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PREMESSA
La mia famiglia, nel suo ruolo di agenzia educativa, ha saputo ben allearsi con la mia
scuola di istruzione superiore secondaria favorendo il mio percorso di socializzazione.
Percorso che mi ha consentito di formarmi didatticamente e personalmente al fine di
coronare il mio sogno ossia diventare insegnante. Il mio iter scolastico non è mai stato
facile e i notevoli stimoli che ricevevo, dalle agenzie educative, non risvegliavano in me
interesse e impegno alcuno. Ero come anestetizzata, annoiata, perché tutto mi sembrava
monotonamente uguale ed io mi sentivo sempre più incompresa e sola con le mie
insicurezze/incertezze deformando addirittura la realtà. Insomma, girovagavo come il
viandante islandese alla ricerca di una risposta alle mie domande di senso. I primi anni di
liceo delle scienze umane sono stati, per me, altalenanti tra il minimo e il massimo, tra
l’indifferenza nei confronti di tutte le discipline e l’interesse solo per quelle scientifiche
ovvero quelle che, a mio avviso, erano concrete, pratiche e utili a risolvere con calcoli e
numeri ogni quesito. Con quegli stessi numeri ho, poi, dovuto fare i conti nella mia vita
come quando a scuola, per esempio, ero considerata un numero nel quale non mi
rispecchiavo o come quando, nella sfera sociale ero considerata zero per come apparivo,
ma non per come ero. Il mio è stato un travaglio interiore analogo a quello di S. Agostino
tra i valori culturali, etici e religiosi trasmessi dalla mia famiglia d’origine e dalla scuola,
e i falsi valori, ovvero quelli edonistici finalizzati al piacere e ad una felicità effimera
propostami dalla cultura di massa. Avrei potuto deviare smarrendomi come Dante in una
selva oscura e invece grazie allo sguardo attento di alcuni dei miei educatori, che non
hanno mollato la presa neanche per un attimo, ho scoperto l’universo antropologico e
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sociologico al cui studio, a partire dal quarto anno di liceo, ho iniziato ad appassionarmi
in maniera fattiva e interessata diventando protagonista attiva della mia carriera
scolastica. Il vissuto e le considerazioni personali di alcuni dei sociologi e pedagogisti
studiati, durante il quinto anno di liceo, mi hanno aiutata a riflettere non solo su me stessa
come persona e sull’altro come risorsa, ma anche sull’utilità della cultura in vista di un
futuro progetto di senso facendomi così ritrovare sulla retta via della formazione. Per cui
questo mio bagaglio interiore munito di capacità critica, di un umile sapere, di libri e
penne si prepara ad affrontare la sfida dell’insegnate con l’audace consapevolezza di
dover essere: lungimirante come Leopardi; famelico di nuovi saperi come il Lupo di
Cappuccetto Rosso; paziente come Giobbe per rispettare i tempi di apprendimento di
ciascuno; strategico come l'allenatore di calcio per consentire a ciascuno di esserevincente
senza soffermarsi sui voti che paralizzano e non aiutano ad andare avanti; autentico e
privo di maschera pirandelliana per insegnare con l'esempio ad essere piuttosto che
apparire; in armonia, anche e soprattutto con l’ alunno dalla nota stonata, come il direttore
d'orchestra. Sì, voglio, fare l’insegnante che, come Don Milani, ha a curai suoi ragazzi
come persone e il loro meraviglioso universo tutto da esplorare partendo dal loro contesto
socioculturale, dai loro bisogni al fine di consentire alle loro menti di passare sempre,
ovunque e comunque, da off ad on; non intendo solo trasferire nozioni, non intendo alzare
muri, non intendo considerare l'altro un numero o un contenitore; nonintendo essere
autoritario. Io posso, posso essere l’insegnante e non un’insegnante perché io sono stata
l’alunna.
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INTRODUZIONE
La scelta del mio argomento di tesi “MY WORK: L’ALBERO “STAND UP FOR LIFE:
dalla devianza alla progettualità” è nata da un proficuo connubio tra gli studi svolti per
sostenere alcuni esami del mio piano di studi (sociologia dei processi culturali e politiche
della valutazione, pedagogia della scuola e delle famiglie, sociologia generale), e gli
incipit che ho avuto nel corso del mio impegno lavorativo prima come obiettore di
coscienza e poi come educatore nonché tirocinante consulente presso il centro Socio
Educativo “Il Piccolo Principe”, sito a San Giovanni a Teduccio (NA), che si occupa di
minori a rischio e non, DSA ed immigrati per accompagnarli nel loro percorso di crescita
socio-didattico, culturale e valoriale. Con questo mio lavoro ho cercato di fornire,
attraverso una dissertazione teorica, una rassegna bibliografica sul vasto e
multidisciplinare fenomeno della disuguaglianza scolastica con le sue diverse
sfaccettature. Mi sono proposta di analizzare sotto una luce diversa il concetto che noi
tutti siamo soliti intendere, oggi, con un’eccezione positiva: la meritocrazia. L’intento di
questo elaborato è di mostrare le varie trappole che dietro di essa si nascondono e come
nonostante sia evocata in difesa dell’uguaglianza contro le ingiustizie sia la prima a
condurre a differenze di classe già evidenti all’interno del contesto scolastico e sociale.
Tutte le società tentano di garantirsi la conformità alle norme e ai valori sociali stabiliti,
ma sono sempre esistiti comportamenti, atti, credenze o tratti di una persona che
infrangono tali norme venendo condannati, disapprovati e di conseguenza ritenuti
devianti. Il sociologo francese Pierre Bourdieu, mio compagno sulla strada della
meritocrazia, ha illuminato il mio iter facendomi misurare con il suo pensiero convertendo
il mio sguardo da quotidiano a bifocale (soggetto-oggetto della conoscenza) al fine di
allargare il mio orizzonte mentale sulla quaestio in essere. Bourdieu è stato definito un
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grande sociologo, capace di passare dalla filosofia alla sociologia, ma “mal compreso” per
cui è giusto dire che, probabilmente, anche il mio percorso può apparire incomprensibile
nel suo passare dalla teoria alla pratica mettendo in risalto casi concreti con volti e nomi
per progettare ciò che ancora non è. Non è detto che le riflessioni da me addotte e i rilievi
da me segnalati, nella mia trattazione, siano senz’altro al posto più consono, né che le
teorie e i fatti di cronaca a cui ho fatto riferimento esauriscano tutta la problematica e né
che la stessa possieda requisiti scientifici e specialistici, ma di sicuro ha in sé il
maneggiare con cura la condotta deviante adolescenziale le sue cause, le sue
sintomatologie, i suoi risvolti sociali e le sue strategie preventive. Ogni essere umano,
dunque, strada facendo forma sé stesso divenendo persona, ma nel mentre incontra degli
ostacoli, dei fuori programma, dei problemi che incideranno notevolmente su di lui e al
tempo stesso o lo rafforzeranno nella sua personalità o lo devieranno. Come sottolineato
dal magistrato italiano Alfredo Carlo Moro «È solo uno stereotipo culturale la
convinzione, piuttosto diffusa, che l’infanzia e l’adolescenza costituiscano unairripetibile
fase della vita umana in cui, felicemente, non sono presenti preoccupazioni, angosce e
l’esistenza scorre sempre in un’atmosfera serena e gioiosa, con grande sicurezza e
fiducia nel presente e nell’avvenire»
1
. Dunque, possiamo affermare che in realtà oggi, c’è
un’infanzia, ma soprattutto un’adolescenza problematica che vive con disagio e difficoltà
il suo processo di sviluppo per il suo essere in contestazione con il mondo, in
competizione con i genitori, per l’imitazione di stili, la moda in voga, e, pertanto, va
incontrata e sostenuta. In alcuni casi, però, alle normali difficoltà del processo evolutivo,
si aggiungono situazioni di insufficienze individuali, familiari e sociali che
1
Moro A. C. (2002) Minori in situazioni di disagio, in Cittadini invisibili: rapporto 2002 su esclusione
sociale e diritti di cittadinanza, a cura di W. Nanni, T. Vecchiato, Caritas italiana, Fondazione "Emanuela
Zancan", Feltrinelli Editore, 2002
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mettono molto più a rischio il processo di crescita, facilitando così la trasformazione del
disagio in devianza. Il metodo utilizzato, per questa ricerca, è induttivo, riflessivo ed
argomentativo, volto ad individuare i concetti fondamentali della disuguaglianza sociale
causa di devianza adolescenziale problematizzandoli con storie vissute. «Chiariti gli
assunti di partenza, per meglio intuire come la pedagogia dei saperi approssimi l’ideale
di formazione umana multilaterale è utile circoscrivere l’ambito di problematizzazione e
di azione educativa. Possiamo, in particolare, precisarne, il campo di esperienza, la
prospettiva ermeneutica e un insieme di problemi che essa riconosce come propri»
2
. Il
campo di esperienza a cui la pedagogia dei saperi guarda, come sostiene Bourdieu, è dato
dai luoghi in cui avviene l’incontro tra soggetti e oggetti della conoscenza, mentre la
prospettiva ermeneutica tende a specificare il punto di vista qualificando l’esperienza
educativa in relazione ad essi. Nel mio caso i miei luoghi di esplorazione sono stati il
contesto sociale, familiare e scolastico. Gli attori sociali sono stati gli adolescenti, la
società, le famiglie e le istituzioni scolastiche, mentre gli oggetti sono caratterizzati dalle
teorie sociologiche e non solo, da studi e affermazioni utili in merito. Solo alla fine è
possibile avere una prospettiva ermeneutica che spieghi il fenomeno che conduce alla
devianza e i fatti ad esso correlati. Questo fatto permette a Bourdieu di affiancare l’idea
di pratica scientifica. «Essa richiede di dominare il sapere teoricamente, ma in modo tale
che tale sapere passi realmente nelle pratiche, sotto forma di “mestiere”, di “destrezza”
, di “colpo d’occhio” ossia diciamo noi, di un saper pensare e sapere agire che renda
possibile al soggetto intervenire con competenza all’interno di un certo dominio
scientifico»
3
. La mia spinta propulsiva è stato proprio l’interesse, infatti, per il mio e altrui
2
P. BOURDIEU, il mondo sociale mi riesce sopportabile perché posso arrabbiarmi, nottetempo,
Roma,2004, p 211
3
Ibidem, p. 217
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saper pensare e saper agire sociologicamente parlando sia a livello meritocratico che
valutativo. Ecco l’insorgere delle mie domande iniziali: Chi è il deviante e perché lo è?
Quali sono le conseguenze delle disuguaglianze sociali? La scuola è meritocratica? La
valutazione scolastica è una benedizione o una maledizione? Se e in che modo famiglia e
scuola collaborano per il processo formativo? È possibile una meritocrazia che parta dal
basso? Il tempo è propizio per una nuova scuola? Da Bourdieu ho imparato che lo
sviluppo formativo dell’uomo avviene “nella e attraverso la cultura” e i suoi prodotti. Di
conseguenza ho dato avvio al mio assunto iniziando la prima parte con un approccio alla
sociologia dei processi culturali e con una definizione sulla devianza accompagnata da un
breve e significativo excursus teorico attraverso l’opera di E. Durkheim e della scuoladi
Chicago. È difficile esprimere una definizione di devianza in quanto un atto per essere
considerato deviante deve essere riferito al contesto socioculturale in cui ha luogo. Per la
sociologia il concetto di devianza non è un concetto valutativo, nel senso che non esprime
un giudizio di valore, ma è un concetto osservativo nel senso che si limita a esprimere la
constatazione che quel certo comportamento non segue la stessa linea di quello della
maggior parte della popolazione. Di conseguenza non esistono, nella misura in cui ci si
limita ad osservare i fenomeni sociali, comportamenti buoni o comportamenti cattivi, ma
solo comportamenti che corrispondono alle norme sociali (e che per questo sono detti
conformi) e comportamenti che se ne allontanano (e che per questo sono detti devianti).
Servendomi dello studio del sociologo statunitense Robert K. Merton ho provato a
individuarne le cause, mentre il controllo sociale, introdotto dalla società per tenere “sotto
controllo” il comportamento degli individui e dei gruppi, del sociologo statunitense
Talcott Parsons mi ha indotto a trattare anche le sanzioni che differiscono a seconda se si
tratta della violazione di una norma giuridica o sociale. Per quest’ambito ho fatto appello
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al giurista Cesare Beccaria, alla Costituzione italiana e all’ex magistrato Gherardo
Colombo. Giunge successivamente naturale analizzare la criminalità, come caso
particolare della devianza, finendo per abitare la storia di Matteo Gorelli adolescente
cosiddetto “normale” fino a quando, in preda al raptus dell’omologazione al gruppo,
uccide un carabiniere che lo aveva fermato ad un posto di blocco divenendo un soggetto
criminale e socialmente pericoloso. Il tutto però si è tradotto in un nuovo inizio grazie a
un incontro impossibile sulla carta, quello tra due madri: la madre dell’assassino (Irene
Sisi) e la vedova del carabiniere defunto (Claudia Francardi) che accompagnano Matteo,
supportandolo anche con la comunità Exodus, in un’ipotesi di vita nuova facendolo
germogliare, grazie ai libri e al cammino della riconciliazione, come educatore e
pedagogista. Mi è parso giusto dopo aver delineato i tratti tipici di un soggetto deviante,
come attore sociale, concentrarmi prima sull’aspetto teorico della vittima e poi divulgare,
ancor più, la storia di vittimologia di Arturo Puoti, diciassettenne, che un giorno a Napoli,
in pieno centro, viene accoltellato da un branco di quattro minorenni, tanto da rischiare di
perdere la vita. Insieme a sua madre, prof.ssa Maria Luisa Iavarone, anziché nutrire
sentimenti di vendetta si è armato di quelli della giustizia riparativa che è un nuovo modo
di porsi davanti a chi commette un reato, ma anche a chi lo subisce, in considerazione del
fatto che anche dietro ai reati più terribili vi è una persona da incontrare e da recuperare
socialmente perché figlio di un re minore. Infatti, hanno trasformato la loro battaglia
personale in una battaglia civile per l’evoluzione culturale della società evitando
un’analisi meramente superficiale della drammatica vicenda. Nella seconda parte, alla
luce dei casi esaminati, mi sono inevitabilmente interrogata su come prevenire tali
situazioni di devianza a partire dalle prime agenzie educative di socializzazione e
formazione quali la scuola e la famiglia. Ho avviato il discorso in tal senso partendo