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Introduzione
All‟origine del presente lavoro vi è un incontro: la scoperta di un
popolo che senza clamori, lontano dalle luci della ribalta, si è ritagliato
uno spazio vitale nel vasto panorama etnico che contraddistingue il
territorio italico. Stiamo parlando degli arbëresh, popolazione di origine
balcanica migrata, a partire dal XV secolo ed in ondate successive sino al
XVIII, dall‟Albania verso il Mezzogiorno d‟Italia. Al giorno d‟oggi si
contano poche decine di comunità la cui popolazione è costituita
interamente dall‟etnia arbëresh; molto più numerosi i casi in cui gli
arbëresh si sono mescolati agli italiani. In entrambi i casi, la maggiore
diffusione si ha nel Meridione, con punte di rilievo in Sicilia, Calabria e
Basilicata.
L‟incontro di cui dicevamo è avvenuto in maniera del tutto
fortuita: una delle tante manifestazioni estive in cui l‟originalità delle
tradizioni locali viene offerta a turisti (pochi) ed emigranti (la maggior
parte) tornati per una settimana nella terra natia.
Quel „poco‟ offerto dai locali in una serata di fine agosto era un
„poco‟ antico, e conservava le fragranze delle aspre montagne albanesi
che somigliano a quelle del nostro sud, dove l‟assenza degli splendidi
laghi alpini e delle suggestive cime montuose è largamente compensata
dalla presenza di genuine tradizioni agresti, quasi uno squarcio nel
passato a ricongiungerci con tradizioni remote e riti in disuso.
Colpirono la nostra immaginazione soprattutto la musica e la
danza, e di ciò tenteremo di dar conto nel corso della trattazione.
Quell‟incontro ci è sembrato fosse opportuno fecondare con uno
studio dedicato, facendo tesoro quanto più possibile di quell‟invito
all‟ospitalità, all‟accoglienza, che da tempo viene invocato come
elemento fondante di una cultura del dialogo e dell‟ascolto alternativa ad
una prassi fatta di guerra e di conflittualità.
L‟argomento si presenta vasto, fuorviante, destabilizzante. Ci
siamo subito posti una semplice domanda: siamo in grado di abbracciare
questa complessità, queste complessità, in un‟analisi che conduca infine
alla sintesi? Siamo in grado di portare avanti una ricerca che vede
intrecciarsi tra di loro almeno tre discipline: semiotica, musica ed
etnomusicologia? Abbiamo la freddezza di amministrare il discorso in
modo che il dialogo prevalga sulle ragioni delle singole discipline, in
nome non di un precetto scientifico ma di un rispetto e un affetto per
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l‟oggetto della nostra trattazione? D‟altro canto, crediamo ad Annie
Brisset quando asserisce che “la traduzione costituirebbe l‟esperienza
cognitiva dell‟alterità par excellence” .
Ha prevalso la convinzione di seguire la via del caos e
dell‟ospitalità. Crediamo che il disordine, il „caos‟ di Morin, possa essere
più fecondo ed innovativo di un qualsiasi percorso pianificato, e che un
atteggiamento aperto e disinteressato, predisposto all‟ospitalità, sia alla
lunga la soluzione più naturale e spontanea anche in questa società
occidentale pervasa da una febbrile tensione alla cancellazione del
passato (tradizione e storia), ossia all‟autodistruzione .
Abbiamo intrecciato il dialogo partendo dall‟ascolto musicale,
via via filtrato attraverso gli scritti di Barthes e Ponzio, Petrilli, Bachtin.
Il precipitato è stato offerto al confronto di chi, come l‟etnomusicologo
Nicola Scaldaferri, vive, lavora, fa musica e ricerca all‟interno di una
comunità arbëresh. Non abbiamo tralasciato il parere di musicisti Glenn
Gould, il cui originale parere trova fondamento ed affidabilità nella
larghissima fama che ha avuto in vita come musicista e musicologo.
Ci sentiamo di ringraziare in qualche modo gli arbëresh, che
rimangono sullo sfondo a custodire anche per noi questo „piccolo‟
patrimonio, difendendolo dalle scorrerie che la società dei consumi e del
turismo di massa periodicamente, ma sempre troppo spesso, compie nelle
loro terre e nelle loro tradizioni.
Quello che sembra un nostro atto di apertura, di ospitalità, in
realtà costituisce la possibilità di rivivere un‟epoca che non è più la
nostra, l‟epoca dei nostri padri, dei nostri nonni e ancora più indietro.
Non solo i costumi, le melodie, i riti, i cibi: ci viene offerta la possibilità
di immergerci in un sistema di relazioni umane che attualmente solo la
letteratura (da Pasolini a Rigoni Stern) ci permette di visitare. In ciò,
crediamo, consiste il senso di questa nostra visita agli arbëresh.
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I- PERCHÉ COME TRASCRIVERE LA MUSICA ETNICA.
1. Il linguaggio, la scrittura, ed il gioco del fantasticare
La semiotica non considera il linguaggio come una funzione
comunicativa. Secondo la definizione di A. Ponzio, il linguaggio è
una procedura specie-specifica di
modellazione/simulazione/costruzione di più mondi che, grazie alla
scrittura - non intesa come trascrizione della phoné – permette il
gioco del fantasticare. Il parlare è cosa diversa dal linguaggio,
innanzitutto perché ha una funzione primariamente comunicativa,
in secondo luogo perché non esisterebbe senza la procedura di
modellazione che il linguaggio stesso è. D‟altro canto, non è il
parlare ad avere l‟esclusiva della funzione comunicativa: prima del
parlare stesso vi è sia una forma di comunicazione non-verbale,
che una semiosi con il mondo e con gli altri, come sottolinea S.
Petrilli.
Gli equivoci presenti nelle considerazioni circa il linguaggio
persistono anche per ciò che concerne il concetto di scrittura, la
quale viene semplicisticamente identificata con la trascrizione del
parlato o come mnemotecnica: ogni forma di arte segnica umana è
fondamentalmente scrittura. In questo senso, linguaggio e scrittura
sono complementi dello stesso sistema. L‟uomo - ma il concetto va
esteso anche a tutto il regno animale – costruisce un proprio
mondo, ossia attribuisce alla realtà circostante percepita un
determinato senso. Caratteristica peculiare dell‟essere umano è la
capacità di attribuire una pluralità di sensi alla realtà circostante,
costruendo di fatto una pluralità di mondi possibili
Ci sembra interessante incrociare la ricerca semiotica con gli
studi sull‟apprendimento neonatale di Imbasciati e Calorio laddove
consideriamo la realtà esterna nel momento in cui diventa
elemento fondante del processo di modellazione che è la scrittura.
I nostri sensi infatti non sono indipendenti, secondo Calorio e
Imbasciati, da ciò che la nostra mente è: in altri termini, poiché un
neonato e un adulto hanno una mente sviluppata in gradi differenti,
di fronte alla stessa realtà esterna le due elaborazioni mentali
saranno del tutto differenti.
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2. Oralità. Orature – Oraliture
Uno degli elementi in comune alla quasi totalità delle culture
tradizioni del mondo è senz‟altro costituito dalla pratica del raccontare,
ciò che in qualche modo ratifica l‟opinione degli studiosi secondo i quali
esisterebbe una sorta di invisibile trama atta ad unire, collegare, mettere
in relazione le varie etnie, le più diverse e lontane tradizioni, lontane
nello spazio e nei modi. L‟originalità di questo aspetto consisterebbe
nell‟agire, la supposta trama, secondo modalità del tutto diverse dai
modi in cui, per esempio, si realizzano le relazioni nell‟Occidente
civilizzato e caratterizzato dalla forte ingerenza delle leggi di mercato. In
altri termini, le culture tradizionali rivelerebbero una autenticità
irrealizzabile all‟interno delle culture investite dai processi di
globalizzazione. La società globalizzata, infatti, si mostra alienata dalle
proprie radici e dai propri contenuti, sacrificati in nome di una idea di
“progresso” che troppo spesso serve a celare un‟idea di “vantaggio”, per
pochi ovviamente.
A tal proposito S. Petrilli rimarca come
[La società globalizzata] subalterna com‟è al mercato
mondiale e alla mercificazione generale dell‟attuale forma
sociale di comunicazione-produzione, presenta, come suo
carattere essenziale, l‟omologazione, il livellamento delle
differenze. Ciò dà luogo, per compensazione, a illusorie
identità, a individualismi, a separatismi e a egoismi,
individuali e comunitari, che sono complementari alla
competitività, al conflitto e all‟esclusione reciproca (Petrilli,
2005: 157).
Se il commercio globalizzato è in grado di offrire una identità, è
pur vero che si tratta di un prodotto con tutte le caratteristiche che lo
contraddistinguono, ossia l‟essere un modello preconfezionato e
standardizzato. Esso cioè solo apparentemente soddisfa l‟esigenza di
identità, anzi potremmo dire che tale bisogno viene soddisfatto in maniera
del tutto illusoria, con la conseguenza che l‟altro, l‟alterità che è parte
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integrante della identità e ad essa si oppone per esigenza per così dire di
bilanciamento, è illusorio allo stesso modo in cui lo è la pseudo-identità.
Se la realtà arbëresh, in qualità di esponente di quel vastissimo
mondo fatto di culture basate sulla tradizione, ha saputo trovare il modo
di perpetrarsi facendo a meno dei vettori comuni alla società
occidentalizzata, se è riuscita ad eludere, a schivare, i continui tentativi di
aggressione commerciale e culturale, senza possedere senza aver mai
tentato di produrre una lingua scritta, ciò è stato possibile in virtù di una
antichissima e viva tradizione orale, laddove la pratica del raccontare,
largamente utilizzata all‟interno delle piccole comunità, è in grado di
unire entità lontane, di valorizzare l‟alterità, di costruire ponti, e, in una
sola parola, creare l‟accoglienza cui fa riferimento S. Petrilli:
Esso [il raccontare] non solo favorisce l‟incontro e la
reciproca comprensione tra i differenti popoli, ma sussiste
proprio in quanto tale, cioè in quanto è strutturalmente e
geneticamente fatto del mettere in comune, in un rapporto
dialogico basato sull‟ospitalità, anche tra le lingue e tra i
generi discorsuali, e sull‟interessamento per l‟altro (Petrilli,
2005: 158).
La pratica del raccontare offre un ulteriore aspetto che risulta
caratterizzante per le culture che ne hanno ancora viva l‟usanza: il
contenuto del racconto, la trama, il fatto esposto, non è sempre la cosa più
importante. Il raccontare infatti è una sorta di modo di vivere, un atto di
comunione, di convivialità, di intrattenimento. L‟anziano arbëresh che
racconta/canta Jëma Shën Mitrit (la Madre di Ottobre) (v. fine del
presente capitolo, e trascrizioni musicali) „offre‟ il proprio contributo
agli altri, i quali se ne nutrono in maniera analoga a quanto avviene,
secondo Petrilli, a tavola:
Come la fiaba, il piatto travalica il semplice bisogno
di cibo esprimendo, nel modo in cui è preparato, nel modo in
cui è servito a anche nel modo in cui è consumato, il
desiderio nei confronti dell‟altro di coinvolgerlo e renderlo
partecipe: il piacere del piacere altrui (Petrilli, 2005: 166).