5
una data cultura ai fini di una sua descrizione, risulta particolarmente utile al lavoro del
dialoghista, lavoro in cui la trasposizione culturale non può essere tralasciata: se lo spagnolo
ha un uso del marcatore prammatico
5
più ampio dell’italiano, queste espressioni possono
essere omesse nella traduzione di una prosa, ma devono essere rese in qualche modo nel
dialogo di un film; nascono così espedienti di vario tipo che, la maggior parte delle volte,
tendono ad avvicinare l’originale al pubblico più che il pubblico all’originale. I capitoli 3 e
4 vogliono essere un esempio pratico dell’applicazione delle teorie precedentemente
enunciate: essi sono infatti affiancati da un cd-rom in cui presento una scena del film
doppiata e sottotitolata in italiano. Nel quinto e ultimo capitolo si trova la traduzione
completa del copione, il cui originale è trascritto in appendice.
Il testo del copione in mio possesso (Deposito Legale n
o
10680) presenta alcune
differenze rispetto alla versione filmica (ad esempio, la persona di cui Eduardo si preoccupa
è la moglie, mentre nel film è la figlia). In questo contesto non ha importanza; non ho inteso
presentare un testo pronto per essere letto dagli attori doppiatori, tanto è vero che ho tradotto
anche le didascalie, quando invece i dialoghisti si servono solo della trascrizione dei
dialoghi. La mia traduzione presenta le caratteristiche di quel testo preliminare su cui lavora
il dialoghista, nel quale mi sono immedesimato (cfr. cap. 3.2.), ma solo per una scena.
5
Mi riferisco in particolar modo alle particelle temporali come “già” e ai segnali discorsivi come “senti” e
“capito?”.
6
1. IL FILM
1.1. Sinossi
Gloria (Victoria Abril) è una donna sui trent’anni, che vive in un umile appartamento
alla periferia di Madrid, con la suocera Donna Julia (Pilar Bardem) e il marito Juan, che fa il
banderillero. Stanno pagando il mutuo, ma un giorno, durante una corrida, Juan viene
incornato da un toro ed entra in coma. Gloria, disperata, inizia a bere e scappa in Messico
per cercare fortuna, ma qui non può far altro che prostituirsi.
Un giorno si ritrova in una riunione di affari tra due membri della mafia messicana,
Evaristo ed Eduardo (Federico Luppi) e due poliziotti infiltrati della squadra antidroga
statunitense. L’episodio finisce con una sparatoria da cui escono vivi solo Eduardo e Gloria,
la quale riesce a fuggire con la documentazione su cui sono segnati i luoghi in cui la mafia
messicana ricicla il denaro sporco.
Gloria viene rimpatriata e, una volta a Madrid, prova a rapinare una pellicceria dove
sa che troverà il denaro sporco. Intanto Eduardo vive un dissidio interiore tra la scoperta
dell’esistenza di Dio e i peccati commessi nel suo lavoro di assassino. Donna Amelia, boss
della mafia messicana, lo invia a Madrid per ritrovare Gloria e la documentazione che ha
rubato. Gloria, intanto, continua a bere, mentre sua suocera cerca di aiutarla a smettere e a
trovare un lavoro.
Eduardo trova Gloria quando ha appena rapinato la pellicceria, la porta
all’appartamento dove si è sistemato con Oswaldo, uno dei fedeli killer di Donna Amelia.
Eduardo propone a Oswaldo di lasciare andare Gloria in cambio di quello che ha rubato, ma
Oswaldo gli spara e tortura Gloria per farsi dire dove nasconde i documenti. Gloria reagisce
e con una penna trapassa la giugulare di Oswaldo che muore dissanguato.
Dopo un periodo di convalescenza, aiutata dalla suocera, Gloria riesce a regolare la
propria vita: smette di bere, trova un lavoro come camionista e studia per prendere il
diploma di scuola superiore.
Donna Julia capisce che Gloria non potrà mai essere felice con un marito in coma
così decide di farsi dare dall’amica Esperanza i soldi per pagare l’ipoteca e di suicidarsi
insieme al figlio, lasciando il gas aperto.
7
Gloria si ritrova sola al mondo, ma impara ad accettare con dignità la propria
esistenza e guarda al domani fiduciosa.
1.2. Quel che non si può tradurre
Si può entrare in contatto con un’opera artistica a vari livelli: il livello più alto è
occupato dall’autore, ai successivi si trova il pubblico, a sua volta divisibile in persone che
lo conoscono personalmente, una piccola cerchia, in grande pubblico della sua stessa cultura
e in grande pubblico di altre culture, che si può ancora suddividere in persone che fruiscono
del film doppiato e persone che ne fruiscono in lingua originale. Di quest’ultimo gruppo
facevo parte io quando iniziai a sentir parlare di Agustín. Poi, con il tempo, sono arrivato ai
livelli a lui più vicini e quando ho deciso di tradurre la sceneggiatura di Nadie hablará de
nosotras cuando hayamos muerto, la mia massima ambizione era quella di rendere il
pubblico italiano partecipe di tutto quello che avevo appreso io.
Ci sono cose che non si possono tradurre: ad esempio, chi conosce bene Agustín sa
che il personaggio di Pilar Bardem, Donna Julia, è modellato su quello della madre del
regista alla quale, tra l’altro, il film è dedicato, e che il padre del regista, che era
“banderillero”, compare nella scena 84, quando gli ex colleghi di Juan accompagnano
Gloria a casa dopo i funerali. Sono particolari interessanti, ma nemmeno il pubblico
spagnolo può apprezzarli, perciò non mi sono preoccupato di trasmetterli. Ci sono invece
altre finezze del regista che vengono notate da una buona parte del pubblico spagnolo, ma
non sono identificabili da quello di altre culture. Tutto il film è un omaggio al mondo della
corrida che, tuttavia, non ne costituisce l’argomento principale, ma soltanto lo sfondo. Ad
esempio, nella scena 1, quando Eduardo spara a Many, uno dei proiettili gli procura una
ferita in una gamba nello stesso punto in cui fu ferito il famoso torero Paquirri. Many muore
dissanguato a causa di quella ferita proprio come successe a Paquirri. I riferimenti sono tanti
e, a volte, è il regista stesso a metterli in risalto nelle didascalie in modo quasi ingenuo:
All’improvviso suona il telefono (non c’è nulla che faccia più paura in casa di un torero che una
telefonata in orario di corrida).
6
6
Cfr. cap. 5 scena 68B.
8
In questo caso, ad esempio, il pubblico italiano sente il telefono squillare e vede Gloria
spaventata, ma non collega direttamente la sua paura al fatto che il marito in quel momento
è nell’arena. In questa scena è quindi opportuno l’inserimento di una voce fuori campo che
dica qualcosa tipo “Speriamo non sia successo nulla a Juan!”.
9
2. APPROCCIO ALLA TRADUZIONE
2.1. Idee generali sul modo di tradurre
2.1.1. Approccio addomesticante vs approccio estraniante
Vedo la traduzione come il tentativo di produrre un testo così trasparente da non sembrare tradotto.
Una buona traduzione è come una lastra di vetro. Si nota che c’è solo quando ci sono delle
imperfezioni: graffi, bolle. L’ideale è che non ce ne siano affatto. Non dovrebbe mai attirare
l’attenzione su di sé.
Norman Shapiro
7
Quando lessi questa massima per la prima volta, pensai che fosse la cosa più vera e
concisa che fosse stata mai scritta sulla traduzione; in seguito scoprii che non era così.
Analizziamone il primo periodo: tale affermazione sembra poter essere universalmente
condivisa, eppure nella storia della traduzione ci sono stati vari teorici che hanno sostenuto
l’opposto (Benjamin, Holderlin), cioè che la traduzione debba dichiarare la propria identità,
mostrando umilmente l’esistenza dell’originale. Proprio dalla discussione su quale
approccio sia migliore per una traduzione è nato un dibattito che è iniziato nel mondo
occidentale con Cicerone
8
e non si è ancora concluso. Posto che principalmente le posizioni
adottate sono due, addomesticante vs estraniante, l’enunciato di Norman Shapiro si presenta
come a favore della prima, e se è vero che l’ultimo periodo della sua massima è, nella
maggior parte dei casi, comune a entrambi gli approcci, è anche vero che il più delle volte la
trasparenza è il frutto di una traduzione che avvicina talmente il testo al pubblico, da
assomigliare più a una versione che a una traduzione.
Il dibattito continua, anche perché i criteri per definire una traduzione estraniante o
addomesticante non sono assoluti e perché i canoni della fedeltà variano a seconda del
luogo, della cultura e del periodo storico in cui li consideriamo.
9
È bene quindi, prima di
affrontare un discorso su quale approccio sia migliore, definire chiaramente cosa si intende
7
Venuti, p. 21.
8
Cicerone, pp.33-35.
9
Venuti, p. 103.
10
per traduzione parola per parola, fedele e letterale. Prendiamo, ad esempio, l’espressione
spagnola “eres un gallina”, dalla quale si possono ottenere quattro traduzioni diverse:
1 sei un gallina (traduzione parola per parola)
2 sei un codardo (traduzione-spiegazione)
3 sei un cacasotto (traduzione-interpretazione o versione)
4 sei un coniglio (traduzione fedele o letterale)
La prima soluzione è avvertita da qualsiasi parlante italiano come periodo mal formato,
eppure ci sono stati teorici della traduzione che l’avrebbero prediletta, con l’aggiunta,
magari, di una nota di spiegazione.
10
La seconda soluzione solleva già un dibattito interessante, infatti la traduzione risulta
fedele nel significato, ma appiattisce lo stile dell’originale perché elide l’uso della figura
retorica. È quindi una traduzione addomesticante, perché annulla la differenza culturale che,
in questo caso, consiste nel fatto che in Spagna l’animale codardo per antonomasia è la
gallina, mentre in Italia è il coniglio.
La terza soluzione pochi si azzarderebbero ad usarla in un’edizione con testo a fronte,
è infatti evidente che il traduttore connoterebbe il significato dell’espressione diversamente
dall’originale, prendendosi una vera e propria libertà. In realtà, costituendo la traduzione
con testo a fronte solo una piccola percentuale dell’editoria e considerando sia che questo
tipo di stravolgimento può essere dovuto a un espediente di compensazione (cfr. cap. 2.1.2.)
sia che l’approccio alla traduzione in Italia è prevalentemente addomesticante, nonché
tenendo semplicemente conto che circolano sul mercato molte traduzioni mal fatte, a questa
soluzione si ricorre molto spesso. Certamente l’esempio dell’espressione “eres un gallina” è
banale, nella pratica la traduzione-interpretazione applicata a periodi più complessi e a testi
di un certo spessore sociale, incide fortemente sull’impressione che il pubblico riceve di una
data opera, al punto da essere uno degli strumenti dei quali si serve la censura. Ad esempio,
nella traduzione della Bibbia, San Girolamo tradusse “almah” (letteralmente “giovinetta in
età di matrimonio”) con “vergine”. Probabilmente nel V secolo le due espressioni erano
quasi equivalenti e san Girolamo non pensava che, in seguito, la sua traduzione avrebbe
dato origine a un lungo dibattito sul dogma della verginità di Maria. Tuttavia Valéry
Larbaud
11
afferma che San Girolamo ha optato consapevolmente per la scelta del termine
10
Penso a Nabokov e alla sua traduzione in inglese de Eugenio Oneghin di Aleksandr Sergeevic Puskin.
11
Larbaud, pp. 38-39.
11
“vergine” con l’intento di schernire l’istituzione del matrimonio
12
verso cui nutriva una
profonda avversione. Quindi, a prescindere dall’intenzionalità della sua scelta, è chiaro che
in casi simili la pratica della traduzione-interpretazione diventa un potente strumento di cui
servirsi per manipolare l’idea del pubblico ricevente.
La quarta soluzione è quella che io definisco l’unica traduzione fedele in senso
stretto, perché mantiene il significato e la figura retorica tramite la quale è espressa.
Non sempre è possibile isolare così chiaramente quattro possibili traduzioni. Se il
periodo in questione fosse stato “eres un cobarde” avremmo avuto “sei un codardo” o “sei
un cacasotto”. Nel primo esempio, traduzione parola per parola e traduzione fedele
coincidono, generando dei fraintendimenti. Infatti alcuni teorici della traduzione tendono a
identificare questo tipo di situazione, che è effettivamente la più comune, con la norma
generale, fomentando le dispute sulla fedeltà o meno delle traduzioni.
L’inglese è una lingua che si differenzia dall’italiano per densità espressiva (a parità
di significato occupa meno spazio sulla pagina), per pronuncia, per origini. Perciò, in tal
caso, il concetto di traduzione fedele al testo di origine va visto diversamente. Quando si
traduce dall’inglese all’italiano ci si allontana molto dalla traduzione parola per parola
proprio per restare fedeli all’originale: è giusto che sia così. Tuttavia, in questo caso il
traduttore tende a farsi prendere un po’ la mano, soprattutto quando il testo a fronte non sarà
disponibile e quando considera che la percentuale di persone che conosce bene l’inglese in
Italia si aggira intorno all’uno per cento. In breve, la traduzione dall’inglese all’italiano è
all’insegna di un approccio addomesticante e, essendo l’inglese la lingua più tradotta in
Italia, i criteri per la traduzione di questo idioma sono quelli che maggiormente
contribuiscono alla formazione dei criteri di traduzione del canone italiano. Il modo di
tradurre dalle altre lingue tende quindi a conformarsi a quel canone, che deriva le sue
caratteristiche quasi esclusivamente dall’approccio alla traduzione adottato per l’inglese. Il
risultato è un pullulare di traduzioni addomesticanti in ogni caso e stereotipate
13
nei casi in
cui la lingua di partenza non sia l’inglese.
L’esperienza che io ho dell’analisi delle traduzioni dallo spagnolo all’italiano, mi
porta a pensare che in molti casi è riscontrabile una tendenza diffusa a cambiare l’ordine dei
costituenti del periodo o a usare sinonimi laddove non è necessario. Mi pare che alcuni
12
Op. cit., p. 75 nota 6.
13
Gentzler su Even-Zohar, p. 130.
12
traduttori di lingue affini, sebbene professionisti, tendano a lasciarsi contagiare dalla mania
dei principianti a voler cambiare a tutti i costi per paura di produrre calchi semantici. In
realtà, tale inconveniente capita a tutti i traduttori da lingue affini, ma è scongiurabile
lasciando “stagionare” la prima stesura della traduzione, per poi riprenderla dal punto di
vista del madrelingua.
La traduzione è un lavoro che va affrontato con umiltà. Il traduttore spesso si trova di
fronte un periodo dell’originale un po’ contorto: in questi casi, alcuni pensano che si possa
renderlo scorrevole nella lingua di arrivo, ma bisogna sempre tenere conto delle intenzioni
dell’autore e rispettarle. Per questo, la delusione più grande di un traduttore che adotta un
approccio estraniante, è ricevere una critica sulla tortuosità di una traduzione quando questa
era una caratteristica dell’originale.
Riassumerei la mia posizione dicendo che preferisco avvicinare il pubblico al testo
(approccio estraniante o source oriented), piuttosto che il testo al pubblico (approccio
addomesticante o target oriented), puntando sulla seconda possibilità solo quando è
indispensabile.
Il buon traduttore è quello che viene reputato tale da coloro che lo ingaggiano perché
l’insieme di queste persone, basandosi sugli acquisti del pubblico, crea il canone della
traduzione del momento e se il traduttore non rimane all’interno di questo, non lavora.
Finché i principi del traduttore si accordano con i dettami del canone non ci sono problemi,
altrimenti si trova nella situazione di doversi adeguare controvoglia.
2.1.2. La compensazione
La compensazione è quell’artificio grazie al quale il traduttore può riequilibrare la
perdita di alcune connotazioni dell’originale. Capita spesso di dover tradurre termini che
nella cultura di arrivo non godono di un’equivalenza uno a uno e costringono il traduttore a
giri di parole, perifrasi o omissioni. In questo caso la perdita è riferita al ritmo, ma molte
volte avviene il contrario, e cioè il rispetto del ritmo va a scapito del significato.
Ci sono principalmente due modi per compensare: il più rapido consiste
nell’inserimento delle note a piè di pagina. La nota, in genere, aggiunge una spiegazione
riguardante il significato, il suo intento è quello di non rompere il ritmo della narrazione,
lasciando al lettore la possibilità di scegliere se leggerla o meno. In realtà, anche solo il
13
numerino di rimando della nota impedisce al lettore di immedesimarsi nella lettura, senza
contare che, data la sua presenza e la parsimonia con cui si adottano le note, quando esse
sono presenti, vuol dire che sono indispensabili per la corretta comprensione del testo.
Si può ovviare a tali inconvenienti con la compensazione vera e propria, che consiste
nel far assorbire alla traduzione in un altro punto quella connotazione che non si poteva
trasporre nel momento esatto in cui la presentava l’originale. Si tratta di un espediente che
consiste innanzitutto nel determinare a quale livello del testo bisogna compensare.
Il primo livello in questione è il periodo. Consideriamo ad esempio “El otoño del
patriarca” di Gabriel García Márquez. È un libro scritto in una prosa molto particolare, con
periodi lunghi fino a tre pagine, che a tratti diventano quasi poesia. In questo caso, il ritmo è
fondamentale e il traduttore non lo può trascurare, però incontra nel testo molti termini che
in italiano hanno bisogno di perifrasi, o anche solo l’uso di due parole dove l’originale ne ha
una sola. Per compensare le perdite, ritengo opportuno rileggere il periodo alla ricerca di un
passo che non sia “troppo poetico” per essere cambiato e qui inserire dei termini che
chiariscano, anche solo con degli accenni, la carenza di significato generatasi nel tentativo
di conservare il ritmo. Se risulta impossibile all’interno dello stesso periodo, il traduttore
deve espandere la sua ricerca al paragrafo e se anche qui non trova un punto adatto ai suoi
scopi, deve prendere in considerazione l’intero capitolo. Se, ad esempio, l’autore crea un
gioco di parole che suscita il riso e il traduttore non è in grado di riprodurlo se non a costo di
perderne una parte, deve cercare il passaggio più vicino che presenti una prosa piana per
introdurre la battuta divertente.
La compensazione può sembrare un espediente complesso e addomesticante, ma in
realtà in molti casi avviene automaticamente perché è il contesto a fornire quegli elementi
che chiariscono il significato di un termine sconosciuto.
Per assurdo, si può considerare che i livelli ai quali si può attuare la compensazione
tendano ad infinito. Poniamo, ad esempio, che qualcuno debba tradurre la trilogia dei
racconti fantastici di Italo Calvino in un’altra lingua e supponiamo che Il visconte dimezzato
sia il più divertente dei tre, ma, per una serie di casi fortuiti, l’impressione globale che il
traduttore riesce a conferire a questo libro non sia tale. Non tutto è perduto; se si considera
che è la trilogia ad essere divertente, il traduttore può rifarsi rendendo un po’ più esilaranti
degli originali Il barone rampante e Il cavaliere inesistente, in modo da compensare la
perdita di ilarità de Il visconte dimezzato. Si tratta di un caso limite che trova poche o quasi
14
nessuna applicazione nella realtà, ma lo ritengo interessante perché è un procedimento
simile a quello della teoria dei polisistemi, che indaga analogie e differenze in opere
letterarie distanti nel tempo e nello spazio.
2.1.3. La traduzione come via per il cosmopolitismo
A mio avviso, la traduzione è uno dei principali mezzi per far conoscere e rendere
man mano familiare il diverso proveniente dalle altre culture; per abolire il sentimento
dell’estraneità tra culture diverse. Tuttavia, non credo che la via da percorrere sia quella
della creazione di una lingua ibrida e corrotta da inutili forestierismi, dove per inutili
intendo quei termini che l’italiano prende a prestito dalle altre lingue, pur possedendone
l’esatto equivalente. Ad esempio, trovo inutile e antiestetico l’uso di “weekend” al posto di
“fine settimana” all’infuori della lingua parlata.
Auspico invece che entrino nell’italiano quei termini stranieri che sono intraducibili
per diversità culturale, ma che arricchiscono la lingua perché introducono concetti nuovi.
L’ideale sarebbe poi che i termini in questione rimanessero come sono sia nella grafia che
nella pronuncia, per una forma di rispetto alle loro origini, al contrario di come avviene
nelle culture ispaniche, in cui i termini stranieri vengono prontamente addomesticati e lo
“champagne” diventa “champán”.
Una parte del processo è già avviata: ad esempio, l’italiano ha assimilato una parte
dei termini riguardanti la sfera semantica della corrida proprio in quanto elemento assente
nella nostra cultura.
Rifuggo nel modo più assoluto l’uso di forestierismi nella traduzione e, se nella mia
ve ne sarà traccia, sarà, in certi casi, per fedeltà all’originale in cui il termine compariva già
sotto forma di forestierismo rispetto al testo di partenza
14
e negli altri perché si tratta di un
termine già entrato nell’italiano, come ad esempio “gringo” (scena 1 cap. 5).
Ritengo, insomma, che la traduzione sia una via per il cosmopolitismo;
paradossalmente le tracce di questo lento processo si concretizzano proprio nella negazione
del mezzo attraverso il quale avviene, nell’uso dei forestierismi in quanto termini
intraducibili.
14
Ad esempio ho usato “voce off” invece di “voce fuoricampo”. Il termine in questione appartiene al
linguaggio tecnico cinematografico, che fa spesso ricorso all’inglese sia in Spagna che in Italia, perciò ho ritenuto che
“voce off” fosse la traduzione più fedele per “voz en off”.
15
2.2. La teoria dei polisistemi
2.2.1. Tratti generali
Il concetto di teoria polisistemica venne introdotto per la prima volta nel 1978 nel
libro Papers in historical poetics
15
di Itamar Even-Zohar, studioso israeliano dell’Università
di Tel Aviv, e indicava l’insieme di tutte le forme letterarie di una data cultura. Even-Zohar
basava le sue idee sugli studi dei formalisti russi, in particolare su quelle di Jurij Tynjanov,
16
riguardanti i concetti di sistema, di struttura gerarchica dei sistemi, di straniamento e di
mutazione ed evoluzione letteraria.
Il termine sistema indicava l’insieme di forme letterarie elevate o canonizzate e di
quelle basse o non canonizzate nella lingua originale, all’interno di una data cultura. Il
sistema è gerarchicamente suddiviso in primario, che occupa una posizione centrale
all’interno della cultura data, e secondario, che occupa una posizione periferica. Le opere
già canonizzate, proprio perché di primaria importanza, influiscono sul canone delineandone
man mano i nuovi parametri, mentre la letteratura non ancora canonizzata è costretta a
mantenersi all’interno del canone e ad apparire come stereotipata (concetto di straniamento).
Infine, considerando l’aspetto temporale, Tynjanov sostiene che ogni nuova opera letteraria
all’interno del sistema debba, necessariamente, attuare una decostruzione e una
ricostruzione degli elementi costitutivi per non perdere il proprio carattere letterario. In
breve, un’opera che non si rifaccia alla propria tradizione letteraria, secondo Tynjanov,
resterà sempre d’importanza marginale (concetto di mutazione ed evoluzione letteraria).
17
L’innovazione introdotta da Even-Zohar riguarda l’inclusione della letteratura
tradotta all’interno di quello che lui chiama polisistema, intendendo così significare le
dimensioni più ampie rispetto al concetto di sistema di Tynjanov. Ad esempio, i polisistemi
di culture più antiche e più ampie, come quella angloamericana, differiscono da quelli di
nazioni più piccole o più giovani, come Israele o i Paesi Bassi. I primi, a causa
dell’autosufficienza delle loro tradizioni, tendono a relegare la letteratura tradotta ai margini
15
Hrushovski, Even-Zohar, (a cura di).
16
Gentzler su Tynjanov, pp. 123-129.
17
Ibidem.
16
della società, mentre all’interno dei secondi, per motivi opposti, le traduzioni hanno un
ruolo più centrale.
18
Esistono tre condizioni sociali che determinano una situazione in cui la traduzione
mantiene una posizione primaria: quando una letteratura è giovane, quando è periferica o
debole, quando è in crisi. Nel primo caso, la traduzione soddisfa la necessità di una
letteratura giovane di utilizzare il suo nuovo linguaggio per il maggior numero di tipi di
scrittura diversa (tipico della situazione israeliana). Nel secondo caso, i testi tradotti
fungono da tramite per l’importazione di nuove idee e sono la forma di scrittura più imitata
dagli scrittori della lingua autoctona (tipico della situazione dei Paesi Bassi). Nel terzo caso,
i modelli letterari consolidati non stimolano più la nuova generazione di scrittori che
ripiegano sui testi tradotti per introdurre nuove idee nel sistema letterario del proprio paese,
come avvenne negli Stati Uniti negli anni Sessanta.
19
Even-Zohar analizza poi le modalità di scelta dei testi da tradurre della cultura
ricevente e le modalità di adozione di certe norme e funzioni nei testi tradotti in base al loro
rapporto con il sistema della lingua di arrivo. I testi da tradurre vengono scelti in base a
criteri di compatibilità con le nuove forme di cui un polisistema ha bisogno per raggiungere
una fisionomia omogenea: se sono assenti caratteristiche stilistiche, forme o interi generi
letterari, molto probabilmente i testi che hanno quei requisiti verranno importati. Il modo in
cui la letteratura tradotta influenza le norme di traduzione di una data cultura ha peculiarità
differenti a seconda che la posizione assunta nel polisistema sia primaria o secondaria.
20
Quando il testo è destinato ad assumere una posizione primaria, la sua traduzione
tende verso un approccio estraniante. Se è vero che, in questo caso, il testo rischia di non
integrarsi nel sistema, è anche vero che se si dimostra vincente (i motivi possono dipendere
da fattori culturali, o semplicemente può avvenire che il testo venga più pubblicizzato di
altri), ottiene una posizione centrale all’interno del polisistema e arricchisce il canone invece
di adeguarvisi.
21
Quando il testo è destinato ad assumere una posizione secondaria, la sua traduzione
tende a un approccio addomesticante proprio perché, non potendo arricchire il canone, deve
adeguarvisi per sopravvivere. In questo caso una traduzione estraniante è nociva perché
18
Gentzler su Even-Zohar, pp. 129-140.
19
Ibidem.
20
Ibidem.
21
Ibidem.
17
impedisce al testo di integrarsi nel sistema della cultura di arrivo, mentre una
addomesticante rafforza l’estetica dominante.
22
Nel saggio “Universal of literary contacts”,
23
Even-Zohar elenca tredici universali
derivati dai dati da lui raccolti, il primo dei quali recita: “tutti i sistemi letterari si sforzano
di diventare polisistemici”. Proprio a questo punto sorgono alcuni problemi; l’autore stesso
riconosce che gli universali sono stati formulati sulla base di prove esigue. Ad ogni modo,
Even-Zohar ha fornito i parametri per descrivere le scelte degli approcci alla traduzione
operate all’interno dei vari sistemi; ad altri spetta il compito di rilevare quando la realtà si
discosta dal modello da lui proposto.
La teoria dei polisistemi integra lo studio della letteratura con quello delle forze
socioeconomiche che operano nella storia: il patronato, le condizioni sociali, l’economia e la
manipolazione istituzionale vengono messi in relazione con le modalità di scelta e di
funzionamento delle traduzioni in un sistema letterario.
24
La teoria dei polisistemi è di tipo descrittivo; invece di avere un concetto statico di
quello che dovrebbe essere la traduzione, Even-Zohar varia la sua definizione di
equivalenza e di adeguatezza in base alla situazione storica. Sotto questo aspetto l’utilità che
il traduttore può trarne è evidente: dall’analisi del polisistema di un dato paese può ricavare
esempi sui criteri adottati nelle traduzioni e da tali esempi può estrapolare quali peculiarità
la traduzione deve avere affinché venga accolta con successo nella cultura di arrivo.
Secondo Even-Zohar, un’opera non raggiunge il livello gerarchico più elevato per una sua
bellezza intrinseca ma, in primo luogo, per la natura del polisistema della cultura ricevente e
delle condizioni storiche e socio-letterarie, e, in secondo luogo, per la differenza dell’opera
rispetto alle norme della cultura ricevente.
25
22
Ibidem.
23
Hrushovski, Even-Zohar.
24
Gentzler su Even-Zohar, pp. 129-140.
25
Ibidem.