5
mente, al vissuto della gravidanza analizzato in ogni suo aspetto psicologicamente rilevante
(quindi in termini di crisi, fasi, tendenze e angosce), al passaggio dalla fusione simbiotica tra
la madre ed il feto alla separazione dal proprio bambino dopo la sua nascita, al vissuto del
parto e quindi all’incontro con il bambino reale. Il tutto in un continuo alternarsi, nel vissuto
psichico della donna, di realtà e fantasia che fondano le basi della meravigliosa esperienza
della maternità.
Nel secondo capitolo viene trattato il mondo rappresentazionale materno prima e dopo la
nascita del bambino, analizzando, in generale, il significato che assume il concetto di
“rappresentazione” nell’ottica psicoanalitica e, nello specifico, l’importanza della formazione
nella mente femminile di schemi rappresentazionali, soprattutto di sé come madre e del
proprio bambino, sia durante la gravidanza che dopo la sua nascita, focalizzando l’attenzione
sulla loro evoluzione nel tempo. Viene presentata una rassegna dei principali studi sulle
rappresentazioni relazionali materne che hanno portato alla costruzione di strumenti atti a
riconoscere specifiche categorie di rappresentazione materna in donne diverse. Ed infine
viene trattato l’aspetto relativo alla costituzione di un vero e proprio assetto psichico nuovo e
particolare nella donna che si accinge a diventare madre, naturale evoluzione del mondo
rappresentazionale materno.
Il terzo capitolo affronta la tematica della relazione che lega madre-feto durante la
gravidanza e madre-bambino dopo la nascita, analizzando le origini dell’amore e dell’istinto
materno, nonché degli stili che orientano la donna e la preparano a vivere la relazione col
figlio in termini di amore. Particolare interesse, in campo psicoanalitico, è dato alle qualità
materne che la donna viene ad assumere in quanto oggetto nella relazione col bambino: viene
perciò presentata una rassegna delle principali teorizzazioni fornite nell’ambito della teoria
delle relazioni oggettuali, centrando l’attenzione sul ruolo della madre e sulla sua funzione di
accudimento del bambino, elementi influenzanti profondamente la crescita evolutiva del
piccolo. L’ultimo argomento trattato concerne il costrutto dell’attaccamento della madre al
figlio e, di conseguenza, la capacità della donna di vivere la relazione col bambino in termini
affettivi e di ricerca della relazione stessa, riuscendo però ad accettare l’inevitabile
separazione a cui la coppia andrà incontro nel corso della crescita e dello sviluppo psicofisico
del piccolo.
Il quarto capitolo è dedicato alla ricerca: è stato condotto uno studio qualitativo
longitudinale che ha previsto la somministrazione di tre differenti strumenti in due fasi ad un
gruppo di neo-madri. L’analisi finale è stata condotta con un software di analisi statistica dei
6
testi narrati, T-Lab, ed un modello di interpretazione fondato sull’analisi emozionale del testo
di Carli e Paniccia [2002]. Lo scopo della ricerca è stato quello di esplorare il vissuto
rappresentazionale materno dalla gravidanza alla maternità, esaminandone l’evoluzione
attraverso le narrazioni prodotte dalle donne durante la gravidanza e dopo un anno circa dalla
nascita del figlio, ed il ruolo di alcune variabili sulla rappresentazione in maternità di sé come
madre e del proprio bambino.
La prima appendice riporta il questionario sull’attaccamento materno-fetale sia nella
versione originale che nella versione tradotta e presentata ai soggetti della ricerca, oltre ad una
lettera dell’autrice del questionario che ne consente l’utilizzo e ne esplicita le modalità di
somministrazione riportando anche i risultati statistici della sua ricerca.
La seconda appendice presenta l’intervista strutturata sulle rappresentazioni materne e tutte
le risposte fornite dai soggetti che hanno partecipato alla seconda fase della ricerca,
raggruppate a seconda della rappresentazioni materna a cui fanno riferimento e presentate in
forma di stringhe di codifica necessarie per l’analisi con T-Lab.
Un particolare ringraziamento va a tutte le persone che mi hanno aiutato in questi due anni:
a chi mi ha seguito nella fase preliminare della ricerca (la Prof..ssa Camisasca), a chi mi ha
supportato nella seconda fase e mi ha permesso di realizzare i miei obiettivi (la Prof.ssa
Maiocchi), a chi mi ha fornito il suo fondamentale aiuto per l’analisi dei dati ottenuti dalla
somministrazione degli strumenti (la dott.ssa Sartorio e la dott.ssa Covini), a tutte le mamme
che hanno gentilmente impegnato una parte del loro tempo per rispondere alle domande del
mio questionario e della mia intervista e mi hanno quindi permesso di saperne di più sul
mondo rappresentazionale materno, alla mia compagna di corso Cristina che ha affrontato con
me ogni singola tappa fino alla Laurea, a tutti i miei familiari che mi sono stati vicini
soprattutto nei momenti di sconforto, al mio bambino che mi dà ogni giorno la gioia di vivere
e che mi ha fatto capire che le rinunce e i sacrifici aiutano a crescere e a realizzarsi. Un
ringraziamento finale, egoistico, lo dedico proprio a me stessa, alla caparbietà con cui ho
voluto portare avanti il mio studio longitudinale, alla capacità di gestire un figlio, una famiglia
e lo studio dando il mio massimo e impegnandomi a portare a termine, nei tempi previsti, ciò
che mi ero prefissata, all’ostinazione con la quale ho deciso di terminare i miei studi in
Psicologia e mettere da parte la mia Laurea precedente. Oggi, a 30 anni, posso dire di avercela
fatta ed essere finalmente fiera di me.
7
PARTE PRIMA.
LA TEORIA.
8
CAPITOLO PRIMO.
GRAVIDANZA E MATERNITA’ NELLA TEORIA
PSICOANALITICA.
1.1 Introduzione.
L’esperienza della gravidanza e della maternità
1
per gli autori di impostazione
psicoanalitica è da sempre considerata in relazione allo sviluppo sessuale e psichico
femminile, come un evento che si inserisce nel processo evolutivo personale di ogni donna.
«Alla futura madre è richiesto un grande passo evolutivo, che consiste nel passaggio
dall’essere una persona psichicamente e fisicamente singola, circoscritta, autocontenuta e
autonoma, all’essere “doppia”, contenente un essere vivente che è nello stesso tempo parte di
sé e persona distinta, e sulla quale proietta sé stessa e la relazione con il partner» [Brustia
Rutto, 1996, p. 173].
Questo evento di vita rappresenta un’esperienza sia individuale che collettiva, espressione
di un processo biologico, ma anche momento psichico che ripropone antiche esperienze,
desideri, paure, un passato che riaffiora. Implica quindi un vasto processo di riorganizzazione
della personalità che da un lato può condurre all’assunzione di un corretto ruolo materno, ma
dall’altro anche ad un grave scompenso nevrotico o addirittura psicotico.
La complessità della dinamica psicologica della gravidanza e della maternità è quindi
strettamente legata al grado di sviluppo e di strutturazione raggiunto dalla sessualità, dalla
personalità, dai meccanismi di difesa e di controllo della realtà esterna, dalle immagini di sé e
soprattutto dalle modalità di rapporto con le figure genitoriali, specialmente quella materna, e
ripropone costantemente la bipolarità tra il ruolo sessuale e il ruolo materno, aspetti spesso
teorizzati in modo indipendente uno dall’altro.
In questo primo capitolo mi concentrerò soprattutto sulle caratteristiche psichiche del ruolo
materno, non tralasciando però il ruolo della sessualità femminile nell’organizzazione delle
dinamiche inconsce della genitorialità. Cercherò quindi di esaminare i principali spunti della
teoria psicoanalitica relativi alle vicissitudini psichiche femminili che accompagnano il
desiderio di un figlio, la gravidanza ed il parto.
1
Alcuni autori psicoanalitici si riferiscono al processo insito nella maternità chiamandolo maternalità: è un
termine coniato da Racamier [1979] ottenuto dalla condensazione dei termini “materno”, “maternità” e “natalità”
che sta ad indicare propriamente il percorso psico-evolutivo che porta una donna a diventare madre. In questo
lavoro verrà preferito il termine maternità, inteso però negli stessi termini.
9
1.2 Il desiderio di maternità.
L’origine del desiderio di avere un figlio, prima ancora del concepimento, può essere
considerata la tappa principale di un’analisi del processo evolutivo di maternage in chiave
psicoanalitica. I primi tentativi di conoscere l’esperienza psicologica soggiacente al desiderio
di maternità sono stati propriamente effettuati da autori di orientamento psicoanalitico che
hanno cercato le motivazioni alla genitorialità non tanto nell’adulto quanto nella dinamica
dello sviluppo sessuale e psichico della personalità infantile, valorizzando le componenti
inconsce della scelta.
Freud nel 1905
2
è stato il primo ad occuparsi di sessualità femminile, poiché fino ad allora
era opinione comune che la sessualità “nascesse” con la pubertà. A lungo però ha considerato
la sessualità e lo sviluppo psichico della donna come il riflesso della sessualità e dello
sviluppo maschile: anche lo stesso complesso edipico femminile veniva semplicemente
descritto come l’inverso di quello maschile. Solo nel 1922, Freud ha affrontato la complessità
dell’argomento e riformulato la teoria sulle dinamiche edipiche sottolineando una maggiore
ambivalenza nei rapporti coi genitori del bambino maschio o femmina, e l’anno successivo ha
abbandonato definitivamente l’idea di un’evoluzione parallela e simmetrica nei due sessi dei
processi di sviluppo. L’idea è che la femmina sviluppi una fondamentale mascolinità fino
all’Edipo, periodo in cui invece si assiste ad una decisiva differenziazione del percorso
evolutivo: dall’oggetto di amore materno tipico della fase preedipica, la bambina prova
interesse e invidia per il pene del padre ma non angoscia di castrazione in quanto crede di
essere già evirata. Sperimenta così un “complesso di mascolinità”, una presa di coscienza
dell’inferiorità del proprio organo che la porta ad allontanare la madre ed avvicinarsi al padre
per ottenere il suo pene. L’equazione simbolica pene-bambino fa in modo che la bambina
passi dal desiderio di avere un pene al desiderio di avere un bambino dal padre, bambino che
potrà compensarla della castrazione già avvenuta: «I due desideri, per il possesso di un pene e
di un bambino, permangono fortemente investiti nell’inconscio e aiutano così l’essere
femminile a prepararsi per la sua futura funzione sessuale» [Freud, 1924, p. 23].
Il complesso edipico è diventato così per Freud, in quegli anni, l’organizzatore delle
vicende della sessualità femminile ma successivamente egli si è concentrato anche sul periodo
antecedente l’Edipo giungendo ad individuare le definitive basi del desiderio della donna di
2
Freud affrontò per la prima volta il tema della psicologia femminile negli Studi sull’isteria [1892-1895] e nel
1901 con il caso di Dora, ma solo a distanza di anni tornò approfonditamente sull’argomento con i Tre saggi
sulla teoria sessuale [1905].
10
avere un bambino nell’attaccamento preedipico alla madre [1931; 1932]. L’attrazione e la
fissazione libidica al padre sarebbero quindi la ripetizione di un precedente e intenso legame
con la madre: Freud ribadisce la mascolinità iniziale della bambina (in fase anale) e interpreta
i comportamenti femminili di quest’epoca (specialmente di cura delle bambole, concetto che
verrà poi ripreso e approfondito dalla Kestenberg [1956] che mostrerà il parallelo tra
l’evoluzione del desiderio di maternità e di questo gioco che consentirebbe l’agire di fantasie
infantili sull’essere madre di un bambino-bambola) come ripetizione attiva degli
atteggiamenti che recepisce passivamente dalla madre. Parla di questo comportamento
preedipico definendolo “femminilità attiva”, ben diversa da quella “passiva” che invece
svilupperà successivamente. In fase fallica infatti l’oggetto sessuale materno dovrà essere
abbandonato (dall’amore per la madre si passa all’odio per non aver ricevuto cure e
nutrimento sufficienti, per aver diviso l’amore con altri, per non essere stata provvista di
pene) e gli impulsi sessuali da attivi diventeranno passivi e verranno investiti sul padre, nuovo
oggetto d’amore.
La femmina è soggetta a maggiori frustrazioni rispetto al maschio nel suo percorso di
sviluppo: deve infatti rinunciare al desiderio di avere un figlio non solo dalla madre ma anche
dal padre. Il cammino dell’Edipo è quindi molto più lungo nella donna: le sue richieste non
possono essere esaudite e «per delusione nei confronti del padre che non le risponde
fisicamente e non le dona un bambino» [Nagera, 1975, p. 40] si rivolge ad altri oggetti,
reinvestendo libidicamente la madre, che riesce ad avere una relazione col padre di cui la
bambina invece non è capace, e sviluppando quindi il desiderio di identificarsi in lei. Questo
investimento libidico verso la madre potrà essere portato a termine solo se la figlia desidererà
uguagliarla in quello che può avere: dei bambini.
Il complesso edipico femminile potrà perciò concludersi e trovare la sua vera, unica e
definitiva soluzione nella maternità: «Sul figlio la madre può trasferire l’ambizione che
dovette reprimere in sé stessa, da lui può attendersi la soddisfazione di tutto quello che le è
rimasto del proprio complesso di mascolinità» [Freud, 1932, p. 87]. Con un figlio la donna
potrà dare contemporaneamente un bambino al padre e quindi anche alla madre preedipica, ed
avere quel pene-bambino che ha a lungo atteso e il cui desiderio è rimasto inconsciamente
presente: la gravidanza assumerà così caratteristiche restitutive ed il figlio rappresenterà la
compensazione dei desideri infantili inappagati.
11
Dopo Freud, due scuole contrapposte si sono occupate di sessualità femminile e hanno
avanzato le loro ipotesi sull’origine del desiderio di avere un bambino [cfr. Brustia Rutto,
1996, pp. 125 sg.].
La prima scuola è rappresentata dai discepoli freudiani più ortodossi come H. Deutsch e R.
M. Brunswick. Essi seguono la tesi freudiana dell’iniziale mascolinità della bambina e
inscrivono il desiderio di avere un bambino nel quadro dell’attaccamento preedipico di
carattere fallico alla madre.
Deutsch [1945] sostiene come non sia solo l’invidia del pene a costituire il fondamento
dello sviluppo sessuale femminile, ma soprattutto il “trauma genitale” ossia il riconoscimento
della mancanza di un organo idoneo alla propria sessualità
3
che di conseguenza porta ad
interiorizzare i propri interessi fino ad incorporare in fantasia il pene e il figlio ad esso
associato. Il figlio quindi non rappresenta un oggetto desiderato per compensazione restitutiva
ma un possesso fantasticato non ancora ben distinto da altre parti del corpo, che valorizza la
funzione ricettiva della psiche femminile. La maternità così conduce al raggiungimento della
completezza femminile, percorso che prima poteva essere cercato solo nell’amore sessuale: il
desiderio di essere amata (ma con la pretesa di ricevere un amore altrettanto grande) viene ora
riversato sul figlio senza chiedere nulla in cambio. Questo consente di delineare due tipiche e
differenti tipologie femminili: la donna femminile, caratterizzata da tendenze narcisistiche e
attitudini masochistiche ad amare e donare con dolore, e la donna materna, in cui il desiderio
narcisistico viene completamente trasferito dall’Io al figlio. Solo in una donna
“psicologicamente perfetta” possono essere soddisfatte in modo integrato e quantitativamente
analogo, tanto la sessualità quanto le tendenze materne
4
.
Brunswick [1940] aggiunge tra i fattori che determinano l’allontanamento della bambina
dalla madre in fase preedipica e il successivo sviluppo del complesso edipico, la “sensazione
di castrazione” che pervade la bambina ma che non può accettare davanti alla madre in quanto
vorrebbe dire separarsi da lei. La loro unione non potrà mai essere completa e di conseguenza
la bambina si identifica con una madre passiva castrata volgendo le proprie attenzioni al
3
Il concetto verrà ripreso nelle teorizzazioni della Kestenberg [1956] che riconduce il desiderio femminile di
avere un bambino ad una forma di compensazione dall’inferiorità dovuta all’impossibilità di scarica pulsionale
tramite un organo idoneo.
4
Per Fornari [1976] questa bipolarità fra donna materna ed erotica non permette di considerare la madre come
una donna che vive la sua femminilità (il che inficerebbe la sua stessa relazione affettiva col figlio) e di accettare
che la maternità stessa sia primariamente una fondamentale funzione psicosessuale: «Si parla forse troppo di
maternità e sesso, in luogo del più inquietante maternità è sesso
4
» [Capello, Vacchino, 1985, p. 67].
Si veda per un approfondimento sulla psicologia dell’atto sessuale, Deutsch [1945], Brustia Rutto [1996].
12
padre, proprio come fa la madre. Solo con la maternità le tendenze attive saranno ristabilite
attraverso la cura attenta e affettuosa del figlio.
La seconda scuola è rappresentata da esponenti inglesi come K. Horney, E. Jones e M.
Klein. Essi presuppongono una differenziazione sessuale fin dalla nascita (la donna è donna e
non un “uomo castrato”) e una preconcezione innata della propria femminilità nella bambina
che la porta a desiderare un figlio precocemente (è un impulso primario femminile) a seguito
di una relazione fantasmatica con il padre ed un’identificazione con la madre.
Horney [1933] ribadisce la non fondamentale importanza dell’invidia del pene nello
sviluppo psichico e sessuale della donna e sottolinea, come la Deutsch, che la maternità non è
una semplice compensazione di un pene mancante (rischierebbe di essere ridotta ad un
semplice ripiego per qualcosa che non si è potuto avere) ma l’appagamento di un desiderio a
lungo rinviato, «la realizzazione di un’antica promessa materna fattale nel momento in cui
essa ebbe a constatare la diversità tra i sessi» [Brustia Rutto, 1996, p. 153].
Jones [1935] considera primario l’interesse della bambina per l’interno del proprio corpo e
di conseguenza per la madre che non è vista come oggetto di desiderio ma come «una persona
che è riuscita a riempirsi proprio di quel che lei stessa desidera tanto fortemente» [ibidem, p.
495]. Il desiderio di avere un bambino verrebbe ad esprimere il normale desiderio della donna
di accogliere un pene e trasformarlo in bambino, per far fronte al sadismo verso la madre,
causato dall’incapacità di ottenere tutte le cose buone contenute nel corpo materno. Non ci
sarebbe alcun valore compensatorio.
Klein [1928; 1945] mostra come il desiderio del pene nella bambina non sia primario ma
frutto di angosce derivanti da un complesso edipico precoce che ha origine nelle frustrazioni
orali vissute con la madre: la bambina assume un atteggiamento virile e immagina di avere un
pene solo in seguito, per evitare che la madre possa distruggere il suo corpo (e possa
distruggere la sua futura capacità di fare bambini) e lo offre a lei o al padre a cui l’aveva
rubato in fantasie precedenti in quanto oggetto di grande gratificazione orale (è la perdita del
seno come oggetto di esclusiva gratificazione investito però dalle proprie tendenze distruttive
che conduce all’interesse della bambina per il padre, e non l’invidia per il suo pene). Per la
Klein la madre è il “genitore unico”: è lei che contiene tutte le cose buone di cui la bambina
vuole appropriarsi (il latte, i bambini, il pene del padre) ed è dal rapporto con lei e con il suo
seno che si determinerà lo sviluppo di ogni successivo rapporto d’amore. La nascita del figlio
rappresenterà la rassicurazione e la smentita di tutti i timori provocati dalle fantasie sadiche
infantili contro il corpo materno: essa proverà che gli attacchi aggressivi non hanno avuto
13
effetti dannosi e che la propria madre potrà essere ricompensata riparando i danni fatti nella
fantasia ai suoi oggetti interni. La maternità quindi figurerebbe il raggiungimento della
posizione femminile matura: la donna si identifica coi suoi figli e coi loro bisogni e ricrea
dentro e fuori di sé «la propria soccorrevole madre, la cui influenza protettiva non ha mai
cessato di funzionare nella sua mente. Nello stesso tempo si identifica anche con i propri figli:
nella sua fantasia è, per così dire, di nuovo bambina, e spartisce con i suoi bambini il possesso
di una madre buona e soccorrevole» [Klein, 1928, p. 223].
Fornari [1984] ha proposto di integrare la teoria freudiana e quella kleiniana: egli ritiene
che la femminilità abbia origine nell’adolescenza come “fantasia di avere dentro di sé un
tesoro”, confermata dall’arrivo del menarca che dimostra alla ragazza la veridicità delle
promesse materne sull’interno del proprio corpo. La fantasia del tesoro diventa identità
femminile solo attraverso l’unione con qualcuno: la componente materna trova così il suo
soddisfacimento nella relazione affettiva con il partner attraverso l’atto sessuale, poiché il
pene accolto nel corpo assumerebbe il significato di un figlio
5
. La maternità per Fornari viene
a rappresentare l’appagamento dell’antico desiderio, della promessa materna, ma la stessa
gravidanza viene accettata ed ha un decorso regolare solo se c’è stata una buona relazione
infantile con il seno materno e una successiva identificazione positiva con la madre. «L’Io
della donna incinta deve trovare un armonico compromesso tra la sua identificazione
inconscia con il bambino, che è rivolta verso il futuro, e la sua identificazione con la madre,
che è parte del passato» [Brustia Rutto, 1996, p. 154].
Con la nascita della Psicologia dell’Io, il focus psicoanalitico si è spostato dalle
gratificazioni istintuali ai processi di identificazione: l’interiorizzazione del ruolo materno
sarebbe legata all’angoscia di separazione dalla propria madre ed il figlio potrebbe consentire
una gratificazione narcisistica [cfr. Scopesi, Viterbori, 2003, p. 36].
Concludendo, è possibile sottolineare come il desiderio di avere un figlio sia un desiderio
complesso: «ogni partoriente è in qualche modo una “madre portatrice”, portatrice della
cristallizzazione nel suo corpo del fascio di desideri che ha scatenato il concepimento. E’
necessario per la fecondità umana che lo spazio di questo fascio sia riconosciuto, dunque
mantenuto aperto, e ciò implica nelle nostre pratiche un certo gioco, perché sussista il margine
5
Cfr. Deutsch [1945] pp. 92 sg.: l’autrice individua uno stretto legame simbolico tra atto sessuale e gravidanza-
parto. Il coito e la fecondazione sarebbero infatti sempre psicologicamente connessi al punto che il coito
verrebbe inconsciamente considerato il primo atto di un processo che culminerà nel parto.
14
per possibili equivoci, e un bambino possa così intrufolarsi e vedere la luce» [Chatel, 1995, p.
21]
Questo fascio di desideri ha una lunga storia nella vita di ogni donna e può assumere
diversi significati, come abbiamo visto: tra gli altri, la realizzazione inconscia del “progetto
magico” che risale all’infanzia, il bisogno di verificare la propria fertilità, l’esigenza di
effettuare una compensazione del piacere sessuale o di realizzare il proprio ruolo di donna sia
affermando una differenza di genere sia acquisendo uno status di adulta. Qualunque sia il
significato, esso viene espresso con modalità immaginative e rappresentative fantastiche che
la donna ha a disposizione nel corso del suo sviluppo e che si modificano costantemente
rispondendo a motivazioni interne e condizioni esterne. «La donna deve essere pronta a
ripercorrere il proprio iter gestazionale sino a far nascere sé stessa come “madre” nel
momento in cui dà alla luce il proprio bambino» [Lipari, Speranza, 1992, p. 12].
Brazelton e Cramer [1990] hanno esaminato le motivazioni alla base del desiderio di
diventare madre, che consentono di operare una sintesi di quanto detto finora:
¾ l’identificazione, cioè il desiderio di essere la madre-nutrice e l’attuazione di tutti i
comportamenti relativi fin da bambina, oscillando tra il ruolo della madre nutrice e
quella della bambina indifesa, con il risultato di incorporare importanti componenti
della propria madre;
¾ il desiderio di essere perfette ed onnipotenti, di sperimentare il proprio corpo in
gravidanza come produttivo e potente, sostituendosi alle sensazioni di vuoto ed alle
preoccupazioni derivanti dalle imperfezioni corporee;
¾ la fantasia di fusione come desiderio di tornare all’unità originaria con la propria
madre;
¾ il desiderio di rispecchiarsi nel bambino, occasione di immortalità per sé e per la stirpe
in quanto successo genetico e quindi il desiderio di vedere riflessi nel bambino i segni
della propria creatività e della propria capacità di allevare;
¾ il bambino come estensione non solo del corpo materno ma anche del proprio Sé
grandioso e quindi perfetto realizzatore di tutte le potenzialità inespresse e irrealizzate
dalla madre;
¾ la promessa del rinnovamento di affetti passati perduti che attraverso il figlio possono
essere rivissuti e fantasticati come vitali e gratificanti;
15
¾ la doppia identificazione con sé stessa e con la propria madre ma anche con il proprio
feto/bambino, consentendo l’elaborazione dei ruoli e delle caratteristiche proprie e
altrui sulla base delle esperienze infantili passate.
La naturale evoluzione delle dinamiche psichiche sottese al desiderio di maternità trova la
sua espressione nel “bambino della fantasia”.
1.3 Il bambino immaginario: maternità e fantasia.
La letteratura psicoanalitica più recente non si è molto allontanata dalle posizioni appena
esposte sull’origine del desiderio di maternità, ma si è concentrata maggiormente
sull’evoluzione delle fantasie infantili relative al “bambino immaginario” desiderato.
L’evoluzione psicosessuale della bambina, infatti, oltre all’assunzione dell’identità di genere e
al superamento dell’organizzazione libidica parziale orientata verso gli oggetti primari (madre
e padre), comporta anche lo sviluppo parallelo del desiderio fantasmatico di un bambino
Il “bambino immaginario” è «quello derivante dalla pulsionalità infantile incestuosa,
connotata fortemente in senso edipico, ma anche il bambino preedipico che si desidera donare
alla madre e che esprime la tendenza ancestrale e primaria di ristabilire l’unità perduta, la
fusione originaria con lei» [Brustia Rutto, 1996, p. 162]. Entrambi, il bambino preedipico ed
edipico, saranno poi assimilati e superati in età adulta, attraverso il desiderio di avere un figlio
da un partner diverso dalla famiglia di origine e si manifesteranno nella volontà di
immaginare, sognare, dare un’identità a questo bambino.
Le fantasie della maternità non sono però solo connesse al bambino immaginario e quindi
al “contenuto” del proprio corpo, ma anche alla percezione femminile di un Sé corporeo,
cavo, capace di contenerlo e successivamente di espellerlo: «l’identità femminile è legata
anche all’irrinunciabile esigenza della formazione di uno “spazio interiore” che sarebbe alla
base dei vissuti della gravidanza e della maternità. Lo spazio cavo sarebbe connesso alle
cavità e agli orifizi corporei che, fin dalla nascita, formano per l’inconscio un’immagine
unica, fusa, che si riferisce a un interno misterioso. Tale vissuto nasce da aspetti qualitativi
(relativi allo spazio e al tempo) e funzionali (accogliere, contenere, trattenere, respingere) del
cavo. Le cavità corporee e le fantasie a esse connesse si differenziano da questa unità
originaria e si evolvono secondo le fasi di sviluppo della bambina» [Brustia Rutto, 1996, p.
147].
Ferraro e Nunziante Cesaro [1985] sottolineano il ruolo del corpo nello spazio
fantasmatico della donna: è considerato un organo cavo da riempire, uno spazio da saturare,
16
che con la sua portata fecondatrice rende possibile l’attualizzazione di fantasmi e desideri
incestuosi di unione col padre o di regressione al ruolo di figlia con la propria madre. Il
bambino durante i mesi di gestazione sembra così essere un organo complementare, un corpo
introiettato o meglio generato dalla donna stessa e fondante la sua possibilità di completezza
fisica e psicologica.
Il desiderio fantasmatico di avere un bambino e il senso materno
6
sono il frutto di un
processo evolutivo individuale dettato da meccanismi dinamici interni e dall’interazione coi
propri genitori, ma anche da un contesto socioculturale mutabile. Bydlowski [1990] sostiene
che il “bambino immaginario”, quello che si desidera come potenziale riparatore di sofferenze
e sentimenti di perdita e quindi esprime desideri narcisistici connessi al progetto di provare
sentimenti di pienezza indipendentemente dal coinvolgimento del bambino come essere
dotato di una propria individualità, è fortemente influenzato dalla cultura, mentre il “bambino
desiderato” si associa ad un desiderio individuale di accoppiamento e di progetto imminente
di gravidanza. Lebovici [1983] ripropone una similare distinzione tra “desiderio di maternità”
radicato nelle fantasie infantili e “desiderio di un bambino” legato al figlio come prodotto
della maternità.
In termini più generali, queste due ultime tesi conducono all’opposizione tra desiderio di
maternità e desiderio di gravidanza: mentre il primo va inteso come atteggiamento psichico
rivolto verso l’oggetto d’amore (il figlio) [cfr. Brustia Rutto, 1996, p. 165], il secondo ha
radici fondamentalmente narcisistiche in cui in primo piano è il sé della donna che vuole
dimostrare di essere in grado di procreare, delineare meglio la propria identità femminile e
quindi verificare che il proprio corpo funziona come quello materno
7
[cfr. Pines, 1972]. St.
André [1993] parla a questo proposito di “bambino tappo” per definire il frutto del desiderio
di gravidanza finalizzato a colmare un vuoto, ad alleviare affetti depressivi o a permettere la
scissione di stati emozionali dolorosi attraverso sensazioni fisiche piacevoli.
Quando il concepimento biologico si avvia, esso si accompagna ad un concepimento
psicologico all’interno del mondo immaginario: vi è infatti un alternarsi di fantasie consce e
inconsce che contribuiscono a dare la forma definitiva al bambino che fino allora viveva nella
mente. Le fantasie consce, realistiche o ad occhi aperti sono spesso condivise con il partner, si
6
In quest’ambito si è visto che il desiderio di essere madre è stato spesso identificato con l’istinto materno, e
considerato quindi come una qualità innata, un dato psicobiologico di base, ma appare più completa la
definizione di “sentimento materno”, poiché essa comprende anche l’ambivalenza propria dei sentimenti umani
[cfr. Ferraro, Nunziante Cesaro, 1985]
7
«La donna desidera un figlio perché ciò significa recuperare la madre e potersi identificare con lei, desidera un
figlio anche per provare la propria fertilità» [Langer, 1951, p. 309].
17
possono osservare nella scelta del nome del bambino, nella preparazione di uno spazio fisico
per lui, nelle aspettative sul sesso e sulle sue caratteristiche. Questo bambino della mente è
quello che Lebovici [1983] definisce “il bambino immaginario”. Le fantasie inconsce sono
invece l’esito delle prime esperienze di affiliazione e relazione coi genitori vissute fin dai
primi anni di vita, il risultato delle dinamiche e dei conflitti preedipici ed edipici della madre:
il bambino può essere immaginato con una funzione di riscatto (il cosiddetto “Messia”
onnipotente che deve sconfiggere paure e depressioni) ma anche con una funzione parassitaria
a causa dei timori di svuotamento del sé materno (il bambino viene così a personificare le
tendenze passivo-orali delle prime fasi di sviluppo). Questo bambino della mente è quello che
sempre Lebovici [1983] definisce “il bambino fantasmatico” e che Vegetti Finzi [1990]
chiama “il bambino della notte”.
Il bambino costruito dalla mente è molto importante nell’economia psichica della madre
perché fa da ponte tra il periodo di gravidanza e quello di crescita, permettendo la
familiarizzazione dell’idea di bambino con l’idea di sé stessa come madre. Le fantasie infatti
non si riferiscono solo al bambino, ma anche a sé come madre che assume un ruolo salvifico,
disposta al sacrificio ed all’annullamento per il figlio, oppure di Madre Terra che alimenta e
dona la vita in modo incessante con il proprio grembo, o ancora di madre seduttiva che tiene il
figlio intrinsecamente legato a sé [cfr. Ammaniti, 1992, p. 3].
L’immagine complessiva del bambino è composita, perché formata dalle proiezioni delle
aspettative, dalle proiezioni di parti di sé e dalle proiezioni di immagini derivanti da
attaccamenti precedenti. Alcuni autori [Brazelton, Cramer, 1990] mettono in evidenza che si
tende a dare un senso al comportamento del bambino già a partire dal momento in cui si trova
nel ventre materno, attribuendogli dei tratti caratteriali ad ogni movimento che compie; tali
attribuzioni di senso corrispondono a delle proiezioni dell’immagine che si ha di se stessi.
Questo è un modo per introdurre il bambino nel mondo simbolico dell’adulto. Scrive in
proposito Brustia Rutto [1996, p. 223]: «Lo stimolo percettivo può essere utilizzato come
spunto per dar sfogo a tutto l’immaginario relativo a come sarà il bambino, che carattere avrà,
consentendo identificazioni con tratti del carattere e comportamenti dei genitori».
Durante la gravidanza, il profondo rapporto tra fantasia e realtà può andare incontro a
notevoli oscillazioni da una parte o dall’altra, creando situazioni in cui l’aspetto fantasmatico
può essere predominante e quindi rallentare il processo adattativo nei confronti della realtà o,
al contrario, limitato in favore dell’aspetto di realtà per difendersi dalla naturale ambivalenza
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presente nel processo gravidico. I problemi sorgono, quindi, sia quando l’uno avviene senza
l’altro sia quando esiste un netto contrasto tra i due.
Nel bambino non voluto o nella gravidanza non desiderata il bambino non è immaginato.
Ciò a causa della paura della gestante di essere delusa del bambino che nascerà oppure dalla
paura di essere inadeguata come madre. L’assenza di desiderio inibisce l’accesso al bambino
inconscio, necessario per poterne sentire la presenza. Lumley [1980] evidenzia che la capacità
di costruire l' immagine del feto come individuo è in stretto rapporto con la vita affettiva della
donna: tale costruzione è tanto più precoce quanto maggiore è l'investimento affettivo e
minore l'ambivalenza nei confronti del bambino e della gravidanza stessa. Quando perciò la
gravidanza è voluta e desiderata, il bambino è già immaginato e l’accesso al bambino
inconscio permette la relazione e la comunicazione con il bambino reale: bambino che ha già
il suo posto sia mentale che fisico nell’ambito familiare.
L’ecografia consente la sovrapposizione tra il bambino immaginario e l’immagine del
bambino reale dentro di sé. Soulé [1982, in Brazelton e Cramer, p. 39] definisce l’ecografia
«interruzione volontaria di una fantasia». L'ecografia ostetrica è importante non solo al fine
diagnostico-sanitario ma rappresenta uno strumento psicologico comunicativo e relazionale.
Essa modella il vissuto e la percezione della donna preparandola al suo futuro ruolo
genitoriale. Bouchart Godard [1979] sostiene che l'ecografia si inserisce nelle fantasie che la
madre costruisce sul bambino, una serie di fantasie con le quali si identifica; dopo l'ecografia
queste fantasie materne si trovano confrontate con un immagine reale che si muove su due
registri, uno visivo (l'immagine sullo schermo con caratteristiche fisiche ben definite) ed uno
verbale, simbolico (le parole dell'ecografista che sono un modo diverso di parlare del
bambino).
L’esperienza dell’ecografia produce un effetto complesso sul lavoro di adattamento al
bambino, spostando il rapporto con il figlio dal piano interiore al piano esteriore. L’immagine
della creatura ancora in via di sviluppo che si vede sullo schermo non collima con quella di un
bambino già formato esistente nella mente dei genitori: da qui, la presenza di sentimenti
ambivalenti per alcune donne davanti alle immagini, che vedono un bambino che le spaventa,
come se fosse incompleto o fragile o addirittura “difettoso”. Ma il vantaggio psicologico è
evidente: il vedere il proprio bambino può aiutare la madre a viverlo come essere
indipendente e favorire l’inizio del processo volto a far combaciare il bambino immaginario
con quello reale.