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L’ordinata y viene colorata di rosso, e il nostro argomento è in una dissolvenza
che bergmanianamente ci proietta fra le lenzuola purpuree dell’istanza onirica
del film.
La sua geometria sarà dunque sfumata.
La dimensione z, quindi la terza, è quella che trasversalmente attraversa le scene
del film, unendole in un'opera unica e tuttavia composta da sintagmi significanti
apparentemente autonomi. Nei momenti di “umana” incomprensione, sembra
quindi operare una volontà di natura “divina”.
Il blu ne contraddistingue la trascendentalità, rendendo concreto ai nostri sensi
qualcosa di apparentemente astratto.
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Premessa formale: dall’occhio immanente al tatto
Se ogni opera è riflesso più o meno trasfigurato dell'autore, trovo utile
parafrasare parte di un'intervista dove Lynch, con la sua consueta aria di enfant
terrible avvolto dal mistero, cerca di inquadrare la sua opera in un contesto
formale.
All'interno della sua intervista, riportata nel dvd di MULHOLLAND DRIVE,
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Lynch lascia trapelare tre chiavi di lettura del suo film, che si possono così
riassumere.
1) “...E' la storia che suggerisce il modo in cui bisogna raccontarla...la storia è
già predestinata dall'inizio si deve solo seguire il suo percorso, il resto viene di
conseguenza”. NERO
2) “...E' come percorrere strade sbarrate del passato, da soli...da dove puoi
vedere sia L.A. che Hollywood...Come guidare di notte su una strada piena di
curve, sembra non essere reale...dove i personaggi affrontano le loro crisi di
identità, come del resto ognuno di noi ”. ROSSO
3) “ L'incompletezza genera una sorta di tensione...dove ognuno cerca di
concludere la storia...l'interpretazione è del pubblico che deve essere parte
attiva, avere qualcosa da attingere dal proprio passato per fare il film suo...sei
al cinema a guardare il film, ma intanto vivi la tua storia, la tua vita ”. BLU
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. Mulholland Drive, di David Lynch . 2001 Prodotto, venduto e distribuito da Universal Pictures (Italy) s.r.l.
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Alla luce di queste dichiarazioni sembra che un fil rouge percorra l'intero
discorso: l'istanza postmoderna, usata ora come elemento per una riflessione
sociologica, ora come forma di regia.
Il moderno e il postmoderno
Copiose discussioni sono alla base dei variegati principi che hanno portato gli
studiosi a definire ciò che è o non è il postmoderno.
Alcuni ne ipotizzano la nascita come risposta ai principi moderni, altri come
evoluzione naturale, dove il prefisso post serve ad evidenziarne la
cronologicità, altri ancora preferiscono non effettuare una netta divisione fra ciò
che era e ciò che è, rimanendo in un campo di azione transitivo ove ha luogo un
continuo work-in-progress.
Al di là delle diverse matrici troviamo comunque dei punti d’accordo che
risultano più o meno evidenti all’interno delle opere identificabili come
postmoderne.
Osservando più da vicino ciò che concerne il cinema, “viene subito all’occhio”
il coinvolgimento sensoriale dello spettatore nei confronti del film
postmoderno. Nuove tecnologie sonore e visive di carattere meccanico (
movimenti di camera complessi ) meccanico-antropomorfi (per esempio
l’utilizzo della steadicam) e di carattere virtuale, mettono in luce il principio che
Jullier nomina “dell’immersione”. Alla base della sua intuizione (forse non
ancora identificabile come postulato teorico) vi è, infatti la figura di uno
spettatore immerso nel film come un uomo in una vasca da bagno, col proprio
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corpo interamente lambito dall’acqua. (Punto terzo dell’intervista)
Ulteriore metastasi del processo prolificante del postmoderno è quella
avvertibile nell’istanza narrativa. Risulta, in questa sede, di notevole aiuto la
teoria sulla “destrutturalizzazione della storia” di Derrida: egli infatti
comprende che una peculiarità stilistica della nuova era è quella di potere e
quindi sapere raccontare storie e avvenimenti, esulando dai classici principi
narratologici e cronologici, “saccheggiando” anche da altre realtà storiche e
ricomponendole sulla base di un nuovo principio guida, proprio dell’autore. (
punto primo dell’intervista ).
E il cinema, arte giovane, non tarda nel modificare le funzioni e il proprio
corpo a seconda dell’ambiente circostante. Ecco come da un simulacro
proteiforme di realtà e virtualità soggettivate, nasce un nuovo significato.
Se è vero che una delle peculiarità del cinema moderno è quella di mostrare
l’atto stesso del filmare, la lezione impartita da Jean Renoir persevera mutando
le variabili all’interno dell’equazione.
Ecco dunque venire alla luce un’altra cifra stilistica del cinema postmoderno:
l’autoreferenzialità, il citare se stesso all’interno di una mise en abyme che non
richiede più allo spettatore di creare ipertesti intellettuali ( come nel moderno ),
ma sensoriali. Ripercussioni di questa operazione è un’ulteriore facilità
dell’identificazione all’interno del “dispositivo cinematografico” dove ognuno
di noi può attingere dal proprio vissuto creando un proprio film da un pre-testo
filmico. ( Punto secondo dell’intervista )
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E Lynch sembra volerci mostrare su un tessuto polimorfo fra stile di regia e
citazionismo come un cambiamento si è attuato sulla strada di Damasco che dal
moderno a portato al postmoderno: dall’immanentismo di un occhio che
osserva e trae deduzioni intellettuali ad un corpo che grazie al tatto prende
cognizione di ciò che lo avvolge, e lo trasduce a misura d’uomo trasformando
Dio in Uomo, elevandolo (nel nostro caso tramite il cinema) ad elemento
trascendentale.
Questa sorta di passaggio di consegne dal senso della vista al senso del tatto
trova in MULHOLLAND DRIVE ulteriore conferma e allo stesso tempo un
nuovo punto di partenza che, nella seguente analisi del film, cercheremo di
comprendere nelle sue meno intuibili sottigliezze; queste ultime nell’insieme
del loro montaggio genereranno un’“immaginità” ( obraznost direbbe
Eijzensteijn ) nuova e di senso compiuto.
Un viaggio all’interno del cinema quindi che sembra voler mostrarci più che un
risultato formale il percorso che ha portato ad esso.
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Sinossi
Rita (Laura Helena Harring) rimane vittima di un incidente automobilistico
sulla Mulholland Drive, perde la memoria e si rifugia nella casa di un’aspirante
giovane attrice di Hollywood, Betty (Naomi Watts), che la aiuta a ricostruire la
sua vita.
Punto di partenza è la borsa di Rita contenente, oltre che una copiosa cifra di
denaro, una misteriosa scatola blu chiusa a chiave.
Il viaggio nel passato di Rita e nel subconscio di entrambe, le trascina in
situazioni piene di mistero e apparentemente incomprensibili che le
coinvolgono emotivamente, mettendole sulle tracce di una ragazza di nome
Diane, che troveranno morta nel suo appartamento.
Nella stessa città un uomo, seduto al tavolo di un fast-food Winkie’s sulla
Sunset boulevard, cerca di affrontare i propri incubi che diventeranno realtà.
Intanto un talentuoso regista, Adam (Justin Teroux), è alle prese con la
produzione di un film ambientato negli anni cinquanta. Sotto pressione di una
famiglia mafiosa, è costretto a scegliere come attrice principale la sconosciuta
Camilla Rhodes, nonostante i suoi occhi si siano posati su Betty.
All'ombra dei recenti avvenimenti, fra Betty e la sua amica nasce una storia
d'amore che finirà però col deteriorarsi man mano che l'identità di Rita riaffiora.
Durante una rappresentazione teatrale al “ Club Silencio ”, Rita trova nella sua
borsa una chiave blu con la quale apre la scatola misteriosa.
La vicenda collassa all'interno di essa, operando una serie di slittamenti di
persona fra Betty, Diane e Rita.
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Ora Betty è Diane, Diane è una commessa di un Winkie’s e Rita è la donna di
Adam: Camilla Rhoeds.
La festa di fidanzamento a casa di Adam diviene culmine di un’epifania
mostratasi all’inizio del film, che sancisce un legame fra tutti i personaggi di
questa piece teatrale.
Per Diane ormai non resta che la disperazione di un perduto amore disperso in
un simulacro di immagini, pensieri, storie, disparati punti luminosi di un cielo
blu che dissolve in se il rosso del Club Silencio.
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Sinossi “in montaggio classico”
E' possibile fornire un'altra versione della sinossi, operando una sorta di
montaggio del film, seguendo uno schema più o meno attendibile nella linearità
della vicenda narrata.
Partendo dalle immagini di apertura, possiamo dedurre che la bionda Diane
Selwyn sia giunta a Los Angeles dopo aver vinto un trofeo ad una gara di ballo
( presumibilmente il jitterburg particolarmente in voga ad Hollywood negli
anni cinquanta ), accompagnata dai suoi genitori. L'orizzonte di aspettative
aumenta il raggio e da campionessa tenta l’ascesa al titolo di attrice. << Più che
famosa vorrei essere conosciuta come attrice >> dirà Betty a Rita durante una
scena del film, aggiungendo però che l'uno non esclude l'altro. Si trasferisce a
casa di una zia che è fuori per girare un film in Canada, (in realtà scopriremo
essere morta) e le assicura un provino per un film ambientato negli anni
cinquanta. L'audizione va divinamente ma la parte la ottiene la bruna Camilla
Rhoeds, raccomandata e protetta da un boss mafioso: il signor Roque. Adam, il
regista, si oppone inutilmente a questo sabotaggio del film, venendo fagocitato
dagli ingranaggi dell'avida cosca mafiosa. I sogni di Diane sembrano
frantumarsi e tramonteranno definitivamente, quando Camilla deciderà di
troncare la relazione amorosa che intratteneva con lei.
Durante una notte, Camilla invita Diane alla sua festa di fidanzamento con
Adam, ormai pedina corrotta dei fratelli Castigliane.
In preda alla disperazione Diane assolda un killer per uccidere la sua ex-amante.
Una volta compiuto il delitto, ordina che gli sia lasciata una chiave blu sul
tavolo di casa.
L’esito dell'omicidio resterà incerto. Interrotto da un incidente sulla Mulholland
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Drive Rita ne resterà coinvolta con un’amnesia ( o è deceduta? ) ma i suoi killer
moriranno sul colpo.
Dopo il presunto omicidio di Camilla, Diane si abbandonerà ai suoi sensi di
colpa che la trascineranno, insieme alla completa distruzione dei suoi sogni, alla
morte.