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INTRODUZIONE
Raramente si sente parlare di cannibalismo nella nostra società, possibilmente per il
tabù che rappresenta insieme all‟incesto. Ma se dell‟incesto vi sono maggiori dati
statistici, pur sempre incerti a causa della scarsa possibilità di denuncia, che
testimoniano abusi su minori da parte della figura paterna (difficilmente materna),
del cannibalismo si tende più a velarlo come una storia antica o razionalizzarlo
attraverso lo studio di popolazioni non del tutto civilizzate che perseguono tutt‟oggi
questa pratica.
Solitamente sono le statistiche a parlare sulla serietà e l‟emergenza di un problema
che coinvolge il sociale, ma nel caso dell‟antropofagia diventa estremamente difficile
rendere con i numeri la presenza di questa pratica. In alcuni Paesi, come nel caso di
Armin Meiwes in Germania, non sono presenti leggi che condannano o dichiarano
come agire in termini giuridici. In un certo senso il cannibalismo è molto più che un
tabù: rappresenta nell‟inconscio collettivo qualcosa talmente surreale che l‟uomo in
molti casi non ha pensato alla possibilità che alcuni potessero violarlo, nemmeno
giuridicamente.
Un uomo che si nutre di un altro uomo, resta una fantasia che fa da corollario e la
trama avvincente della discordia tra Zeus e il padre Cronos, o di molte fiabe come La
bella addormentata nel bosco o la fiaba di Hansel e Gretel.
La verità è un‟altra ed è più inquietante: “I cannibali sono fra noi”, riprendendo le
stesse parole di Chiara Camerani. Non si tratta di un allarme per mettere in
agitazione le masse, ma per far riflettere. Esiste in ogni uomo un lato oscuro, talvolta
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perfino a se stesso, con cui pochi e difficilmente fanno i conti, altri ancora,
sporgendosi nell‟abisso ne restano vittima e non trovano via di uscita. Così come per
la pedofilia, la necrofilia e tutte le perversioni più aberranti dell‟uomo e che i media
si limitano a far scorrere velocemente nei titoli di coda, anche l‟antropofagia è oggi
presente.
Per questo desidero con questa tesi proporre uno studio sui recenti casi di
cannibalismo avvenuti nel “civilizzato” mondo occidentale, analizzando non soltanto
come può scatenarsi e quindi quali siano le cause del meccanismo cannibale, ma
anche considerare l‟agghiacciante fenomeno in aumento della “vittima
consenziente”.
“Fai di me ciò che vuoi
mangiami
fagocitami
così che possa essere puro
spirito in te
per non lasciarti mai più.”
(Umberto Sartori)
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Capitolo 1
IL CANNIBALISMO NELLA STORIA
“Ciò che sta emergendo attraverso
i progressi dell’archeologia,
è che il cannibalismo è parte del
nostro passato collettivo”
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.
1. ARCHEOLOGIA DEL CANNIBALISMO
Le ricerche archeologiche hanno portato alla luce, nel corso degli anni, testimonianze
della pratica del cannibalismo in diverse aree geografiche del mondo, e in differenti
epoche.
La ricerca di indizi del cannibalismo si basa sull‟analisi dei resti ossei che presentano
tracce di macellazione e cottura: segni di taglio, martellature, fratture, aperture del
cranio e bruciature. In alcuni casi le difficoltà di interpretazione sono notevoli, in
quanto vi sono testimonianze, come in alcuni siti del Tibet, dove i cadaveri vengono
smembrati e lasciati in pasto ad altri carnivori, o ancora possono essere sottoposti a
riti funerari.
Le conclusioni sono quindi rese incerte dalla varietà dei trattamenti a cui possono
essere sottoposti i cadaveri presso le diverse popolazioni.
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Cfr. “Quando eravamo cannibali”, Tim D.White, LE SCIENZE n.397, settembre 2001
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Naturalmente lo studio di questi casi può essere compiuto solo seguendo i criteri di
una scienza storica, per questo l‟archeologia è divenuta lo strumento principale per
analizzarne il fenomeno.
Secondo Tim D.White è possibile accertare la pratica cannibalica “quando le tracce
di modificazione riscontrate sui reperti umani corrispondono a quelle osservate sulle
ossa degli animali utilizzati a scopi alimentari”. L‟archeologia ha potuto verificare
che l‟uomo, al contrario dell‟animale, quando si nutre di altri animali non si limita a
lasciare sulle ossa i segni dei denti, ma interviene sulla carcassa utilizzando strumenti
di pietra o di metallo. Così facendo, lasciano tracce di sfregature sulle ossa.
Tessuti con alto valore nutritivo, come cervello e midollo, possono essere rimossi
dall‟interno delle ossa solo attraverso energiche martellature e simili manomissioni
lasciano lesioni caratteristiche. “Quando le ossa umane provenienti da siti
archeologici mostrano tipi di danno associati unicamente alla macellazione a opera di
altri esseri umani, la deduzione che vi sia stato cannibalismo trova conferma”
2
.
I primi indizi del cannibalismo risalgono alla documentazione fossile del neolitico;
sono state infatti scoperte migliaia di ossa umane rotte dai pueblo preistorici del
Sudovest americano nelle Isole del Pacifico.
La più antica testimonianza di un presunto cannibalismo risale a 800 mila anni fa ad
opera del cosiddetto Homo antecessor europeo (Gran Dolina in Spagna). Le ossa
manifestano infatti evidenti tracce di macellazione, scorticamento con ipotetica
rimozione della carne grazie all'apertura della scatola cranica e delle ossa lunghe.
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Ibidem
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Giacchè l‟analisi si fonda sull‟utilizzo di un metodo comparativo attraverso
osservazioni sulle lesioni di dati osteologici e contestuali, essa va affrontata in modo
molto minuzioso e non sempre può indicare la presenza del cannibalismo; al
contrario, altri esempi più antichi di cannibalismo possono non essere riconosciuti.
Un esempio di tale difficoltà è fornito dalla pratica in uso in Papua Nuova Guinea: i
crani dei defunti venivano ripuliti accuratamente e svuotati; dopo averli asciugati,
venivano poi manipolati a lungo, tanto che le parti sporgenti acquisivano un aspetto
“lucidato”.
Il cannibalismo nei neandertaliani europei, 150.000 - 35000 anni fa, è stato discusso
verso la fine dell‟Ottocento, quando il più grande paleontologo croato Gorjanovic-
Kramberger trovò i resti spezzati e segnati da tagli di oltre 20 neandertaliani sepolti
sotto la roccia di Krapina. A causa dei metodi sbagliati e sbrigativi per estrarli,
numerose sono state le difficoltà per esaminarli, nonostante ciò, è stata comunque
attribuita la pratica di cannibalismo, sia nel sito di Krapina sia in un‟altra caverna
croata, Vindija.
Altri siti scoperti più recentemente hanno confermato l‟ipotesi che alcuni ominidi
praticassero il cannibalismo. È il caso di Alban Defleur, dell‟Università a del
Mediterraneo a Marsiglia, che scava da anni sulle rive del Rodano nella grotta di
Moula-Guercy. I neandertaliani occuparono questa piccola cavità all‟incirca 100.000
anni fa e vi sono stati ritrovati resti di circa sei individui dai sei anni all‟età adulta
disposti in modo disordinato intorno ad un focolare spento da cui l‟antropologo Tim
D.White presume che il cannibalismo fosse abbastanza comune già prima del
Paleolitico superiore.
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Un altro scavo, effettuato da un gruppo di ricercatori guidato da Antonio Rosas del
Museo Nazionale di Scienze Naturali di Madrid, ha ancora messo in luce resti ossei
neandertaliani caratterizzati da tracce antropofaghe. Secondo Rosas "è probabile che
le condizioni ambientali fossero così difficili per i neandertaliani da costringerli a
nutrirsi della carne dei propri simili". Le analisi dentarie dei reperti rinvenuti
evidenziano inoltre casi di ipoplasia, legata a fenomeni di denutrizione.
Più recentemente, nel 1996, è stata scoperta una tomba ad Herxeim in Germania,
nella regione Renania-Palatinato (analizzata tra il 2005-2008), dove sembra essere
stato compiuto un massacro di massa a carattere cannibalico risalente a 7000 anni fa,
essendo stati ritrovati i resti di almeno 500 persone mutilate intenzionalmente e
alcuni resti appartenevano a bambini e neonati, spiega Bruno Bolstein,
dell'Università francese di Bordeaux.
La prova di cannibalismo è chiara ed è avvenuta nell'Europa neolitica. In quel
periodo la popolazione dell'Europa centrale soffriva per carestie. Le ossa, secondo gli
scienziati, sono state staccate e rotte intenzionalmente per poi essere arrostite allo
spiedo. Incuriosisce comunque il fatto che il fenomeno sia avvenuto nel Neolitico,
periodo preistorico in cui l'agricoltura aveva ormai preso il sopravvento, offrendo più
cibo per tutti (mentre il cannibalismo è una pratica normalmente legata alla carenza
di cibo). Ora però resta da capire il vero 'movente' di questo cannibalismo di massa:
per alcuni scienziati sarebbe riconducibile a una prassi quotidiana condotta
indipendentemente da tutto, per altri invece parrebbe legato a riti ben precisi,
probabilmente di matrice funeraria.
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2. GEOGRAFIA DEL CANNIBALISMO
Fenomeni antropofagici sono stati scoperti tra le seguenti popolazioni:
2.1 INDIANI ANASAZI
L'analisi di reperti scoperti in siti archeologici abitati tra il 1150 e il 1200 dagli
indiani Anasazi, in America, confermerebbero l' esistenza di cannibalismo presso
questo popolo. La prima indicazione di ritrovamenti di testimonianze cannibali venne
divulgata nel 1967 ad opera del bioarcheologo Christy G. Turner, ma prove più
concrete furono fornite dopo esami biologici al microscopio elettronico, condotti
negli anni novanta. Da tali esami risulta che le ossa furono bollite in pentole, ed in un
recipiente di cottura vennero ritrovate tracce di mioglobina umana, una emoproteina
presente nei muscoli.
2.2 AMERINDI DELL'AMERICA LATINA
Sin dalla scoperta dell'America è stata prodotta una vasta, ed in parte controversa,
letteratura sulle pratiche cannibali di numerose popolazioni dell'America
Meridionale. D'altra parte non solo i conquistadores spagnoli e i missionari cristiani,
ma anche il famoso pirata francese Francesco L'Olonese morì per mano di indigeni
cannibali, nel 1671.
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A metà degli anni ottanta l'antropologa Beth Conklin
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visse due anni nella foresta
pluviale brasiliana, in un villaggio degli indigeni Wari, appartenente al gruppo
linguistico Txapakura, che costituivano una piccola popolazioni di circa 1500
persone viventi nella foresta amazzonica occidentale. La Conklin ha dimostrato che
l‟antropofagia veniva praticata sia sui nemici vinti, assimilati alla selvaggina, sia in
forma compassionevole sui parenti morti.
I Wari‟ guerreggiavano con le tribú vicine e, dopo una battaglia vittoriosa,
ritornavano al proprio villaggio portando parti dei corpi dei nemici uccisi che
venivano cucinate e mangiate da tutti quelli che erano rimasti nel villaggio senza
partecipare alla battaglia, ovvero donne, bambini e anziani. I guerrieri non
consumavano queste carni, perché in loro era cominciato ad entrare lo spirito del
nemico ucciso e quindi si sarebbero macchiati di autocannibalismo; si ritiravano
nella “casa degli uomini” dicendosi sazi del sangue dei nemici uccisi. Rimanevano
per lungo tempo volontariamente reclusi in modo da assimilare nei loro corpi
l‟energia vitale del nemico, limitandosi a bere la chicha, la bevanda ottenuta dalla
manioca, e astenendosi da qualsiasi altro alimento. Evitavano in questo periodo
anche i contatti sessuali perché in tal caso l‟energia virile proveniente dal sangue del
nemico sarebbe passata, attraverso lo sperma, alle loro mogli o amanti. La reclusione
terminava quando i guerrieri si sentivano rafforzati a sufficienza perché in loro era
ormai entrato lo spirito del nemico ucciso e le donne della tribú si stancavano di
preparare chicha per i reclusi volontari.
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Cfr. “Conklin explores funeral cannibalism”, www.vanderbilt.edu, 22 gennaio 1996.
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Il cannibalismo funerario Wari‟ veniva praticato sui membri deceduti del gruppo
familiare, all‟interno del quale si distinguevano i “parenti veri”, legati al morto da
vincoli di sangue, ai quali spettava l‟organizzazione del rito e i “parenti distanti” cioè
quelli acquisiti per matrimoni, ai quali era attribuita la preparazione del cadavere.
In attesa dei “parenti veri” che venivano chiamati anche da villaggi lontani, il
cadavere iniziava a putrefarsi e a questo punto veniva tagliato a pezzi e passato al
fuoco; i parenti prossimi a questo punto sfilacciavano la carne e la disponevano su
un piano d‟appoggio, intercalandolo a pezzi di polenta di mais. Ciascuno dei parenti
doveva ingerirne almeno un piccolo pezzo. La reazione di disgusto che i parenti
avrebbero avuto nel forzarsi ad ingerire era parte del rito: la repulsione doveva
indicare che i parenti compivano una triste necessità, affinché entrando a far parte dei
loro corpi il morto continuasse a far parte del gruppo. Se la carne fosse stata ingerita
con avidità il morto sarebbe stato equiparato al nemico.
Il carattere vendicativo del cannibalismo sul nemico é evidente anche nel racconto
(Staden 1556) di Hans Staden, un tedesco assoldato dai portoghesi come artigliere su
una nave da guerra che partí da Lisbona nell‟anno 1549 e che, dopo sei mesi di
traversie, giunse in Brasile. Qui Staden venne assoldato dai coloni di San Vicente,
uno dei primi insediamenti portoghesi in prossimità dell‟attuale città di Santos, per
servire come artigliere in un fortino che avrebbe dovuto difendere la colonia dalle
incursioni dei Tupinambá, tribù alleata dei francesi, e dei loro alleati Tupiniquins.
In un attacco a sorpresa dei Tupinambá, Staden venne fatto prigioniero e trasferito
nel villaggio della tribù. Staden rimase prigioniero per nove mesi, durante i quali i
Tupinambá gli ricordavano continuamente di essere destinato a vittima di un rituale