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CAPITOLO 1: L’AUTISMO
1.1 Definizione ed epidemiologia
Se applichiamo i nostri schemi mentali, ci è quasi impossibile capire cosa avviene nel mondo di un
soggetto artistico. Sin da quando siamo bambini il nostro pensiero segue un processo evolutivo e di
adattamento che gli artistici non sono in grado di compiere. Le ragioni sono sin ora sconosciute o
controverse. Si possono però fissare due punti: l’autismo è un processo di adattamento non
compiuto, l’autismo è una forma di ritiro.(M.Klonovsky 1995)
Con il termine autismo ci si riferisce infatti a un comportamento gravemente disturbato la cui
caratteristica principale è la grave incapacità a entrare in relazione con gli altri.
In altre parole il termine riguarda un alterazione del comportamento, ne più ne meno di come il
termine ritardo mentale si riferisce a un comportamento in cui innumerevoli capacità
cognitive,sociali, linguistiche sono rimaste a livelli inferiori rispetto all’età cronologica della
persona. Viceversa nell’ uno e nell’ altro caso la diagnosi della natura ultima del disturbo
neurobiologico del singolo soggetto è ancora controversa.(M.Zappella 1998)
Alla base dell’autismo infatti vi è un’alterazione neurobiologica che può essere di diversa natura da
casao a caso e che per una parte dei soggetti, corrisponde a sindromi neorologiche conosciute , per
altri a disgenie cerebrali di varia natura e in altri ancora la sua ultima origine è oscura.
Per quanto riguarda la prognosi è abbastanza severa, solo in certi casi può essere transitorio, durare
mesi o anni e poi anche spontaneamente dissolversi:spesso però in questi soggetti rimangono con
altre disabilità di varia natura. Nella maggior parte dei casi si stima che solo l'1-2% raggiungerà la
normalità, mentre il 10% riuscirà a progredire e a raggiungere un'autonomia dalla famiglia, il 25-
30% mostrerà dei progressi ma avrà bisogno di essere sostenuto e controllato, mentre gli altri
rimarranno gravemente disturbati e totalmente dipendenti.
La prognosi dipende anche dalle capacità intellettive e verbali manifestate dal paziente (Pavone
1998) .Il mutismo è l’indicatore migliore di una prognosi sfavorevole. I bambini che non parlano o
utilizzano solo un ristretto numero di parole, hanno meno probabilità di miglioramento rispetto ai
bambini le cui capacità linguistiche hanno subito una regressione in risposta a specifici eventi
esterni traumatici, come la nascita di un fratello. Inoltre è stato dimostrato che i bambini con Q.I.
più basso hanno la prognosi peggiore.(M.Fordham 2003)
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Negli ultimi decenni si è notata una considerevole modificazione nei risultati ottenuti con gli studi
di prevalenza.
Diverse valutazioni di questo genere su soggetti con autismo o condizioni autistico-simili in età
evolutiva condotti negli anni Sessanta da Lotter e Settanta da Brask e Wing indicavano valori tra
loro simili che erano attorno al 4 per 10.000. In studi successivi questi valori sono apparsi più alti,
al punto che alla fine degli anni Ottanta e all’inizio dei Novanta i risultati si spostavano sul 10 per
10.000 o poco più secondo gli studi di Bryson, Sugiyama, Abe pur con alcune variazioni da un
Paese all’ altro.
Interessante è l’aumento della prevalenza dei soggetti con autismo o condizioni autistico-simili
osservato in Svezia da Gillberg e dal suo gruppo in tre studi successivi, condotti nella stessa regione
del sud della Svezia, facente capo a Gòteborg: uno studio del 1984 dava valori del per 10.000, uno
successivo li alzava a 7,5. Gillberg et al. nel 1991 stimavano che la presenza di autismo nella
popolazione raggiungeva i valori di 11,6 per 10.000. Nel cercare di spiegare questo aumento veniva
messa in evidenza la presenza di un gruppo di immigrati da aree geografiche lontane, dall’Asia e
dall’Africa, che sarebbe numericamente molto esiguo all’interno della regione dove avveniva
questo studio, ma che comprendeva al suo interno un alto numero di bambini con autismo: in altre
parole l’aumento di autistici nell’ultima valutazione era in gran parte da attribuirsi a questi
immigrati afro-asiatici. Gillherg e colleghi avanzavano in proposito l’ipotesi di rare malattie che
potrebbero essere presenti in questo piccolo gruppo di immigrati. (M.Zappella 1998)
Sulla base dei dati attualmente disponibili una prevalenza di 10 casi per 10000 sembra la
stima più attendibile almeno secondo gli studi effettuati da Fombonne nel 2003 e da Volkmar e
colleghi nel 2004. Tale dato confrontato con quelli riferiti in passato ha portato a concludere
che attualmente l’autismo è 3-4 volte più frequente rispetto a 30 anni fa. Secondo la
maggioranza degli Autori (Fombonne, Baird , Prior..) questa discordanza nelle stime di
prevalenza sarebbe dovuta più che ad un reale incremento dei casi di autismo ad una serie di
fattori individuabili in: maggiore definizione dei criteri diagnostici, con inclusione delle forme più
lievi; diffusione di procedure diagnostiche standardizzate; maggiore sensibilizzazione degli
operatori e della popolazione in generale;aumento dei Servizi (anche se ancora decisamente
inadeguati alla richiesta, sia quantitativamente che qualitativamente.( F.Nardocci 2007).
Considerando la variabile sesso, si può notare da diversi studi una prevalenza maschile. L’eccesso
di maschi artistici rispetto alle femmine era stato già osservato da Kanner e Asperger, ed è oggi un
dato ben consolidato. L’eccesso di maschi che si ritrova in maniera cosi costante in tutti gli studi e
la scarsità di femmine ai livelli medi e alti di capacità sembrerebbero essere indizi “tipici”
dell’origine biologica dell’autismo.
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Va notato peraltro che nelle femmine la gravità della disabilità è spesso maggiore. Vi sono alcuni
studi che suggeriscono una prevalenza di primi e di ultimi nati ed è probabile che ciò sia collegato
al fatto che avere un bambino con tale disabilità scoraggi i genitori ad averne altri.(U.Frith 2002)
1.2 L’autismo nel corso della storia
La storia dell’autismo, anche se relativamente breve, è stata oggetto di numerose ricerche che
hanno dato il via ad una vasta letteratura su questo argomento. In poco più di cinquant’anni si sono
trovate alcune risposte al perchè di questo disturbo dello sviluppo ma si è dato anche il via a
numerosi miti che continuano a fondare le convinzioni di molti professionisti che si occupano
di persone affette da autismo. Gli autori che si sono cimentati in descrizioni varie
dell’autismo, con ipotesi e teorie più o meno serie, non si contano. Per evitare di dare delle
interpretazioni anacronistiche dell’autismo bisogna quindi situare in un contesto storico
l’evoluzione delle ricerche in questo settore.(G.Bernasconi 2001)
La prima persona a parlare specificatamente di autismo o più precisamente di Disturbo autistico fu
Leo Kanner nel 1938.
Kanner pubblicò il suo articolo intitolato “Disturbi autistici del contatto affettivo” nella rivista
“NERVOUS Child” << a partire dal 1938 – scrive infatti Kanner- è venuto alla nostra attenzione un
certo numero di bambini la cui condizione differisce in modo cosi netto da qualsiasi altra cosa…che
ciascun caso merita…di essere considerato in modo dettagliato nelle sue caratteristiche affascinanti
>>.
Kanner passò poi a presentare dei vividi quadri di undici bambini affetti secondo lui da tale
condizione.(U.Frith 1989)
Nel 1943, adottò ufficialmente il termine di autismo per indicare la Sindrome da lui osservata in
questi bambini che chiamò autismo precoce infantile.
Kanner descrisse i suoi piccoli pazienti come tendenti all'isolamento, "autosufficienti", "felicissimi
se lasciati soli", "come in un guscio", poco reattivi in ambito relazionale. Alcuni apparivano
funzionalmente muti o con linguaggio ecolalico; altri mostravano una caratteristica inversione
pronominale (il "tu" per riferirsi a loro stessi e l' "io" per riferirsi all'altro), facevano cioè uso dei
pronomi così come li avevano sentiti.
Molti avevano una paura ossessiva che avvenisse qualche cambiamento nell'ambiente circostante,
mentre alcuni presentavano specifiche abilità molto sviluppate isolate (memoria di date,
ricostruzione di puzzles, ecc.) accanto però ad un ritardo generale. ( L.Kanner 1943).
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Kanner fece delle riflessioni anche attorno ai genitori dei bambini con autismo, che gli sembrarono
freddi, intellettuali e poco interessati alle persone.
Quasi contemporaneamente, anche Asperger utilizzò un termine simile, autistichen psychopathen,
per descrivere altri pazienti da lui osservati sorprendentemente simili anche nella sintomatologia a
quelli descritti da Kanner.
Come Kanner ma del tutto indipendentemente da lui Asperger suggerisce che vi sia un ‘dsturbo di
contatto a qualche livello profondo degli affetti e/o degli istinti . Entrambi mettono in evidenza le
caratteristiche della comunicazione e le difficoltà nell’ adattamento sociale dei bambini autistici ,
entrambi prestano un’attenzione particolare alle stereotipie dei movimenti e al quadro sconcertante
assolutamente non uniforme dei loro successi intellettivi. Entrambi sono colpiti da momenti di
eccezionale prodezza intellettiva in aree ristrette.
Egli notò tuttavia tre importanti differenze rispetto a Kanner : 1) riguardo il linguaggio la presenza
di un eloquio scorrevole; 2) riguardo la motricità la difficoltà nell'esecuzione di movimenti
grossolani e non di quelli fini come affermava Kanner; 3) riguardo la capacità di apprendere,
Asperger definiva i pazienti "pensatori astratti", mentre secondo Kanner essi apprendevano meglio
in maniera meccanica. (F.Nardocci 2003)
A causa di ciò si configurarono due quadri diagnostici differenti: l'autismo di Kanner e la Sindrome
di Asperger, anche se la somiglianze tra le due posizioni sono talmente notevoli che più tardi, nel
1994, Happé si chiede se per caso la Sindrome di Asperger non sia piuttosto un'etichetta per tutte le
persone autistiche con QI relativamente elevato.
Tra gli autori che hanno seguito l’ipotesi avanzata da Kanner, sulle cause psicogene dell’autismo,
Bettelheim fu senza dubbio uno di quelli che impostò il suo lavoro basandosi principalmente su
questa interpretazione. I deficit della persona con autismo, per Bettelheim, non erano quindi
organici ma venivano innescati come reazione alla mancanza di amore e di attenzione che i
genitori portavano al figlio. Questi bambini si ritiravano allora in una forma di isolamento
che li proteggeva dalle influenze esterne.
Bettelheim ha molto influito nel promuovere questa teoria coniando il termine di “madri-
frigorifero” per designare la freddezza e il distacco con cui le mamme di bambini autistici si
occupavano dei loro figli.
Nel 1967, anno in cui Bettelheim scrisse “La fortezza vuota”, la mancanza di ricerche e di
metodi scientifici per comprendere l’autismo avevano contribuito al diffondersi di numerosi
libri farciti di interpretazioni un po’ ingenue e prive di fondamento. Già nel medioevo
quando nasceva un bambino deforme o con evidenti problemi, la colpa veniva data alla donna
che, secondo le credenze dell’epoca, aveva“peccato” prima della gravidanza.
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Bettelheim ed altri autori di quel tempo hanno in fondo riproposto una teoria che ricorda il
modello medioevale. In una società prevalentemente maschilista era naturale che le cause di
un disturbo dei figli venisse attribuito ad una interazione con la madre.
Bettelheim sostenne che il proprio figlio avrebbe percepito nella madre un desiderio reale o
immaginario di annullamento nei suoi confronti, o perlomeno che non fosse mai esistito. Questa
percezione avrebbe fatto precipitare il bambino in una paura di annientamento totale da parte del
mondo, rappresentato interamente per il bambino piccolo proprio dalla madre: l'autismo
scaturirebbe come meccanismo difesa da tutto ciò.(B.Bettelheim 2001)
Pur restando sempre alla base del modello psicodinamico, questo concetto subì delle modifiche in
relazione ai sempre crescenti indizi che sembravano implicare un substrato di tipo biologico nella
Sindrome.
Già nel 1959 Goldstein propose infatti di considerare l'autismo come un meccanismo di difesa
secondario ad un deficit organico, paragonabile a quelle reazioni di pazienti cerebrolesi che
sembrano espressione di meccanismi di protezione messi in atto passivamente allo scopo di
salvaguardare l'esistenza del malato in situazioni di pericolo e di angoscia insopportabili.
A partire dagli anni '60 il modello psicodinamico fu sempre più accusato di colpevolizzare
ingiustamente i genitori dei bambini con autismo. Questi ultimi, infatti, non mostravano tratti
patologici o di personalità significativamente diversi dai genitori di bambini non affetti da autismo.
Fu Rimland, direttore dell'Autism Research Institute, il primo a sostenere in modo sistematico che
la causa della Sindrome autistica non fossero i genitori, ma che il disturbo avesse piuttosto una base
organica. (G.Lanzi e A.C.Zambrino 1999)
Ne scaturì l'approccio organicista, che cercava d'individuare alterazioni morfologiche e funzionali
alla base della Sindrome. Nonostante la varietà di elementi raccolti congruenti con quest'ipotesi,
non ne è stato ancora isolato uno in particolare che possa essere considerato come caratteristico di
tutte le forme di autismo, tanto che attualmente si è portati a credere che non esista un "unico
autismo", ma che in questa categoria siano invece comprese diverse patologie e manifestazioni
sintomatiche provocate da diverse cause organiche.
Il concetto di autismo ha subito nel corso di mezzo secolo notevoli modifiche, come il passaggio da
un'unica Sindrome, che poteva variare lungo un continuum di gravità crescente, ad uno spettro di
disturbi indicante manifestazioni di sintomi molto diverse.
Ma il cambiamento più rilevante lo si può vedere confrontando le categorie di classificazione del
disturbo utilizzate attualmente dai manuali diagnostici con le precedenti versioni. Precedentemente
l'autismo infatti era compreso tra le psicosi precoci (ad insorgenza prima dei tre anni). Nella nuova
classificazione internazionale, invece, l'autismo è compreso nei disturbi dello sviluppo, con una
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componente organica altamente probabile, anche se non ancora individuata con sicurezza.
Data l'alta variabilità delle manifestazioni comportamentali ad esso associate, la classificazione del
disturbo è divenuta più generale. Nel 1987 per questo motivo già nel DSM III-R, in relazione al
modello di Wing e Gould, venivano distinte tre principali aree di alterazione comportamentale:
interazione sociale, comunicazione e repertorio di interessi.
Ancora oggi l'eziologia dell'autismo resta comunque perlopiù sconosciuta ed è per tale motivo che i
due manuali diagnostici più utilizzati seguitano a basare i criteri di riconoscimento su indicatori
comportamentali.(R.Grassi articolo online)
1.3 La diagnosi
1.3.1 Dal DSM III al DSM IV
L’evoluzione dell’autismo può essere seguita prendendo in considerazione i criteri diagnostici
sull’autismo confrontando tra loro quelli presi in esame successivamente dall’American Psychiatric
Association dal 1980 al 1994 nelle varie edizioni del suo Diagnostic and statistic Manual of Mental
Disorders (DSM III, DSM R, DSM IV).
Nel DSM III (1980) i criteri diagnostici per l’autismo erano basati sui seguenti punti:
a) esordio prima dei 30 mesi d’età;
b) carenza globale di reattività nei confronti delle altre persone; e) deficit grossolani nello sviluppo
del linguaggio;
d) se v’è la capacità di parlare, presenza di modi particolari del discorso, come ecolalia, linguaggio
metaforico, inversione dei pronomi;
e) resistenza ai cambiamenti, interesse particolare o inusuale per oggetti;
f) assenza di deliri e allucinazioni.
Il DSM III R (1987) si articola in tre aree. La prima è centrata sulla menomazione qualitativa della
interazione sociale reciproca, articolata su:
1. marcata mancanza di consapevolezza della esistenza dei sentimenti degli altri;
2. nessuna ricerca o ricerca anomala di sollievo nei momenti di disagio;
3. capacità nulle o ridotte di imitazione;
4 assente o anomalo gioco sociale;
5 . grossolana menomazione nelle capacità di fare amicizia coi coetanei.
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La seconda area riguarda la menomazione qualitativa nella comunicazione verbale, non verbale e
immaginativa, basata su:
6 nessuna capacità di comunicazione, come espressioni del viso, gesticolazione mimica;
7. comunicazione non verbale marcatamente anormale;
8. assenza di attività immaginative;
9 . marcate anomalie nella produzione del discorso per il volume, la cadenza , il ritmo,
l’intonazione;
10. marcate anomalie nella forma e nel contenuto del discorso, come ecolalie uso del “tu” invece di
“io”, espressioni irrilevanti o bizzarre;
11 marcata menomazione nella capacità di iniziare o sostenere una conversazione
La terza area si riferisce a una marcata limitazione nel repertorio di attività e interessi con:
12. movimenti stereotipati del corpo;
13. persistente occupazione con parti di oggetti;
14. disagio in occasioni di banali cambiamenti dell’ambiente;
15. insistenza esagerata nel seguire alcune routine;
16. interessi particolarmente ristretti.
Per la diagnosi di autismo venivano richiesti 8 dei punti elencati, dei quali almeno 2 appartenenti
alla prima area, e uno per ognuna delle altre due.
In uno studio statistico successivo (Siegel et al. 1989) hanno trovato che fra questi punti i più
significativi sarebbero il punto primo e il 14. (M.Zappella 1998)
I criteri diagnostici dell’autismo vengono ora illustrati nel DSM IV ("Diagnostic and Statistical
Manual of Mental Disorders- Fourth Edition", manuale diagnostico dei disturbi psichiatrici
dell'American Psychiatric Association). In questo manuale quando si parla di autismo si utilizza il
termine tecnico “Disturbo autistico”.Il disturbo fa parte di una categoria più generale, i Disordini
generalizzati dello sviluppo (o Disordini pervasivi dello sviluppo), e viene diagnosticato in base alla
presenza di un certo numero di indicatori comportamentali presenti in ognuna delle aree dello
sviluppo. I criteri diagnostici del DSM IV (1994) appaiono di una maggiore completezza e
precisione rispetto ai precedenti:
Il primo punto, indicato come alterazioni qualitative della interazione sociale, è distinto in quattro
elementi ulteriori:
a) una grave alterazione nell’uso di comportamenti non verbali come lo sguardo reciproco, le
espressioni facciali, le posture corporee e i gesti che regolano l’interazione sociale;
b) l’incapacità a formare relazioni con i coetanei in maniera adeguata al livello mentale;
c) un’incapacità a condividere interessi e momenti gioiosi con gli altri;
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d) una mancanza di reciprocità sociale o emozionale.
Il secondo riguarda alterazioni qualitative nella comunicazione ed è suddiviso in:
a) ritardo o assenza del linguaggio verbale (non compensato da gesti o espressioni mimiche);
b) grave alterazione nella capacità di iniziare o sostenere una conversazione (nei soggetti con
linguaggio adeguato);
c) uso ripetitivo o stereotipato della conversazione;
d) mancanza di giochi spontanei di finzione e di iniziative sociali di gioco adeguate all’età mentale.
Il terzo si riferisce a comportamenti, interessi attività ripetitive , ristrette e stereotipie come:
a) un’intensità o una focalizzazione esagerata su uno o più schemi di interessi ristretti;
b) un insistere su rituali o routines non funzionali;
c) manierismi motori ripetitivi;
d) preoccupazione persistente con parti di oggetti.
Per la diagnosi di autismo si richiedono almeno due elementi della prima categoria, uno della
seconda e uno della terza: almeno sei in tutto. A questo si aggiunge una anomalia della funzione di
almeno una di queste tre aree prima di tre anni. (APA 2002)
La mancata reciprocità sociale ed emozionale rappresenta uno dei punti di maggiore interesse.
Tuttavia se il modo di rivolgere l’attenzione ed i comportamenti sociali verso le persone sono
carenti ciò non significa un’assenza totale di relazioni. Infatti anche i bambini artistici reagiscono a
una persona, si girano verso di lei, la avvicinano ma questi comportamenti sono meno frequenti
rispetto ai bambini normali. Sono comportamenti più brevi e meno integrati in un insieme coerente
di segnali sociali, i quali permettono il mantenimento dell’interazione (M.L.Semeraro 2006).
Per quanto riguarda il secondo criterio ovvero la comunicazione alterata è interessante analizzare i
rapporti tra gesti e parole. Gli studi che si sono occupati di indagare lo sviluppo comunicativo
gestuale dei bambini con autismo hanno mostrato che questi bambini sanno esprimere richieste
relativamente ad oggetti, azioni e routine sociali attraverso i gesti come l’indicare, il dare e le azioni
ritualizzate. Questi stessi gesti però non vengono usati con intenzione dichiarativa, anche se come
Baron Cohen ha mostrato, i bambini sono in grado di comprendere la direzione dello sguardo degli
adulti.Molto pochi sono i lavori che hanno preso in considerazione gesti diversi dall’indicazione, a
questo proposito Milone e collaboratori nel 1995 in uno studio su bambini italiani riportano
l’assenza di alcuni gesti comunicativi convenzionali come CIAO e NO come caratteristica dei
bambini con autismo.(S.Vicari, M.C.Caselli 2002)
Per quanto riguarda la conversazione e la capacità linguistiche, di recente Helen Tager- Flusberg ha
fornito un resoconto preliminare di un raro studio longitudinale sull’acquisizione del linguaggio nei
bamini artistici. Nei bambini piccoli normali, in quelli con Sindrome di Down e negli autistici era
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presente lo stesso ordine di comparsa di tutta una vasta gamma di strutture sintattiche e di aspetti
della morfologia grammaticale. Tuttavia gli artistici avevano una gamma più ristretta di strutture
grammaticali ed usavano un linguaggio più ripetitivo e stereotipato.(U.Frith 2002)
Molto simile è la recente definizione di autismo fornita dall’ICD 10 (1995) che parla, inoltre, di
autismo atipico e di sindrome disintegrativa dell’infanzia di altro tipo.
Nel caso in cui i sintomi dell’autismo siano presenti in maniera incompleta o atipica il DSM IV
parla di disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati (compreso l’autismo atipico).
Questa dizione e il concetto di pervasività che lo sottende sono stati criticati da un gruppo di
numerosi studiosi europei e nordamericani come Baird nel 1991 :il termine “pervasivo” implica la
particolare estensione di un processo e non è adeguato a definire un’intera categoria di soggetti,
diversi dei quali hanno delle notevoli abilità in vari settori. In proposito basta pensare ai soggetti
autistici con QI che è vicino alla norma o rientra in questa. In secondo luogo il termine autismo è
entrato nel comune linguaggio in tutti i Paesi del mondo e non si vede per quale ragione debba
essere sostituito con una terminologia che appare, inoltre, inadeguata. In effetti l’evidenza dei fatti,
indica che far uso di categorie più precise come di sindrome autistica completa, parziale o di tratti
autistici ha una maggiore utilità per inquadrare il singolo caso anche sul piano prognostico.
Queste più recenti definizioni hanno ampliato il campo dell’autismo e forse contribuiscono a
renderne la diagnosi più frequente di prima: al tempo stesso l’hanno resa più accurata. V’è
qualcosa, tuttavia, che nessuna di queste definizioni dice: il modo in cui viene condotta la
valutazione del bambino con sospetto di autismo e il contesto in cui essa si svolge, che ne può
modificare il risultato. (M.Zappella 1998)
1.3.2 L’autismo secondo l’ICF
Il 22 maggio 2001 L’Organizzazione Mondiale della Sanità perviene alla stesura di uno strumento
di classificazione innovativo, multidisciplinare e dall’approccio universale: “La Classificazione
Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute”, denominato ICF.
All’elaborazione di tale classificazione hanno partecipato 192 governi che compongono
l’Assemblea Mondiale della Sanità, tra cui l’Italia, che ha offerto un significativo contributo tramite
una rete collaborativa informale denominata Disability Italian Network (DIN), costituita da 25
centri dislocati sul territorio nazionale e coordinata dall’Agenzia regionale della Sanità del Friuli
Venezia Giulia. Scopo principale del DIN risulta essere la diffusione degli strumenti elaborati
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dall’OMS e la formazione di operatori che si occupano di inserimento lavorativo dei diversamente
abili, in collaborazione con il Ministero del lavoro e delle politiche Sociali.
L’ICF si delinea come una classificazione che vuole descrivere lo stato di salute delle persone in
relazione ai loro ambiti esistenziali (sociale, familiare, lavorativo) al fine di cogliere le difficoltà che
nel contesto socio-culturale di riferimento possono causare disabilità.
Tramite l’ICF si vuole quindi descrivere non le persone, ma le loro situazioni di vita quotidiana in
relazione al loro contesto ambientale e sottolineare l’individuo non solo come persona avente
malattie o disabilità, ma soprattutto evidenziarne l’unicità e la globalità.
Lo strumento descrive tali situazioni adottando un linguaggio standard ed unificato, cercando di
evitare fraintendimenti semantici e facilitando la comunicazione fra i vari utilizzatori in tutto il
mondo.
Il primo aspetto innovativo della classificazione emerge chiaramente nel titolo della stessa. A
differenza delle precedenti classificazioni (ICD e ICIDH), dove veniva dato ampio spazio alla
descrizione delle malattie dell’individuo, ricorrendo a termini quali malattia, menomazione ed
handicap (usati prevalentemente in accezione negativa, con riferimento a situazioni di deficit)
nell’ultima classificazione l’OMS fa riferimento a termini che analizzano la salute dell’individuo in
chiave positiva (funzionamento e salute).
L’ICF vuole fornire un’ampia analisi dello stato di salute degli individui ponendo la correlazione
fra salute e ambiente, arrivando alla definizione di disabilità, intesa come una condizione di salute
in un ambiente sfavorevole.
L’analisi delle varie dimensioni esistenziali dell’individuo porta a evidenziare non solo come le
persone convivono con la loro patologia, ma anche cosa è possibile fare per migliorare la qualità
della loro vita.
Tre concetti in modo particolare esprimono bene la valenza innovativa della classificazione:
- universalismo;
- approccio integrato;
- modello multidimensionale del funzionamento e della disabilità.
L’applicazione universale dell’ICF emerge nella misura in cui la disabilità non viene considerata un
problema di un gruppo minoritario all’interno di una comunità, ma un’esperienza che tutti, nell’arco
della vita, possono sperimentare. L’OMS, attraverso l’ICF, propone un modello di disabilità
universale, applicabile a qualsiasi persona, normodotata o diversamente abile.
L’approccio integrato della classificazione si esprime tramite l’analisi dettagliata di tutte le
dimensioni esistenziali dell’individuo, poste sullo stesso piano, senza distinzioni sulle possibili
cause.
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Il concetto di disabilità preso in considerazione dall’Organizzazione Mondiale della Sanità vuole
evidenziare non i deficit e gli handicap che rendono precarie le condizioni di vita delle persone, ma
vuole essere un concetto inserito in un continuum multidimensionale. Ognuno di noi può trovarsi in
un contesto ambientale precario e ciò può causare disabilità. E’ in tale ambito che l’ICF si pone
come classificatore della salute, prendendo in considerazione gli aspetti sociali della disabilità: se,
ad esempio, una persona ha difficoltà in ambito lavorativo, ha poca importanza se la causa del suo
disagio è di natura fisica, psichica o sensoriale. Ciò che importa è intervenire sul contesto sociale
costruendo reti di servizi significativi che riducano la disabilità.
L’ICF, adottando approcci di tipo universale e multidisciplinare, può essere utilizzata in discipline e
settori diversi.
I suoi scopi principali sono:
- fornire una base scientifica per la comprensione e lo studio della salute, delle condizioni,
conseguenze e cause determinanti ad essa correlate;
- stabilire un linguaggio standard ed univoco per la descrizione della salute delle popolazioni allo
scopo di migliorare la comunicazione fra i diversi utlizzatori, tra cui operatori sanitari, ricercatori,
esponenti politici e la popolazione, incluse le persone con disabilità;
- rendere possibile il confronto fra i dati relativi allo stato di salute delle popolazioni raccolti in
Paesi diversi in momenti differenti;
- fornire uno schema di codifica sistematico per i sistemi informativi sanitari.
L’utilizzazione dell’ICF non solo consente di reperire informazioni sulla mortalità delle
popolazioni, sulla morbilità, sugli esiti non fatali delle malattie e di comparare dati sulle condizioni
di salute di una popolazione in momenti diversi e tra differenti popolazioni, ma anche di favorire
interventi in campo socio-sanitario in grado di migliorare la qualità della vita delle persone.
Le informazioni raccolte dall’ICF descrivono situazioni relative al funzionamento umano e alle sue
restrizioni. La classificazione organizza queste informazioni in due parti.
La prima parte si occupa di Funzionamento e Disabilità, mentre la seconda riguarda i Fattori
Contestuali. Ogni parte è composta da due componenti:
1. Componenti del Funzionamento e della Disabilità
- componente Corpo, che comprende due classificazioni, una per le Strutture Corporee e una per le
Funzioni Corporee
- componente Attività e Partecipazione, che comprende l’insieme delle capacità del soggetto in
relazione allo svolgimento di un determinato compito nell’ambiente circostante.
Ogni componente viene codificata facendo riferimento a codici alfanumerici e a qualificatori che
denotano l’estensione o la gravità delle menomazioni a carico delle funzioni e strutture corporee e
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delle capacità del soggetto nell’eseguire determinati compiti.
2. Componenti dei Fattori Contestuali
La prima componente di questi fattori è l’insieme dei Fattori Ambientali, che comprendono
l’ambiente fisico, sociale e degli atteggiamenti in cui le persone vivono e conducono la loro
esistenza. Questi fattori possono avere un’influenza positiva o negativa sulla partecipazione
dell’individuo come membro della società, sulle capacità dello stesso di eseguire compiti, sul suo
funzionamento o struttura del corpo.
L’altra componente dei Fattori Contestuali sono i Fattori Personali (sesso, razza, fattori socio-
economici, età, stile di vita, educazione ricevuta, ecc.) che però non vengono classificati nell’ICF a
causa della loro grande variabilità culturale e sociale.
Le componenti del funzionamento e Della Disabilità nella parte prima dell’ICF possono essere
espresse in due modi. Da un lato possono essere usate per indicare problemi( ad es. menomazioni,
limitazione dell’attività o restrizione della partecipazione, raggruppati sotto il termine ombrello
“disabilità”) dall’altro possono indicare aspetti non problematici (neutri) della salute e degli stati ad
essa correlati, raggruppati sotto il termine ombrello “funzionamento”.
Queste componenti del funzionamento e della disabilità vengono interpretate attraverso quattro
costrutti separati ma correlati. Tali costrutti vengono resi operativi usando i cosiddetti qualificatori.
Le funzioni e le Strutture corporee possono essere classificate attraverso cambiamenti nei sistemi
fisiologici o in strutture anatomiche. Per la componente Attività e partecipazione sono disponibili
due costrutti: capacità e performance.
Il funzionamento e la disabilità di una persona sono concepiti in un’interazione dinamica tra le
condizioni di salute e i fattori contestuali che come visto prima comprendono sia i fattori personali
che quelli ambientali.
Essendo l’ICF un metodo di classificazione della salute e delle componenti ad essa correlate, si può
affermare che le unità di classificazione sono quindi le categorie interne ai domini della salute e
degli stati ad essa correlati. E’ pertanto importante notare che non sono le persone le unità di
classificazione dell’ICF, ovvero essa non classifica le persone ma descrive la situazione di ciascuna
persona all’interno di una serie di domini della salute e degli stati ad essa correlati.