23
.
CAPITOLO 2
Gli attori del carcere
2.1 La contrapposizione tra i detenuti ed i loro controllori
Considerando, dunque, ora nello specifico la prigione, vi sono caratteristiche di essa che è bene
evidenziare, come la relazione che si viene ad instaurare tra i suoi attori principali o l'ambivalenza tra
l'apparente rigidità dell'istituzione e la discrezionalità che sta a capo di essa.
L' istituzione carceraria è contrassegnata, dunque, dalla rigida suddivisione caratterizzante la
relazione tra i suoi attori principali: infatti abbiamo da una parte i detenuti (ovvero persone private
della propria libertà e sottoposte a continue privazioni), dall'altra le persone che hanno il compito di
sorvegliare e controllare i detenuti (le quali sono chiamate ad esercitare rituali di privazione e a
dimostrare superiorità nei loro confronti). Il funzionamento dell'istituzione si evince chiaramente da
questa suddivisione gerarchica dalla quale, tuttavia, scaturisce una cascata di immagini che portano
agli stereotipi che hanno caratterizzato per lungo tempo l' istituzione carceraria: da una parte il
condannato, ritenuto pericoloso, imprevedibile e manipolatore; dall' altra il "poliziotto", ritenuto
violento, arbitrario e tirannico.
Fra gli operatori di polizia penitenziaria sono diffuse diverse rappresentazioni che tendono, appunto,
a stigmatizzare e disumanizzare la popolazione reclusa. Tali rappresentazioni da un lato non
esauriscono il complesso modo attraverso il quale gli operatori guardano alla popolazione reclusa,
dall’altro sono particolarmente diffuse fra la maggior parte del personale. Gli operatori, legandosi a
35
Goffman Erving(1961), “Asylums: Essays on the condition of the social situation of mental patients and other inmates”, p.
44
36
Becker Howard Saul (1963), "Outsiders. Studies in the sociology of deviance", trad. it. "Outsiders. Studi di sociologia della
devianza”, Maltemi ed., Roma, 2017
24
quanto detto poc’anzi, richiamano spesso alla “gius ta distanza” che auspicano venga sempre
mantenuta tra loro ed i reclusi. Se, infatti, da un lato la “giusta distanza” è stata rappresentata co me
un fattore imprescindibile del proprio lavoro in qu anto permetterebbe di svolgere i propri compiti
nella maniera migliore, dall’altro sembra rivelare il timore di perdere la propria “purezza
istituzionale” a causa di un avvicinamento ad una p opolazione fortemente stigmatizzata. Secondo il
personale, inoltre, il loro rapporto con i detenuti dovrebbe basarsi sul “rispetto reciproco”, il qual e
sembra, tuttavia, rispondere in particolar modo ad esigenze puramente strumentali e per gli
operatori stessi e per i detenuti
37
.
All'interno dell'istituzione carceraria è possibile riscontrare la struttura di un sistema di privazio ni e
privilegi, il quale ricorda al detenuto la precarie tà delle sue condizioni e il suo grado di sottomiss ione
rispetto alle decisioni altrui: i privilegi consent ono ai detenuti di sopportare meglio la condizione in
cui si ritrovano, oltre a garantire l'adesione di e ssi a ciò che viene richiesto dall'istituzione. Ris ulta
chiaro come i rapporti all'interno del carcere sian o basati quasi del tutto su negoziazione e scambio,
rapporti sullo sfondo dei quali vi è comunque la mi naccia di una punizione, che si concretizza solo
quando viene meno il funzionamento di questo sistem a di scambio. Come già detto, l'istituzione
totale ha tra le sue caratteristiche quella di una sorta di ermetismo nei confronti dell'esterno: ebbe ne
negli ultimi anni un cambiamento pare abbia investi to il mondo carcerario riuscendo a smuovere dei
confini che sembravano ben radicati e inamovibili. Tra questi cambiamenti si annoverano l'apertura
del carcere nei confronti dell'esterno con la conse guente valorizzazione degli scambi tra questi ultim e
due realtà e l'accettazione condivisa di controlli provenienti dall'esterno configurati come giudici
imparziali. Questi aspetti sono riusciti a modifica re (anche se non sempre) le dinamiche relazionali
intercorrenti tra i gruppi di attori che si oppongo no all'interno dell'istituzione, sfociando nella
promozione di un'opportunità di riflessione circa l 'attualità della nozione di "istituzione totale" e sulle
sue caratteristiche. Per quanto detto fino ad ora s arebbe interessante indagare sull'eventuale
attualità o meno del riferimento alla chiusura tota le dell'istituzione nei confronti dell'esterno,
dunque se il modello descritto da Goffman sia tutt' oggi considerato valido 38
.
Porsi in questa determinata posizione ha conseguenz e sullo studio del rapporto che intercorre tra la
prigione e l'ambiente esterno ad essa, oltre ad ave re conseguenze anche sull'analisi di tutte quelle
relazioni che si vanno ad instaurare all'interno de ll'istituzione carceraria. Peraltro, adottando una
37
Maculan Alessandro (2015), “Guardie imprigionate? U no studio sulla polizia penitenziaria e le rapprese ntazioni dei
detenuti”, in Il seme e l’albero (Rivista di scienze sociali, psi cologia applicata e politiche di comunità), vol. 1, n. 3, pp. 176 -
192
38
Chantraine Gilles (2000), "La sociologie carcérale : approches et débats théoriques en France", in "Dé viance et Sociéte",
XXIV, 3, pp. 197-318
25
prospettiva sistemica che sia improntata agli studi di sociologia dell'organizzazione
39
, è possibile
procedere anche in maniera opposta, dunque andando a prendere in esame il modo in cui la prigione
sia riuscita, negli ultimi anni, a cambiare e, allo stesso tempo, rimanere sé stessa, ovvero un luogo
malsano, di inutile sofferenza e fabbrica di handic ap, all'interno del quale si verificano processi
prolungati nel tempo di disculturazione e dove i di ritti sono continuamente violati
40
.
Mentre si riflette sulle cause di una così evidente incapacità di cambiamento è necessario rivolgersi a
quella che è la struttura fondamentale perché l'ist ituzione esista e venga governata, un'istituzione
che ospita un grande numero di persone in una condi zione di cattività ed affidate alla rigida
sorveglianza di un numero ben ridotto di persone.
2.2 Le subculture ed il codice del detenuto
Il detenuto vive, all'interno dell'istituzione carc eraria, in un mondo a sé, per certi aspetti lontano da
quello esterno, anche se si possono riscontrare del le affinità tra i due. La cultura che viene espress a
dalla popolazione detenuta può, infatti, essere con siderata come una vera e propria subcultura in
relazione al mondo esterno, oltre che in relazione ad un concetto più esteso che va ad abbracciare la
cultura generale tipica del penitenziario. A questo proposito, uno dei maggiori contributi circa il
"codice del detenuto" ci è offerto dal già citato D onald Clemmer, il quale lo definisce come la forma
fondamentale di regolazione interna alla popolazion e dei detenuti
41
. Il momento dell'inizio della
detenzione coincide, in un certo senso, con la soci alizzazione a suddetto codice, dato che risulta
essere un vero e proprio manuale di sopravvivenza a ll'interno dell'istituzione, basato sulla
contrapposizione tra i detenuti ed il personale add etto alla sorveglianza. Questa contrapposizione è
stata trattata più volte, specialmente dagli autori americani degli anni '40 del secolo scorso: essa
risulterebbe essere la conseguenza dei differenti r uoli e dei differenti status dei quali i detenuti e gli
agenti sono portatori
42
, oltre che essere la conseguenza dei reciproci ste reotipi fortemente in
conflitto tra loro 43
e, come detto poc'anzi, dei codici culturali tipic i dell’universo penitenziario, i quali
prescrivono e ai detenuti e al personale una forte opposizione nei confronti del gruppo
39
De Leonardis Ota (2001), "Le istituzioni. Come e p erché parlarne", Carocci, Roma
40
Lemire Guy, Vacheret Marion, "Anatomie de la priso n contemporaine", 2007, Presses de l’Université de Montréal, collana
Paramètres, Montréal
41
Clemmer Donald (1940), “The prison community", tra d. it. "La comunità carceraria", Santoro, 2004
42
Weinberg Kirson S. (1942), "Aspects of the prison' s social structure", trad. it. "Aspetti della strut tura sociale carceraria", in
American Journal of sociology, vol. 47, n.5, marzo 1942, pp. 717-726, University of Chicago Press
43
Goffman Erving ( 1963), “Stigma: Notes on the Management of Spoiled Identity”, trad. It. di Roberto Giammanco, collana
«Cartografie», Ombre Corte, 2003
26
antagonista
44
. Altri autori hanno poi trattato questo particola re codice
45
andando ad individuare
quegli elementi che lo caratterizzano, tra i quali troviamo: il valore della lealtà come sfondo (senza
lealtà tra detenuti sarebbe impossibile che questo codice riuscisse a sopravvivere), la quale è posta in
contrapposizione al personale (dunque è ancora rima rcata questa netta opposizione tra le due parti);
conseguenza della lealtà è il rifiuto di ogni forma di tradimento o sfruttamento perpetrata da un
detenuto nei confronti di un altro; conseguenza, in vece, dell'opposizione tra detenuti e non è il
rifiuto categorico di qualsiasi forma di amicizia c on chiunque rappresenti l'istituzione; la capacità di
riuscire a mantenere, per quanto possibile, il cont rollo senza causare danno né a sé stessi né agli al tri
detenuti. Come detto prima, il codice del detenuto è sostanzialmente il primo strumento a
disposizione dei reclusi per integrarsi nella comun ità carceraria e, ad ogni violazione di esso, segue
una pesante serie di sanzioni di carattere diverso tra loro: dalla violenza psicologica a quella fisic a
(tanto perpetrata da costringere l'individuo all'is olamento protettivo) fino alla sopraffazione. Sykes
considera tale codice come una sorta di risposta di fensiva collettiva a quelle che sono le restrizioni
imposte dall'istituzione: sostanzialmente i detenut i vogliono sviluppare un nuovo status all'interno
del nuovo sistema in cui si sono ritrovati, a segui to della privazione del loro precedente status da
parte dell'istituzione. Aiutarsi l'uno con l'altro formando una rete di relazioni basate sulla lealtà e le
altre caratteristiche che abbiamo visto prima è sic uramente la più razionale delle scelte da fare se c i
si ritrova in una situazione talmente avversa. Un m odello basato su quanto detto fino ad ora è stato
definito da Vacheret e Lemire come "modello privati vo", alla cui base sta un'ipotesi che è stata
verificata da una serie di ricerche che hanno porta to alla dimostrazione di come la solidarietà
espressa dai detenuti rispetto ad una comune causa tenda a diminuire ove l'istituto penitenziario
risulta meno restrittivo ed in modo proporzionale a ll'accesso ai benefici
46
.
Vi sono stati poi due autori in particolare
47
che, sulla base del "modello dell'importazione"
48
, hanno
affermato che la possibile spiegazione delle subcul ture carcerarie sia da ricercare nella società
esterna. Questo perché, tramite il modello sopracit ato, risulta possibile ricostruire lo sviluppo di
carriere criminali, all'interno delle quali vi è un contesto caratterizzato prettamente dall'ostilità nei
confronti della legge, di chi la fa esercitare e di chi la esercita, soprattutto a causa dei prolungat i
contatti con, appunto, il sistema penale ed il carc ere, con una crescente e contestuale adesione alle
norme ed i valori del mondo criminale e, tali norme e valori, sono gli stessi su cui poggia il codice dei
44
Id. Clemmer Donald (1940)
45
Sykes Gresham M’Cready, Messinger Sheldon Leopold (1960), "The inmate social system", "Theorical stud ied in the social
organization of the prison", Social Science Researc h council, New York
46
Bowker Lee Harrington (1980), "Prison victimizatio n", Elsevier, New York
47
Irwin John, Cressey Donald (1962), "Thieves, convi ncts and the inmate culture", in “Social Problems”, 2014, vol. 10, n. 2,
pp. 142 - 155
48
Id. Lemire, Vacheret, 2007
27
detenuti: si può affermare, di conseguenza, che tal e sistema di norme e valori non nasce
contestualmente all'inizio della detenzione, bensì è già preesistente a tale condizione.
Vi è, tuttavia, una fetta di detenuti che non ha al le spalle identificazione alcuna con culture crimin ali:
ecco, allora, che si può arrivare ad affermare che per chi è già inserito in una carriera criminale il
carcere diventa un qualcosa già tenuto in considera zione nel formulare le valutazioni relative a risch i
e benefici derivanti da tale carriera (e, di conseg uenza, l'adattamento alla condizione detentiva
risulta quasi indolore e sicuramente più rapido del normale), mentre per coloro i quali non hanno
mai avuto a che fare con la delinquenza nella loro quotidianità, la detenzione risulta come un
dramma imprevisto caratterizzato da un'esperienza i n contrapposizione al loro passato. Il già citato
"modello dell'importazione" è anche in grado di off rire una spiegazione al comportamento di gruppi
strutturati che varcano la soglia di entrata della prigione, esattamente come avviene (in particolar
modo negli USA) per gli individui appartenenti a qu elle gang che risultano particolarmente attive
sulla scena criminale. A questo proposito gli studi di James B. Jacobs sono stati di grande aiuto,
evidenziando il modo in cui l'appartenenza ad un gr uppo strutturato all'interno dell'istituzione
carceraria possa configurarsi come un'importante ri sorsa sul piano personale, un vero e proprio
antidoto contro le forme di vittimizzazione subite entro quelle quattro mura, un appiglio al quale
aggrapparsi per ottenere gratificazioni a livello p sicologico e materiale. La coesione interna al grup po
e le gerarchie tra questi ultimi sono caratteristic he che si ritrovano immutate entro le mura
carcerarie, mentre la situazione di detenzione fa s ì che si modifichi l'entità delle rivalità esistent i tra
le gang all'esterno della prigione: per evitare rea zioni da parte dell'amministrazione penitenziaria c he
possano portare ad un progressivo irrigidirsi del r egime disciplinare, infatti, i gruppi congelano i
conflitti aperti per la durata corrispondente alla loro detenzione
49
.
Proprio tutte queste differenziazioni elencate circ a le forme di adattamento alla nuova condizione
del detenuto, insieme alle distinzioni relative agl i effetti e le conseguenze con cui i singoli devono
confrontarsi a fronte dei processi di prigionizzazi one (in base a variabili quali le caratteristiche
personali e di gruppo, oltre al vissuto precedente la detenzione e le prospettive future), hanno fatto
sì che Irwin e Cressey sostenessero che non vi sia possibilità alcuna se non quella di parlare di una
pluralità di subculture carcerarie, non riducibili ad una sola
50
. I due autori, dunque, ipotizzano
l'esistenza di almeno tre macro-subculture di rifer imento per i reclusi: quella criminale, quella
detentiva e quella legittima. La subcultura crimina le è quella in cui il carcere rappresenta, come det to
prima, una tappa obbligata e messa in conto nel cal colo dei rischi relativo al decidere di compiere
49
Jacobs James Barrett, "Street gangs behind bars", 1974, in "Social Problems", 21, pp. 395 - 409
50
Id. Irwin, Cressey (1964)
28
determinate azioni, ed è quella subcultura che rima ne immutata anche dopo l'ingresso in carcere, la
quale si basa su gerarchie e relazioni di rispetto, improntate sui valori di lealtà e solidarietà tra i
membri di essa. La subcultura detentiva è quella pr evalentemente orientata verso strategie di
sopravvivenza all'interno del carcere, ed è quella che predilige comportamenti strategici e che misura
lo status sui risultati raggiunti senza dare molta importanza a valori quali lealtà e solidarietà. La
subcultura legittima, infine, è in opposizione alle due precedenti, non accettando né i valori della
subcultura criminale (lealtà e solidarietà), né i c omportamenti della subcultura detentiva (strategici
ed utilitaristici); essa, infatti, riconosce come p ropri i valori ufficiali della società legittima,
soprattutto perché tale subcultura è propria di chi ha infranto la legge occasionalmente o di chi,
seppur recidivo, identifica la scelta criminale com e una conseguenza derivante dal delinearsi di
specifiche circostanze.
2.3 Un vuoto culturale: gli operatori penitenziari
Il mondo del carcere, come già detto in precedenza, è caratterizzato dall'opposizione tra due macro-
gruppi, ovvero quello dei detenuti da una parte e q uello delle guardie penitenziarie dall'altra. Tutto
ciò che riguarda le privazioni e le costrizioni imp oste dal penitenziario è ovviamente rivolto al prim o
gruppo, ma chi è deputato alla sorveglianza dei det enuti non può comunque sottrarsi al quotidiano
confronto con la sofferenza e la deprivazione, ovve ro le tipiche caratteristiche del contesto
penitenziario. Abbiamo visto che per i detenuti vi sono vari modi per adattarsi al contesto e per
resistere agli effetti che la detenzione comporta s ulla persona: la stessa cosa vale anche per i
sorveglianti. Dunque si può affermare che vi sia la corrispondente parte delle subculture carcerarie e
dei relativi codici di valore, ed effettivamente è così: per gli operatori del carcere, infatti, possi amo
identificare i codici professionali e le relative l ogiche di intervento e, attorno a questi ultimi, si
definiscono determinati modelli di adattamento che possono essere condivisi o individuali. Gli autori
James B. Jacobs e Harold G. Retsky sono stati i pri mi, a tal proposito, a tentare di colmare quel vuot o
culturale relativo all'organizzazione sociale che s i crea nella vita carceraria, portando avanti l'ide a che
vi fosse la necessità di portare l'attenzione sulle difficoltà del ruolo degli operatori penitenziari, i quali
risultano spesso chiamati a svolgere compiti potenz ialmente pericolosi per la propria incolumità e
per quella dei detenuti
51
.
51
Jacobs James Barrett, Retsky Harold "The prison gu ard”, 1975, in "Urban life", IV, I, pp. 5 - 29
29
Vi sono state poi delle ricerche che hanno sostenut o quanto detto fino ad ora e hanno confermato, in
tempi relativamente recenti, come siano proprio le condizioni pesanti a livello psicologico e fisico i n
cui gli operatori si trovano a dover lavorare a rap presentare il primo fattore di coesione del corpo, al
di là dei singoli compiti ricoperti
52
. Inoltre il fatto che tali compiti siano puramente esecutivi e
disprezzati dagli altri costituisce un altro fattor e di coesione che porta l'operatore ad immaginarsi
come l'ultimo gradino della scala sociale della pri gione, sebbene essi siano fondamentali per
garantire che venga mantenuto l'ordine interno. Ciò che consegue a tali difficoltà e ad una tale
stigmatizzazione è questa condivisione di un codice di valori e di un insieme di norme di
comportamento, tra cui: stare sempre all'erta e ten ersi pronti ad intervenire per soccorrere un
collega o in caso di disordini interni, rifiutare o gni tipo di identificazione con i detenuti in modo tale
da evitare anche la minima forma di collaborazione con essi, sostenere con forza e convinzione ogni
azione posta in essere e ogni decisione presa dai c olleghi.
L'obiettivo primo del corpo di sorveglianza, in ogn i caso, è quello di neutralizzare tutti quelli che sono
i potenziali rischi derivanti da una condizione per la quale un luogo (peraltro di esigue dimensioni) è
costipato di individui privati della loro libertà. Su queste funzioni (dunque il contenimento dei
soggetti e la neutralizzazione dei rischi) gli adde tti alla sorveglianza entro le mura delle carceri s i
ritrovano alquanto compatti. Ciò che, tuttavia, seg na una profonda linea divisoria al loro interno è l a
posizione che ognuno di loro assume in merito al ma ndato costituzionale riportante che la pena
debba essere in ogni caso tesa alla rieducazione de l condannato. In effetti, tale sentenza rischia di
creare conflitti di ruolo: il fatto di dover garant ire controllo e disciplina per il bene dell'ordine, da una
parte, e il dover mettere in atto strategie di sost egno, comprensione e responsabilizzazione atte al
favorire il reinserimento sociale dei detenuti, dal l'altra, sono due mondi che necessitano di attitudi ni
sicuramente diverse, anzi spesso inconciliabili tra loro. La questione appena esposta diventa ancor
più urgente se al personale di sorveglianza viene e splicitamente richiesto di partecipare al processo
di rieducazione senza mettere il nuovo personale ne lle effettive condizioni per le quali investire
davvero in un simile mandato. Davanti alle condizio ni di sovraffollamento in cui versano le carceri
attualmente e di fronte alla precarietà strutturale riguardante l'ordine interno degli istituti, le
indicazioni dell'amministrazione penitenziaria risc hiano, in un certo senso, di risultare schizofrenic he,
portando alla generazione di reazioni totalmente op poste a quelle desiderate o ad un sostanziale
estraniamento degli operatori nei confronti delle f inalità dell'istituzione
53
.
52
Chauvenet Antoinette, Orlic Françoise, Benguigui G eorges (1994), "Le monde des sourveillantes de pris on", Presses
Universitaires de France, Paris
53
Maculan Alessandro, Vianello Francesca, Ronconi Lu cia (2016), "La polizia penitenziaria: condizioni l avorative e salute
organizzativa negli istituti penitenziari del Venet o", in "Rassegna italiana di criminologia", X, I, p p. 18 - 31