana moderna che nella sua opera più famosa “Il crollo” affronta il tema
dell’esilio associato all’impossibilità di un ritorno a una società che è stata
colonizzata e privata della sua autonomia etica e culturale. Tutti sono esuli, tutti sono
consapevoli della condizione dell’esule e tutti hanno scritto la propria pagina nella
letteratura d’esilio mondiale.
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Chialant Maria Teresa Erranze: transiti testuali. Storie di emigrazioni e di esilio, Edizioni
scientifiche letterarie, Napoli, 2005, pag 13