2
Il potenziale critico insito nel linguaggio emerge alla luce di un’attenta analisi
sociologica sull’uso e i meccanismi di riproduzione dello stesso.
In Teoria dell’agire comunicativo (1981) riflessione filosofica e
sociologica si intrecciano, si amalgamano fino a confondersi;
dimensione descrittiva e prescrittiva diventano un tutt’uno.
In quest’opera Habermas commette l’errore di anticipare sul piano
dell’Essere riflessioni appartenenti al Dover Essere: in altre parole,
subendo l’influenza di un Hegel che, per quanto rinnegato, continua
ad affacciarsi nel pensiero del filosofo contemporaneo, Habermas
“descrive la norma” come se essa fosse già da sempre presente.
Alla filosofia della storia di Hegel, Habermas preferisce la filosofia
del linguaggio ma come là nella storia anche qua nel linguaggio viene
ravvisata una dimensione morale che l’essere umano già da sempre
possiede seppur in forma ingenua; all’essere umano non è dato
inventare, creare ma solamente scoprire e ricostruire qualcosa che già
c’è.
L’Etica del discorso, invece, rappresenta il trionfo del kantismo in
Habermas laddove, tuttavia, Kant viene reinterpretato e superato in
direzione di un’intersoggettività comunicativa che vuole lasciarsi alle
spalle il problema dell’intenzione per abbracciare la causa della
responsabilità.
La norma morale deve essere azione responsabile, deve tenere conto
delle possibili conseguenze derivanti ad ogni essere umano che venga,
seppur indirettamente, toccato in qualche modo da essa.
La responsabilità richiesta dall’etica del discorso è quanto mai distante
dalla facoltà pratica che Aristotele chiamava phronesis; essa vuole
essere, piuttosto, una facoltà cognitivisticamente connotata.
Tuttavia, come in un capitolo di questo lavoro cercherò di dimostrare,
il passaggio dalla giustificazione cognitiva all’applicazione pratica
rappresenta forse il più grande punto incerto della teoria morale
habermasiana.
3
Questa teoria sostiene:
ξ una morale cognitivistica, in quanto non colloca le questioni
morali nell’ambito della scelte arbitrarie e dei sentimenti
soggettivi ma investe le questioni concernenti la sfera della
morale di una pretesa di validità analoga a quella sollevata
dalle asserzioni riguardanti il mondo oggettivo dei fatti;
ξ una morale universalistica, poiché sostiene la necessaria
universalità del concetto di Giusto e la necessaria
universalizzabilità della giustificazione delle azioni;
ξ una morale formale e astratta, perché qualunque contenuto
andrebbe a discapito dell’universalità e rappresenterebbe
un’oggettivazione di una forma particolare e parziale di vita.
Tuttavia, se l’intenzione (in accezione kantiana) abbandona il primo
posto nella riflessione morale lo fa solo per insinuarsi nell’agire
comunicativo, in particolare nella distinzione tra atti linguistici
illocutivi e atti linguistici perlocutivi.
Suddetta distinzione, ripresa da Austin, viene inserita in un quadro
morale e normativo di più ampio respiro.
Mentre in Austin illocuzioni e perlocuzioni convivevano all’interno
della medesima azione linguistica indipendentemente dai piani di
azione dell’attore comunicativo, una netta distinzione tra questi due
piani, possibile alla fine solo riconducendo il discorso ad una
questione di intenzione, riporta all’agire monologico di un attore
solitario e, pertanto, rischia di far ricadere l’etica all’interno del
paradigma coscienzialistico.
La teoria morale non può evitare un confronto con la teoria del diritto;
uno degli aspetti, a mio avviso, meno chiari del pensiero
habermasiano consiste proprio nel rapporto tra morale e diritto.
Mentre, infatti, il filosofo accusa Weber di “non prendere sul serio” il
formalismo morale e, pertanto, di confondere morale ed eticità, egli
stesso si dimostra indulgente, quando non addirittura favorevole, ad
una compromissione del diritto con tradizioni e costumi appartenenti
alla storia e all’eticità di una data società o cultura.
4
La netta separazione, di eredità kantiana, tra Giusto e Bene, va via via scemando nel
corso delle opere habermasiane per lasciare sempre più spazio ad un
Hegel che torna ad emergere prepotentemente negli scritti più recenti.
L’intenzione (in accezione non kantiana) di questo lavoro consiste nel
far emergere, alla luce di problemi e tematiche contemporanee e
attuali, quelli che, a mio avviso, sono i punti di forza della teoria
morale habermasiana; cercherò di difendere questa impostazione
universalistica, cognitivistica, formale e astratta ( in cui io mi
riconosco) da attacchi di matrice comunitarista, neoaristotelica e
neohegeliana.
Al contempo criticherò Habermas laddove non mi appaia coerente o
laddove sembri scendere a compromessi.
Il pensiero di Habermas, nel corso di questo lavoro, verrà confrontato
con quello di altri studiosi contemporanei anche su tematiche di
interesse attuale.
5
Capitolo I
Agire comunicativo
Premessa
In prima istanza desidero chiarire che cosa si intende con l’espressione
“Agire comunicativo”.
Tuttavia non mi è possibile rispondere prima di aver posto le seguenti
premesse.
Tutta la teoria dell’agire comunicativo habermasiana ruota attorno ai
concetti di “intesa” e “coordinazione”.
Il primo di questi termini non sempre viene utilizzato in modo chiaro e
univoco e può, perciò, essere fonte di non pochi interrogativi
all’interno di una teoria che si proponga di spiegare il coordinamento
delle azioni per mezzo del medium verbale.
Per il momento utilizzerò il termine “intesa” nella stessa maniera in
cui viene usato da Habermas, riservandomi di criticare questo
medesimo uso alla fine del capitolo e di mostrare come può dare luogo
a confusione e fraintendimenti.
1.1 Dalla semantica intenzionale alla teoria degli atti linguistici
La Teoria dell’agire comunicativo habermasiana, ritenuta da chi
scrive un capolavoro nel panorama filosofico e sociologico
contemporaneo, vuole dimostrare come attraverso l’intesa linguistica
sia possibile coordinare le azioni sociali di diversi attori prendenti
parte alla situazione comunicativa; ovvero come la funzione precipua
del linguaggio sia quella di medium comunicativo all’interno delle
varie interazioni affinché i diversi partecipanti soddisfino il loro
6
bisogno di coordinazione interpretato nell’orizzonte delle esigenze sociali.
Habermas prende le mosse da alcuni tentativi compiuti in ambito
analitico di rendere conto dell’agire comunicativo.
Assai fecondo risulta essere il tentativo messo a punto da Karl
Buhler.
1
Egli parte dal modello semiotico secondo cui un parlante adopera dei
segni linguistici al fine di intendersi con un uditore ed elenca tre
diverse funzioni d’uso dei segni linguistici:
ξ Cognitiva.
ξ Espressiva.
ξ Appellativa.
La prima funzione d’uso serve al parlante per descrivere uno stato di
fatto; la seconda per esprimere i suoi stati interiori; la terza per
stabilire un’interazione con un destinatario.
Nel primo caso il segno linguistico funziona da simbolo in quanto
rappresenta uno stato di fatto; nel secondo caso è sintomo in quanto
proviene dalla dimensione interiore del parlante; nel terzo caso è
segnale in forza del suo appello all’uditore.
2
Comunicare viene qui inteso come “intendersi con qualcuno su
qualcosa”.
Viene instaurata una triplice relazione tra il significato di
un’espressione linguistica e:
A) ciò che si intende dire per mezzo di essa;
B) ciò che viene detto per mezzo di essa;
C) il modo in cui questa viene utilizzata.
Il linguaggio viene analizzato in rapporto al parlante, al mondo
oggettivo e al contesto specifico.
3
1
Cfr. K. Buhler, Teoria del linguaggio, trad. it. di S. Cattaruzza Derossi, Armando, Roma 1983.
I
Ivi, p. 28.
3
Ivi, p. 81.
7
Le tre correnti contemporanee che soprattutto si sono occupate del linguaggio hanno
sviluppato, a partire da tale teoria, un aspetto particolare ritenuto
portante all’interno dell’orizzonte comunicativo.
Ciascuna ha cercato di dare una risposta al quesito “Che cosa significa
comprendere il significato di un’espressione linguistica?”
commettendo però l’errore, di concentrarsi su un’unica dimensione.
1) Semantica intenzionalistica
La teoria cosiddetta della semantica intenzionale ( o
intenzionalistica) si fonda sull’assunto che comprendere il
significato di un’espressione significhi comprendere l’intenzione con
cui il parlante ha proferito tale espressione: l’uditore H comprende il
significato dell’espressione x se comprende l’intenzione con cui il
parlante S ha proferito x.
Essa si concentra sul primo aspetto della teoria buhleriana, su ciò che
un soggetto intende dire tramite l’espressione linguistica,
prescindendo dalla relazione di questa con il mondo oggettivo dei fatti
e con il contesto specifico in cui viene proferita.
In questo quadro ciò che risulta essere fondante è l’intenzione di una
soggettività che tramite il linguaggio vuole dare forma alle sue
rappresentazioni individuali al fine di produrre un effetto nel mondo
oggettivo in cui si trova inserita.
Le relazioni intersoggettive vengono limitate all’incontro con altre
soggettività anch’esse isolate all’interno delle loro barriere fatte
d’intenzioni strumentali le quali, a loro volta, agiscono
strategicamente le une nei confronti delle altre al fine di veder
realizzati i loro piani egocentrici.
4
Il fatto che le loro interazioni siano mediate linguisticamente è qui di
secondaria importanza; il linguaggio viene usato parassitariamente
come un mezzo tramite cui dar voce alle proprie intenzioni per
esercitare la propria influenza sul mondo e sugli altri.
Limiti di tale teoria
4
Cfr. J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, trad. it. di M. Calloni, Laterza, Roma-Bari 2006, pp. 104-105.
8
Suddetta teoria non coglie il potenziale comunicativo che si esplica nelle interazioni in
quanto riduce la comprensione linguistica a comprensione di stati
interiori e non riesce a rendere conto della differenza che sussiste per
un uditore tra il comprendere i contenuti semantici che un parlante ha
comunicato con l’espressione x e il fine che, invece, ha tentato di
perseguire per mezzo della medesima espressione.
Farò un esempio per rendere più chiara l’obiezione che io muovo a
tale teoria.
Poniamo il caso che un parlante S asserisca in presenza di un uditore
H:
“Mi hanno riferito che quella persona è molto sgradevole”.
Supponiamo che il parlante abbia asserito ciò per scoraggiare l’uditore
a frequentare quella determinata persona.
Da parte dell’uditore la comprensione dell’espressione proferita dal
parlante non è la stessa cosa della comprensione dell’intenzione del
parlante; potrebbe benissimo comprendere il significato
dell’espressione senza, tuttavia, comprendere l’intenzione che vi sta
dietro.
Affinché la comunicazione abbia successo, dalla prospettiva della
semantica intenzionalistica, è necessario che l’uditore colga
esattamente l’intenzione che il parlante, attraverso l’espressione in
questione, ha voluto trasmettergli; essendo l’intenzione uno stato
mentale assolutamente soggettivo non si potrà avere la certezza di tale
successo.
Secondo questa teoria il significato di ciò che viene detto non è
determinato in maniera decisiva da ciò che il parlante effettivamente
dice.
Ma sganciare completamente il linguaggio dal mondo oggettivo
significa, a mio avviso, privare parlante e uditore di quella base
comune cui ancorarsi per raggiungere un’intesa la quale deve
necessariamente oltrepassare i limiti di rappresentazioni mentali
soggettive.
9
La semantica intenzionalistica sembra confondere agire comunicativo e agire
strategico; riconduce ad azioni strumentali un potenziale comunicativo
che non appartiene loro.
Le intenzioni di un soggetto determinato ad influire nel mondo
vengono ritenute centrali per la comprensione di espressioni
linguistiche che dovrebbero, invece, essere volte all’intesa.
2) Semantica formale
La semantica formale fissa il significato di una proposizione nelle
sue condizioni di verità; il significato di una proposizione si
comprende a partire dalle condizioni che deve soddisfare per risultare
vera.
Sarà utile avvalersi di un banalissimo esempio:
consideriamo la proposizione:
“Maria sta mangiando una mela”.
Un uditore che abbia udito tale proposizione comprenderà il
significato se comprenderà quali condizioni deve rispettare per essere
vera.
In questo caso la condizione è che Maria stia effettivamente
mangiando una mela; se l’uditore riconoscerà che la condizione di
verità è la tale allora avrà compreso il significato della proposizione
sopracitata.
Limiti di tale teoria
L’enorme pregio di suddetta teoria consiste nel sottolineare il nesso
che intercorre tra linguaggio e mondo: ponendo il significato di
un’espressione in diretto raffronto con il mondo fornisce quella base
oggettiva su cui tutti i parlanti, in quanto esseri umani condividenti il
medesimo mondo oggettivo, possono intendersi.
Tuttavia si rivela limitata nel trattare tutte le proposizioni secondo il
modello delle asserzioni e, quindi, non riesce a rendere conto in modo
adeguato di tutti quegli usi del linguaggio che non descrivono stati di
fatto oggettivi.
10
Prendiamo il caso di un imperativo: non è possibile analizzare il significato di un
imperativo allo stesso modo del significato di un’asserzione in quanto
nel primo caso entrano in gioco condizioni pragmatiche affatto
trascurabili.
Nel caso di un imperativo (come di qualunque altra esortazione volta a
stabilire un contatto con l’uditore), affinché l’uditore comprenda il
significato dell’azione comunicativa rivoltagli, dovrà comprendere
non soltanto il significato semantico di quanto gli viene detto ma
anche le ragioni pragmatiche che spingono il parlante ad ordinargli
qualcosa.
Un esempio potrà essere di aiuto: “Smetti di fare rumore”.
L’uditore comprenderà il significato dell’imperativo non solo se
comprenderà le condizioni che vengono richieste affinché trovi
compimento ma dovrà altresì comprendere perché il parlante pensa di
poter avanzare tale ordine nei suoi confronti.
In questo caso, pertanto, dovrà comprendere:
ξ che l’imperativo verrà soddisfatto se lui smetterà di fare rumore;
ξ la ragione per la quale il parlante si sente in diritto di impartirgli tale
ordine.
La teoria della semantica della verità, concentrandosi unicamente su
ciò che viene detto a prescindere dalle intenzioni del parlante e
dall’uso linguistico delle espressioni, si rivela carente, a dire il vero,
già nel caso delle asserzioni.
Anche un’asserzione, infatti, non può essere sempre compresa facendo
appello alle sole regole semantiche del linguaggio.
In parecchi casi di uso del linguaggio quotidiano il significato delle
espressioni di cui ci serviamo per comunicare non è comprensibile se
ci si limita ad analizzare ciò che diciamo letteralmente.
In questi casi una teoria corrispondentista che si limita alle sole regole
semantiche non perviene alla effettiva comprensione dell’espressione
proferita dal parlante anche nel caso si trattasse di asserzioni.
Consideriamo il seguente esempio: se io asserissi “Stai tranquilla,
non morirò”.
11
Il mio uditore, sulla base di un’analisi semantica, dovrebbe giungere alla conclusione
che io sia un essere immortale; ciò è assolutamente falso e nessun
parlante competente si accontenterebbe di tale risultato.
Di conseguenza le opzioni diventano due:
ξ Io ho mentito intenzionalmente al mio uditore.
ξ Il significato della mia espressione necessita di un completamento
pragmatico affinché ciò che io ho detto risulti credibile.
La prima possibilità deve necessariamente venire esclusa perché
all’interno di un mondo oggettivo intersoggettivamente condiviso da
tutti gli esseri umani ciascuno è al corrente della mortalità di ogni altro
e, pertanto, una menzogna siffatta risulterebbe ridicola.
Dunque non rimane che accettare che anche per comprendere
un’asserzione come la sopracitata è necessario un completamento
pragmatico che tenga conto anche del contesto e della situazione che
stanno sullo sfondo dell’azione comunicativa.
3) Teoria del significato come uso
Alla base di questa teoria, che prende avvio a partire dal secondo
Wittgenstein, c’è l’assunto che il significato di un’espressione è dato
dall’uso della stessa: comprendere che cosa un’espressione significa
vuol dire sapere quando deve essere usata e quando no.
L’orizzonte linguistico viene a fondersi con un contesto fatto di
abitudini e tradizioni in cui ogni singola espressione comunicativa
ricopre un ruolo preciso; il linguaggio viene a legarsi in una relazione
indissolubile non più con il mondo oggettivo dei fatti ma con il mondo
della vita cui parlante e uditore appartengono.
Ogni “gioco linguistico” funziona secondo regole sue proprie non
suscettibili di generalizzazione e il significato di un’espressione è
dato, di volta in volta, dall’uso che di essa viene fatto.
Al contrario della semantica intenzionale che colloca in primo piano
l’intenzione soggettiva volta all’agire strumentale, la teoria dell’uso
del significato “non pone l’accento sul carattere utensilistico del
linguaggio, bensì sull’intreccio del linguaggio con una prassi
12
interattiva in cui viene riprodotta e nello stesso tempo viene a rispecchiarsi una forma
di vita.”
5
Passano in secondo piano tanto la prospettiva soggettiva del parlante
quanto il rapporto linguaggio- mondo dei fatti in favore di un insieme
di relazioni interpersonali che fanno da sfondo alle situazioni
comunicative date di volta in volta.
I giochi linguistici vengono interpretati come “riflessi di pratiche
previamente stabilite.”
6
Limiti di tale teoria
A mio avviso relazionando così strettamente il significato di
un’espressione linguistica al contesto sociale in cui si presenta,
vincolandolo al mondo della vita del parlante e dell’uditore, risulta
inevitabile rinunciare a quell’universalità che intuitivamente siamo
soliti attribuire, quantomeno, alle asserzioni.
Se nel caso di proposizioni regolative o espressive siamo disposti a
concedere una maggiore dipendenza dal contesto, tuttavia ciò ci
appare assolutamente controintuitivo per quanto concerne
proposizioni constatative riguardanti il mondo dei fatti.
Il mondo oggettivo, infatti, indipendente da credenze e particolarismi
locali è il medesimo per tutti e, pertanto, una teoria del significato che
voglia rendere possibile la comunicazione intersoggettiva al di là
dell’appartenenza al medesimo gioco linguistico, deve
necessariamente tenere conto del rapporto tra linguaggio e mondo
oggettivo.
Se lasciamo cadere questa corrispondenza oggettiva, cosa ci darà la
certezza che la medesima asserzione, cambiato il contesto
comunicativo, manterrà il medesimo significato?
Chi ci assicura che un’asserzione vera in un dato gioco linguistico
continuerà ad essere vera anche all’interno di un’altra interazione?
La teoria dei giochi linguistici, lasciando cadere il riferimento al
mondo oggettivo, perde ogni possibilità di universalizzazione e,
5
Ivi, p. 110.
6
Ibidem.
13
pertanto, rischia di precipitare in una sorta di relativismo linguistico- comunicativo.
4) Teoria degli atti linguistici
Austin, Searle e Strawson infine, sviluppano una teoria incentrata
sugli atti linguistici collegando le intuizioni che stanno alla base della
teoria dei giochi linguistici del secondo Wittgenstein con alcune
intuizioni di fondo della semantica formale.
7
Infatti sviluppano una ricerca dettagliata su come il linguaggio sia
internamente connesso alle forme di vita non sottovalutando, però, a
differenza del secondo Wittgenstein, il rapporto tra linguaggio e
mondo oggettivo, tra proposizione e stato di cose centrale nella
semantica formale.
8
Essi distinguono l’atto locutivo con cui il parlante dice qualcosa
dall’atto illocutivo con cui il parlante compie un’azione sociale.
L’atto locutorio costituisce la parte razionale dell’enunciato: il
parlante si serve di atti locutori per dire come stanno le cose; è
suscettibile di essere giudicato come vero oppure come falso.
L’atto illocutorio, invece, costituisce la parte irrazionale
dell’enunciato, per mezzo di esso il parlante non dice nulla ma compie
un’azione sociale con cui si rapporta agli altri. Gli atti illocutori non
possono essere valutati come veri o come falsi, possono riuscire o
fallire, avere successo oppure no: ad esempio se un parlante pronuncia
una determinata espressione in un contesto poco appropriato l’atto
illocutorio non ha successo ma non si può dire nulla riguardo la verità
o falsità del medesimo.
“Mentre gli atti locutori rendono possibile un uso cognitivo del
linguaggio in un certo qual modo applicato al mondo oggettivo,
tramite atti illocutori il parlante e l’ascoltatore possono invece mettersi
in relazione vicendevolmente; questi servono all’uso interattivo del
linguaggio”.
9
7
Cfr. J. L. Austin, Come fare cose con le parole, a cura di C. Penco e M. Sbisà, Marietti, trad. it. di C. Villata, Genova
2002.
8
J. Habermas, Il pensiero post-metafisico, cit. p. 116.
9
Ivi, p. 117.
14
Questo dualismo, per evidenti ragioni, non può sussistere se non a livello astrattamente
analitico; di fatto la componente locutoria e quella illocutoria si
trovano sempre insieme: se compio un’azione nel dire qualcosa io sto
comunque dicendo qualcosa che deve poter essere giudicato come
valido o non valido anche se non necessariamente sotto il profilo della
verità.
Limiti di tale teoria
Questa teoria avrebbe potuto porre le basi per un ampliamento in
chiave pragmatica della dimensione comunicativa se non fosse rimasta
“prigioniera di un approccio alla comprensione del significato di
matrice verificazionista”.
10
Il limite più grande di siffatta teoria consiste nell’essere rimasta
ancorata ad un modello di comprensione strutturato secondo il
rapporto linguaggio- mondo.
Certamente tanto Strawson quanto Searle hanno tentato un
allargamento della teoria della comprensione per rendere conto anche
di tutti quegli atti linguistici non constatativi con cui abitualmente
comunichiamo.
Il primo ha proposto di sostituire il concetto di condizioni di verità con
quello di condizioni di adempimento; il secondo ha, dal suo canto,
introdotto le cosiddette condizioni di soddisfazione per spiegare la
forza illocutoria non soltanto di atti constatativi bensì anche di atti
direttivi e commissivi.
Eppure non sono riusciti ad oltrepassare quella barriera eretta da Frege
e dal primo Wittgenstein consistente nel rapporto di corrispondenza
linguaggio- mondo là dove, invece, sarebbe stato necessario per
rendere conto della riuscita o del fallimento delle interazioni
comunicative abituali.
Infatti il significato di atti linguistici direttivi o commissivi o
espressivi “non viene compreso in modo affatto sufficiente se si sa a
quali condizioni possa venir considerata adempiuta o soddisfatta, nel
10
Cfr. K. O. Apel, Discorso, verità, responsabilità, trad. it. di V. Marzocchi, Guerini, Milano 1997, p. 170.
15
senso di una world to word direction of fit, l’intenzione di senso a essi soggiacente”.
11
Infatti il destinatario di un ordine non comprende la forza illocutiva
dell’atto direttivo rivoltogli allorquando comprenda solamente il
significato proposizionale dell’ordine; la sua comprensione sarà
adeguata allorchè comprenderà l’ordine come tale.
Faccio un banale esempio per rendere più chiara la questione;
poniamo il caso che un genitore si rivolga al figlio ordinando “Smetti
di fare rumore”
Il destinatario dell’ordine avrà compreso adeguatamente l’atto
linguistico rivoltogli non soltanto se avrà compreso il contenuto
proposizionale dell’imperativo ( in questo caso smettere di fare
rumore) ma allorchè avrà compreso che quello che gli viene rivolto è
un ordine e non, ad esempio, un desiderio o un’opinione o una
confessione o un asserzione.
Se infatti rispondesse “No, non smetto di fare rumore in quanto non
ho intenzione di soddisfare il tuo desiderio” come anche “Sì smetto di
fare rumore e soddisfo il tuo desiderio” non avrebbe affatto capito la
forza illocutoria dell’atto linguistico.
L’avrebbe compresa, invece, nel caso in cui rispondesse “Sì obbedisco
al suo ordine” oppure “No, non obbedisco perché non hai alcun
diritto di impartirmi ordini”.
Questo banale esempio sta a dimostrare come non sia sufficiente la
sola comprensione delle condizioni di soddisfazione o di
adempimento, le quali si riferiscono al contenuto proposizionale e agli
stati intenzionali del parlante, per cogliere la forza illocutiva degli atti
linguistici.
5) Teoria dell’agire comunicativo
È proprio a questo punto che entra in scena la teoria dell’agire
comunicativo habermasiana.
11
Ivi, p. 171.