INTRODUZIONE
La naturale multifunzionalità del linguaggio umano, che si presta
indifferentemente ad instaurare relazioni di accordo o conflitto tra i
parlanti, offre l’ideale terreno d’azione e di sviluppo alla bugia come
espediente linguistico. Lo studio di questa modalità di espressione non
manca di condividere le tesi che ne sanciscono la fondamentale
negatività, ma svolta anche, e soprattutto, verso una visione
prospettica nuova e ottimistica: innanzitutto la consacra come
strumento al servizio di personalità intelligenti ed astute, che
magistralmente modificano la realtà dei fatti, rimaneggiano la verità,
risultando più credibili di chi dice la verità, e sanno nascondere le loro
intenzioni dietro la corazza impenetrabile del corpo. Dire la verità,
quindi, diventa, ironicamente, l’unica opzione per chi è incapace di
sostenere la credibilità di un racconto fallace. Il ricorso ad essa,
inoltre, può nascondere anche fini nobili, o comunque positivi, nel
caso si menta per preservare la concordia in contesti sociali tesi ed
evitare conflitti.
Anche l’arte in genere si connota come una forma di finzione che ha
radici remote nel tempo, nata con l’uomo e coltivata per il suo effetto
distensivo, terapeutico e pedagogico. Molte sono le voci autorevoli
che legittimano la fondamentale positività della finzione artistica e che
si affiancano a considerazioni etiche che, invece, ne denunciano
l’inconsistenza, in quanto frutto di fantasia. Il fruitore, però, pur
5
essendo consapevole del fatto che le sue emozioni sono suscitate da
una costruzione fantastica e irreale, ne trae un senso di appagamento,
astraendosi dalla realtà, spesso generatrice di ansia e di difficoltà, e in
ciò sta la sua ‘assoluzione’. Il romanzo è, tra le forme d’arte, quello
che maggiormente risponde a una funzione pedagogico-terapeutica,
perché concentra la sua attenzione sulle ansie e le passioni umane e
favorisce la crescita interiore dell’individuo che, immedesimandosi in
qualche personaggio della storia, trae insegnamento dall’esito delle
sue vicende.
Il romanzo in tanti secoli di storia letteraria si è caratterizzato,
almeno fino a qualche decennio fa, per un ingente contributo da parte
di scrittori di sesso maschile e la quasi totale assenza di scrittrici, a
causa dei rigidi codici imposti da una società maschiocentrica che
affidava alla donna mansioni diverse da quella dell’inseguire il sogno
di una carriera letteraria o professionale. La scarsa considerazione per
le facoltà intellettive femminili e l’importanza di uno spazio per la
donna nella società, a cominciare dal diritto di voto, hanno innescato
un processo di emancipazione che è iniziato silenziosamente e che è
scoppiato solo nel XX secolo, portando al diritto di voto e a una
rivendicazione del proprio valore. La donna ha diversificato i suoi
ambiti di espressione, non essendo più limitata alla sola sfera
domestica e familiare; il suo contributo si ravvisa innanzitutto in
campo letterario in cui propone, soprattutto nel periodo modernista,
una scrittura tutta al femminile, schietta e sincera, dapprima velata dal
rancore per il silenzio imposto nei secoli, poi sempre più obiettiva e
impersonale, frutto di uno sguardo più distaccato dal reale, interprete
del mondo interiore finora mai esplorato. La donna scrittrice nel
processo di fioritura della sua scrittura, è sottoposta al cinico e severo
6
giudizio maschile, insofferente nei riguardi della spinta rivoluzionaria
femminile. Essi sembrano avere modelli e virtù contrapposte, ma in
realtà ciò dipende dalla differenziazione di esperienze e le due diverse
sensibilità si coniugano perfettamente nell’ideale della mente
androgina, perfetta sintesi della personalità umana.
Il contrasto fra i due generi sessuali affonda le sue radici in ogni
campo di interazione sociale e in ogni forma di civiltà. Esso trova,
nella cultura europea, una sua legittimazione nella politica di stampo
patriarcale sfacciatamente maschilista che ancora oggi determina la
maggior parte delle azioni.
La tensione tra i sessi raggiunge il suo culmine nella sfera
sentimentale, nella quale i motivi di conflitto trovano difficile
conciliazione con l’esigenza di non incrinare il rapporto affettivo e
generano esiti comportamentali insoliti. Se l’uomo difende la sua
‘naturale’ posizione di superiorità, volta a reprimere eventuali spinte
di autoaffermazione della donna, quest’ultima soffre della sua
posizione subordinata e cerca di instaurare una relazione basata su una
fondamentale parità di diritti e opportunità. Alla chiusura da parte
dell’uomo verso qualsiasi accordo, implicito o esplicito, la donna
risponde interiorizzando il suo disagio e utilizzando un linguaggio
comunicativo non più diretto, ma obliquo, che lascia intuire il
problema, più che trattarlo apertamente; allusioni, silenzi,
fraintendimenti sono preferiti al conflitto diretto per la naturale ritrosia
delle donne verso i toni accesi e violenti.
Il linguaggio femminile, infatti, presenta delle caratteristiche
distintive in rapporto a quello maschile, originato da una spiccata
sensibilità e attenzione all’interiorità. Le donne tendono ad agire nel
rispetto della politeness, nel tentativo di preservare un clima di
7
accordo e distensione; sono solite utilizzare un linguaggio dai toni
pacati, accondiscendenti ed esitanti; anche il ricorso alla bugia è
ammesso allo scopo di consolare e sanare conflitti. Esse, inoltre, sono
le migliori promotrici di conversazioni, caute nella scelta degli
argomenti e capaci di coinvolgere e interessare astanti dagli svariati
interessi.
L’attenzione rivolta alle forme di comunicazione femminili non
intende screditare o sminuire quelle maschili, ma segnala una
differenziazione che l’uomo sembra sottilmente appoggiare, in quanto
favorisce la concordia; il fatto che la donna interiorizzi le ansie e
mostri una maschera di serenità e benevolenza giova all’uomo che
ricorre a lei per trarne fiducia e autocompiacimento. Una breve analisi
di una recente pellicola cinematografica, What Women Want, avanza
un’ipotesi dei compromessi cui le donne devono sottostare nei
rapporti professionali e sentimentali promiscui: il protagonista del
film, infatti, gode per un breve periodo della facoltà di ascoltare ciò
che le donne pensano ma non dicono e rimane colpito dalla profondità
delle loro motivazioni.
La bugia femminile, comunque, si presta a perseguire fini nobili o
meschini in base alla sensibilità e allo spessore morale della figura che
ne fa ricorso: i romanzi To The Lighthouse di Virginia Woolf e The
Longest Journey di E. M. Forster, infatti, offrono esempi di due figure
femminili che divergono nelle finalità delle loro bugie.
Mrs. Ramsay è la figura centrale del romanzo di Virginia Woolf e
rappresenta un monumento alla memoria di sua madre e alla figura di
moglie e madre per antonomasia, con la sua disposizione a sentire
vivamente emozioni, sentimenti, affetti e la sua cura nel coordinare le
tante incombenze che gravano sulla padrona di casa: l’assistenza al
8
marito e l’educazione dei figli, l’accoglienza dei numerosi ospiti nella
casa al mare e la fatica nel cercare di amalgamarli, la cura della casa e
le disposizioni per la cucina. La bugia diventa un mezzo insostituibile
di cui si avvale per svolgere tali funzioni: ella mente al marito per
accrescerne la fiducia in sé stesso, mente ai figli per evitare loro inutili
dispiaceri, mente nelle conversazioni con gli ospiti per promuovere la
distensione degli animi. La scrittrice si è avvalsa della scrittura
interiore per descrivere la protagonista da ogni prospettiva, così come
viene vista da ogni personaggio, e soprattutto nella sua interiorità,
svelando una parte di lei celata a tutti, un luogo dove ella non è più
tenuta ad adempiere qualche funzione, non è più moglie, madre, ma è
soltanto sé stessa e può pensare senza più ipocrisie.
Forster, invece, incentra il suo romanzo sulla figura di un giovane
studente di Cambridge, Rickie Elliot, zoppo ad un piede, timido e
insicuro che al King’s College trova rassicurazioni del proprio valore
e soprattutto il conforto dell’amicizia; lo scrittore vuole consacrare
l’importanza dei legami amichevoli e distogliere l’uomo
dall’instaurare una relazione con un singolo partner, decretando la fine
di tutte le altre relazioni sociali. Rickie, invece, finisce per accantonare
tali principi, circuito dalle parole di Agnes Pembroke, una donna
superficiale e opportunista, che decide di sposarlo perché il suo vero
amore è morto; ella, quindi, rinuncia definitivamente ad esso e si lega
a Rickie anche per impiegarlo come professore nella scuola del
fratello Herbert. Lo allontana dagli amici, in particolare da Ansell,
perché percepisce il forte legame che li unisce e lo convince a tacere
l’esistenza di Stephen, il fratello illegittimo di lui, perché mira ad
essere l’esclusiva beneficiaria dell’eredità della zia di Rickie. I suoi
piani, però, falliscono, e le sue bugie vengono scoperte; la donna però
9
non si rammarica delle sue scelte, ma continua a ragionare
opportunisticamente.
10
I. DIRE BUGIE
I. 1. La bugia rivalutata
1. 1. 1. Elogio della bugia
Il linguaggio è lo strumento che l’uomo utilizza per convivere ed
imporsi nella collettività. E’ uno strumento di potere, perché ha un
effettivo ascendente sulla psiche umana, modifica il modo di riflettere
e di guardare le cose:
La parola è una potente signora che, pur dotata di un corpo piccolissimo e
invisibile, compie le opere più divine: può far cessare il timore, togliere il dolore,
produrre la gioia e accrescere la compassione.
1
Non a caso Hobbes ha affermato: “Il linguaggio non rende l’uomo
migliore ma più potente”.
2
Il filosofo siciliano Gorgia da Lentini, (ca
485-370 a.C.) lo definisce “pharmakon” per la sua profonda incidenza
sulla psiche umana: così come il medicinale soggioga il corpo, la
parola ammalia la mente. Questo termine presenta una duplice nonché
opposta accezione: significa infatti sia “medicina” che “veleno”:
1
In M. Bettetini, Breve storia della bugia. Da Ulisse a Pinocchio, Milano, Raffaello Cortina
Editore, 2001, p. 132.
2
Ibidem, p. 55.
11
lenisce, consola ma può ferire più del dolore fisico ed essere usato per
scopi opportunistici, anche tramite il ricorso alla menzogna.
3
Il
linguaggio secondo Gorgia è inevitabilmente menzognero perché
l’uomo non ha le capacità intellettive per conoscere la realtà, e anche
se la conoscesse individualmente non potrebbe trasmettere le
informazioni agli altri a causa della limitatezza ed inefficienza dello
strumento utilizzato, la parola.
4
Tali considerazioni riflettono la teoria
del linguaggio propria della Sofistica,
5
corrente filosofica cui Gorgia
aderiva: dal momento che la parola è incapace di veicolare la verità, è
inutile cercare di discernere le affermazioni veritiere da quelle false; ai
Sofisti non resta che valorizzare il linguaggio per quello che può
concedere: “il fascino divino che si dà per mezzo della parola è
generatore di piacere e liberatore dal dolore”.
6
I Sofisti tralasciano la
filosofia che è ricerca di verità per concentrarsi sull’oratoria, l’arte del
persuadere per perseguire fini edonistici. Essi sono convinti del fatto
che in etica non esista una verità assoluta in quanto essa varia da un
luogo all’altro e nasce da un accordo tra gli uomini. In mancanza di un
modello cui uniformarsi, l’uomo interpreta la realtà nel modo più
vantaggioso per sé stesso; il Sofista, con l’arte della persuasione,
accredita non le opinioni più vere, ma le più vantaggiose, egli
deliberatamente professa il falso, che sembra vero, ma in realtà è un
raggiro. Secondo i Sofisti bisogna lasciarsi ingannare dal potere
persuasivo della parola che, se da un lato “può far violenza alla
anima”,
7
rendendo vulnerabili anche i più fermi propositi, può
3
Ibidem, p. 133.
4
Ibidem, p.132.
5
Sofistica: dal gr. sophistiké (techné) ‘(arte) di cavillare’,: movimento filosofico che si sviluppa
nel mondo greco nel V sec. a. C.
6
M., Bettetini, op. cit., p. 132
7
Ivi.
12
anche concedere piacere e gratificazioni.
L’espediente linguistico della bugia s’innesta sia su un tipo di
comunicazione basato sul conflitto, finalizzato alla sopraffazione, che
su quello basato sull’accordo, che mira a creare un clima di solidarietà
e consenso tramite l’uso di bugie cui si fa ricorso per scopi affettuosi,
nella convinzione che far del bene sia molto più importante che dire la
verità.
8
Guido Almansi, ritenendo omogenea l’adozione di questa
strategia comunicativa nel tessuto sociale, ha constatato l’esistenza di
finalità non solo opportunistiche, ma anche nobili:
La cosa che ci colpisce di più…è l’estremo contrasto (morale, sociale,
psicologico) tra gli elementi alti e quelli bassi, o addirittura infimi, delle
possibilità d’impiego della bugia: per accalappiare un gonzo (la prostituta) o per
incantare il lettore (il poeta), per trionfare in una perversione della giustizia
(l’avvocato mentitore) o per consolare un malato (un medico),…per proporre una
soluzione accettabile ai grandi problemi morali dell’umanità (il teologo) o per
farsi mantenere da una signora in età già avanzata (il gigolo).
9
Questo elogio della bugia si basa anche sul fatto che essa
presuppone un intelletto molto sviluppato; chi mente ha capacità
cognitive decisamente più ampie di chi dice sempre la verità, perché
mentire significa compiere un’operazione intellettuale molto
sofisticata: premesso che professare il falso è diverso dal dire
8
Corrispondono a questa categoria le white lies, di cui si parlerà più ampiamente in avanti.
9
G. Almansi, Bugiardi: la verità in maschera, Venezia, Marsilio, 1996, p. 16.
13
inconsapevolmente la verità, nell’atto di mentire bisogna studiare le
aspettative dell’altro, mettersi nei panni dell’altro e nascondere le
proprie intenzioni per evitare di essere troppo trasparente. Chi mente
compie un costante esercizio di penetrazione della psiche altrui per
carpire ciò che l’altro vuol sentirsi dire o che è disposto a credere, in
modo da anticiparlo e manipolarlo. Questo atteggiamento è tipico dei
leaders,
10
come riconosceva anche Oscar Wilde che attribuiva
soprattutto ai politici la capacità di manovrare gli altri con le parole:
”Their feigned ardours and unreal rhetoric are delightful. They can
make the worse appear the better cause”.
11
Gli stessi pedagogisti,
inoltre, consigliano che i bambini sviluppino l’intelligenza tramite
l’esercizio della bugia.
12
1. 1. 2. La bugia inevitabile
In una forma più sottile si può considerare la menzogna come una
legge necessaria nell’interazione con gli altri. Secondo Proust, non si
può fare a meno di mentire nel confronto con gli altri e nell’atto del
parlare stesso, perché si assume una sorta di personalità sociale
diversa da quella interiore, regolata da un codice di comportamento e
non si può essere sinceri pur volendo, in quanto si è inibiti dalla
10
U. Galimberti, “La bugia. Elogio della menzogna come gioco d’intelligenza”, La Repubblica,
27.5.2001.
11
O. Wilde, The Decay of Lying, in Poems and Essays, London and Glasgow, Collins, 1956, p.
242.
12
Non a caso la parola giocare deriva dal latino ludere, la stessa radice della parola illudere, che
deriva da in-lusio, “entrare in gioco”. U,Galimberti, “ La bugia”, cit.
14
presenza e dal pensiero altrui.
13
Mario Lavagetto condivide la tesi di
Proust: “l’assunzione di un codice diffuso e partecipato da tutti…ci
offrono una conchiglia protettiva, un ‘dolce bozzolo’; ci regalano
l’invisibilità”.
14
Questa caratteristica attribuita ad ogni parlante finisce
però per diventare una “condanna”,
15
in quanto si è destinati a non
conoscere mai la persona con cui ci si confronta, perché ognuno erige
un baluardo tra i propri pensieri e il mondo esterno:
Di anelli… ce ne sono infiniti e muovendone il castone verso il proprio corpo o
verso il mondo esterno si possono regolare le apparizioni e le scomparse della
propria persona, ci si può rendere immuni e sgusciare tra le maglie del discorso.
16
Anche E. M. Forster riconosce la superficialità dei rapporti sociali
nella vita quotidiana: “we cannot understand each other, except in a
rough and ready way; we cannot reveal ourselves, even when we want
to; what we call intimacy is only a makeshift; perfect knowledge is an
illusion”.
17
Le teorie filosofiche di Henry Bergson
18
parlano dell’esistenza di due
io: “un io di superficie e un io di profondità; il primo può servire come
13
M., Lavagetto, La cicatrice di Montaigne. Sulla bugia in letteratura, Torino, Giulio Einaudi,
1992 p.223.
14
Ivi.
15
Ivi.
16
Ivi.
17
E. M. Forster, Aspects of the Novel, London, Arnold, 1963, p. 62.
18
Henri Bergson, filosofo francese (Parigi 1859- ivi 1941). Premio Nobel nel 1928, ha
notevolmente influenzato le correnti culturali europee del XX sec.. La sua filosofia si oppone al
Positivismo ottocentesco e postula un tipo di conoscenza non intellettualistica, ma basata
sull’intuizione, mediante la quale la coscienza interiore, un susseguirsi di diversi stati mentali, può
apprendere il senso originario della realtà. Alla tradizionale concezione del tempo meccanicamente
suddiviso in passato, presente e futuro, contrappone il concetto di durée , di tempo interiore dove
passato, presente e futuro si fondono: il presente ingloba il passato attraverso la memoria e si
proietta nel futuro mediante l’immaginazione.
15
maschera al secondo”.
19
Su questa dicotomia si innesta la bugia:
“mente chi ha ‘qualcosa nell’animo’ e ‘qualcos’altro nelle parole’”
20
.
L’io di superficie nasconde dietro gesti e parole il vero io che rimane
protetto e inviolato. Proust, facendo sue le teorie filosofiche di
Bergson e quelle letterarie in voga nell’ultima decade del XIX secolo,
come il ‘tema del doppio’ che trova una sua realizzazione in racconti
come Dr Jekill and Mr Hide, riconosce l’esistenza non di due, ma di
una molteplicità di io che si caratterizzano e si alternano nel corso
dell’esistenza in base alle esperienze che si vivono; come dice Proust:
“Non ero un uomo solo, ma un’armata composita che sfilava e in cui,
secondo i momenti, c’erano degli appassionati, degli indifferenti, dei
gelosi”.
21
Accanto a un io predominante si creano altri io che
riflettono altri aspetti della personalità:
L’uomo…si chiama nello stesso modo da bambino e da vecchio, ma tutto in lui
è diverso, in una parte si rinnova e in un’altra deperisce; il suo corpo, le sue ossa,
il suo sangue, la sua carne si modificano radicalmente; e così le sue abitudini, le
opinioni, i piaceri, i dolori, le paure. Niente rimane lo stesso nella stessa persona e
alla fine dall’uno è nato il molteplice.
22
Anche Virginia Woolf descrive la poliedricità della personalità umana
in The Waves in cui i sei protagonisti, le cui vite scorrono
parallelamente dall’infanzia alla maturità, rappresentano i diversi
19
M. Lavagetto, op. cit., p. 224.
20
Ivi.
21
In M. Lavagetto, op. cit., p. 223.
22
Ibidem, p. 225.
16