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INTRODUZIONE 
 
1. LA FILOGEOGRAFIA 
 
La filogeografia si occupa dello studio della distribuzione geografica delle 
linee genetiche che sono presenti nelle popolazioni all’interno di una 
specie o in gruppi di specie filogeneticamente vicine. Il termine 
“filogeografia”, coniato nel 1987, deriva infatti dalla fusione di 
“filogenetica”, cioè la genealogia dei geni, e “geografia”. L’analisi 
filogeografica indica che ogni specie ha la propria storia e l’attuale 
distribuzione geografica degli organismi viventi dipende sia da parametri 
storici che ambientali (De Candolle, 1820). La presenza di una specie in 
un determinato ambiente, è conseguenza di differenti fattori quali il 
rapporto che quella specie sviluppa con altre specie e con l’ambiente 
stesso in cui essa vive. Quindi si può affermare che sussiste uno stretto 
legame che unisce la variabilità genetica alla capacità di adattamento. In 
particolare, la distribuzione geografica della variabilità genetica nelle 
specie dipende da come le popolazioni hanno risposto ai cambiamenti 
climatici (primi fra tutti i cicli glaciali). Inoltre, le dimensioni della 
popolazione, la capacità di dispersione della specie, il tipo di rifugio, i livelli 
di flusso genico tra popolazioni e il tasso di ricolonizzazione sono tutti 
importanti fattori che hanno contribuito a determinare la struttura genetica 
delle popolazioni. 
La classificazione degli organismi in base alle specie è il risultato della 
ricostruzione filogenetica della loro storia evolutiva, un’analisi che oggi 
viene condotta principalmente a livello molecolare e si basa sul confronto 
delle sequenze nucleotidiche e/o amminoacidiche. I diversi tipi di dati 
molecolari rappresentano infatti una sorta di documento storico, che 
contiene in sé le tracce dei passi fondamentali dell’evoluzione di un gene.
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1.1. Marcatori genetici 
Strumento fondamentale per l’analisi genetica sono i marcatori genetici. I 
marcatori genetici possono essere morfologici (basati sulla variabilità 
espressa a livello fenotipico), biochimici o molecolari. 
Prima dell’avvento della PCR, i primi marcatori genetici utilizzati, i 
marcatori “classici”, sono stati i polimorfismi emogruppali, emo- e 
sieroproteici e dell’HLA. Ci si basava perciò sull’uso di anticorpi per 
riconoscere le diverse proteine presenti nel plasma, sugli eritrociti e nei 
tessuti, mediante analisi biochimiche. Grazie allo sviluppo delle tecniche di 
biologia molecolare, in particolare all’invenzione della PCR, è oggi 
possibile sfruttare direttamente l’RNA e il DNA come indicatori della 
presenza di una proteina o del gene stesso. I marcatori molecolari si 
basano sulla rilevazione di polimorfismi nella sequenza nucleotidica del 
DNA, differenze dovute ad inserzioni, delezioni, traslocazioni, duplicazioni, 
mutazioni puntiformi, ecc. Si possono poi usare delle sonde specifiche per 
andare a determinare la presenza o l’assenza di pezzi di cromosomi. Si 
distinguono quindi due principali classi di marcatori molecolari: quelli 
basati su ibridazione di tipo Southern (Southern Blot Hybridization, SBH) e 
quelli basati sulla Reazione a Catena della Polimerasi (Polymerase Chain 
Reaction, PCR). Alla prima classe appartengono gli RFLP (Restriction 
Fragment Lenght Polymorfism), cioè i polimorfismi di lunghezza di 
frammenti di DNA prodotti per taglio con enzimi di restrizione; e i VNTR 
(Variable Number of Tandem Repeat) anche detti minisatelliti, che 
contengono un numero di sequenze ripetute in tandem, cioè una di 
seguito all’altra, il cui numero varia a seconda dell’allele. Alla seconda 
classe di marcatori molecolari, quelli basati sulla PCR, fanno parte i 
marcatori multi-locus e quelli singolo-locus, tra cui i più noti sono STR 
(Short Tandem Repeat), chiamati anche microsatelliti, SNP (Single 
Nucleotide Polymorphism), SSR (Simple Sequence Repeat).
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1.1.1. Marcatori genetici a trasmissione unilineare 
Di particolare interesse, una classe di marcatori di più recente scoperta: 
quella dei marcatori unilineari, cioè ad esclusiva trasmissione paterna o 
materna. 
L’analisi di marcatori genetici a trasmissione unilineare presenta notevoli 
vantaggi nello studio delle forze evolutive che hanno interessato le 
popolazioni umane. Infatti l’assenza di ricombinazione e l’evoluzione per 
coalescenza consentono di ricostruire e seguire diacronicamente le 
diverse linee filogenetiche che si sono evolute in una particolare 
popolazione. 
Nelle cellule umane, la maggior parte dei geni (∼25.000) si trova confinata 
all’interno del nucleo in duplice copia per cellula ed è trasmessa in parti 
uguali dai genitori secondo le leggi di Mendel. Gli studi sull’evoluzione 
umana si sono però concentrati su due porzioni di DNA particolari, quelle 
appunto a trasmissione unilineare: il DNA mitocondriale (mtDNA) ed il 
cromosoma Y. Questi vengono trasmessi rispettivamente dalla madre ai 
figli di entrambi i sessi e dal padre ai soli figli di sesso maschile.  
Il cromosoma Y (Figura 1) è tra i 
cromosomi più piccoli del nostro genoma 
(circa 60 Mb) ed è uno dei due 
cromosomi che determina il sesso nella 
maggior parte dei mammiferi, uomo 
compreso. È aploide ed è trasmesso 
esclusivamente da padre a figlio. Non è 
in grado di ricombinarsi con il 
cromosoma X, tranne che per piccole 
parti pseudoautosomiche ai telomeri 
(circa il 5% dell’intera lunghezza del cromosoma), per la maggior parte 
della sua lunghezza, nota come “nonrecombining portion of the Y” (NRY) 
non subisce ricombinazione, essendo presente nel maschio in condizione 
di emizigosi, ossia in singola copia per cellula. 
Figura 1: Cromosoma Y umano
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Anche il DNA mitocondriale non ricombina, infatti lo zigote eredita per 
intero quello della madre, poiché il mitocondrio dello spermatozoo, al 
momento della fusione con la cellula uovo, viene perso. 
La sola fonte di variabilità di questi due marcatori a trasmissione unilineare 
è costituita dalle mutazioni. Uno specifico pattern di mutazioni su una 
regione non ricombinante, sia di mtDNA che del cromosoma Y, è 
chiamata “aplotipo”, e una famiglia di aplotipi caratterizzata dalla 
condivisione di una mutazione ereditata da un antenato comune è detta 
“aplogruppo”. 
Studiando le variazioni tra i diversi aplogruppi di mtDNA o di cromosoma 
Y, è possibile risalire rispettivamente all’antenata materna e all’antenato 
paterno ancestrale, tracciando così delle linee genealogiche che collegano 
antenati comuni. 
 
 
1.2. I mitocondri 
 
I mitocondri (Figura 2) sono organuli 
cellulari presenti nel citoplasma di tutte 
le cellule di organismi eucarioti a 
metabolismo aerobio. Essi svolgono 
una funzione molto importante: sono la 
sede della respirazione cellulare. 
I mitocondri sono molto dinamici, dotati 
di rapidi movimenti e di rapide 
trasformazioni, possono cambiare 
numero, forma e dimensione all’interno 
della cellula durante il suo sviluppo, il ciclo cellulare e in relazione a stimoli 
esterni: passano rapidamente dalla forma granulare a quella filamentosa 
nonché a quella bastoncellare, possono allungarsi e restringersi, 
accorciarsi e rigonfiarsi, mostrando una notevole contrattilità. I meccanismi 
di fusione e fissione dei mitocondri non sono ancora completamente 
Figura 2: Mitocondrio
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chiari, ma si sa che sono eventi estremamente rapidi e frequenti. Alcuni 
ipotizzano che oltre alla complementazione intermitocondriale (scambio di 
mtDNA tra mitocondri) questo meccanismo possa servire per convogliare 
energia e calcio alle diverse aree della cellula. Le dimensioni dei 
mitocondri sono simili a quelle di un batterio (0,5 – 1,0 µm). 
L’ipotesi più accreditata sulla loro origine è quella endosimbiontica, 
secondo la quale i mitocondri, così come pure i cloroplasti, si sarebbero 
originati, circa 2 miliardi di anni fa, da procarioti liberi, che avrebbero 
invaso delle cellule eucariotiche primitive, instaurando delle relazioni di 
mutuo beneficio (simbiosi). Col tempo, le attività enzimatiche del batterio 
sarebbero state usate a vantaggio della cellula ospite ed alla fine, questa 
sarebbe diventata dipendente dall’attività del batterio. Quasi tutti i circa 
1.500 geni codificati dal genoma batterico si sono in seguito integrati nel 
genoma nucleare lasciando nel DNA mitocondriale solo i geni codificanti 
per 2 rRNA e 22 tRNA, necessari per la sintesi proteica mitocondriale, e 
13 polipeptidi che costituiscono parte dei complessi proteici della 
fosforilazione ossidativa. 
I mitocondri rappresentano quindi la centrale energetica della cellula: 
immagazzinano sotto forma di ATP l’energia liberata nel corso delle 
reazioni metaboliche, successivamente resa disponibile per le attività 
cellulari, infatti contengono gli enzimi necessari alla maggior parte delle 
reazioni ossidative che producono energia. Tra questi enzimi troviamo la 
piruvato deidrogenasi, gli enzimi per il trasporto degli elettroni e per la  
fosforilazione ossidativa, quelli del ciclo dell’acido citrico e gli enzimi che 
ossidano gli acidi grassi.  
 
1.2.1. Struttura dei mitocondri 
I mitocondri sono costituiti da una membrana esterna e una membrana 
interna, ripiegata in creste o tubuli al fine di aumentarne la superficie, sulla 
quale hanno luogo gli stadi terminali dell’ossidazione. La membrana 
interna contiene diverse proteine necessarie alle reazioni ossidative della