4
della macchina da presa stessa all’interno del quadro; poiché ella ritaglia
un pezzo dello spazio visivo in maniera interessata, costituisce già un
montaggio»
1
. Risulta quindi difficoltoso (quando non impossibile) scindere
gli effetti strettamente legati al montaggio, da quelli cercati attraverso la
gestione degli altri elementi del linguaggio cinematografico (cfr. 1.2).
L’obiettivo è di cercare comunque di tenere distinti il più possibile gli ef-
fetti che possono essere ritenuti principalmente dovuti alla costruzione
effettuata dalla post-produzione, da quelli suscitati piuttosto dagli altri e-
lementi cinematografici. Non è necessario tenere in considerazione la di-
stinzione tra montage, effettuato nel momento del taglio materiale, e dé-
coupage, già previsto in sceneggiatura. Data l’impossibilità di stabilire
dove concretamente c’è stata l’azione portante del découpage e dove
quella del montage, non c’è motivo per separare queste due fasi: la paro-
la ‘montaggio’ servirà ad integrarle in maniera indistinta. È inoltre impos-
sibile determinare da un film compiuto cosa è stato frutto di una scelta di
montaggio e cosa invece era già previsto in sceneggiatura, in quanto so-
no due stadi della realizzazione del film concettualmente molto vicini, le-
gati entrambi al fondamentale scopo di darsi per lo spettatore. La distin-
zione che verrà fatta tra montaggio e sceneggiatura avrà uno scopo pu-
ramente teorico, non contemplerà quindi l’effettiva prassi.
Infine, sulla questione dell’esaustività degli argomenti trattati la sfi-
da sta nel riuscire a mantenere un difficile equilibrio tra il delirio di onni-
potenza scatenato dalle incredibili potenzialità del mezzo e la consapevo-
lezza che lo spettatore è sempre pronto a sfuggire al gioco, anche se vi si
è prestato volontariamente. Per evitare quindi facili entusiasmi è preferi-
bile innanzitutto concentrarsi sull’apparato teorico di base, da cui svilup-
pare poi le tecniche da mettere concretamente in pratica (che comunque
verranno accennate). Tenendo conto di queste limitazioni, ciò che mi so-
no proposta di creare e spiegare è una griglia di riferimento (essa stessa
passibile di ampliamento). Non un saggio completo, dunque, ma
1
P. Bonitzer, (seconda metà anni 70), Le champ aveugle, Cahiers du cinéma-Gallimard, Paris, 1999,
p.85 (traduzione mia).
5
un’ipotesi di studio e di riflessione sui legami diretti che possono esserci
tra la costruzione del montaggio di un’opera cinematografica e le reazioni
dello spettatore alla sua fruizione. È proprio la volontà di legare diretta-
mente questi due oggetti di studio che sembra mancare nei i saggi finora
pubblicati. È anche tale presunta carenza che mi spinge ad addentrarmi
in questo approccio, evitato finora anche per il facile rischio di cadere in
generalizzazioni. Probabilmente poi è stato dato spesso per scontato che
il montaggio fosse la costruzione di un racconto rivolto ad un pubblico,
considerandolo uno strumento tecnico dal quale non si può comunque
prescindere. Solo negli ultimi due decenni, in ambito anglosassone, si è
cominciato a riflettere più precisamente sul ruolo della psicologia cogniti-
va nella fruizione cinematografica, concependo quindi lo spettatore come
principale oggetto di indagine. Questo campo di studio si è sviluppato in
maniera più consistente negli anni ’80, in particolare a partire dal lavoro
di David Bordwell Narration in the Fiction Film del 1985 (peraltro mai tra-
dotto in lingua italiana), assieme a Edward Branigan e Noël Carroll, per
citare i più noti in ambito internazionale.
In virtù di una sempre più diffusa tendenza allo studio multidiscipli-
nare in ambito umanistico, verranno accostati i diversi approcci della se-
miotica (e narratologia), della psicologia cognitiva, della psicanalisi,
dell’antropologia e anche della sociologia, ambiti di studio spesso ritenuti
inconciliabili, per individuare invece ciò che di più produttivo vi è in cia-
scuno di essi ai fini di questa tesi.
Non è mia intenzione superare tutti i dibattiti che hanno riempito
pagine e pagine di libri per determinare il ruolo (più o meno passivo) del-
lo spettatore nei confronti della fruizione cinematografica
2
. Non voglio
neppure aggiungere le mie idee a queste controversie teoriche a mio pa-
2
I vari teorici di cinema concepiscono il ruolo dello spettatore all’interno di un continuum che va dal sem-
plice “decodificatore” a quello di “interlocutore”: come il testo costruisce il proprio lettore, come il lettore
(ri)costruisce il testo. Già Benjamin (in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”) diceva «Le di-
rettive […] diventeranno ben presto più precise ed impellenti nel film, dove l’interpretazione di ogni singola imma-
gine appare prescritta dalla successione di tutte quelle che sono già trascorse». Per citare altri nomi, tra i più no-
ti: Barthes (S/Z, 1970) ritiene che fruire un testo equivale a riscriverlo; Bellour (Analyse du film, 1979) invece rive-
la le tracce che in un testo segnalano la presenza di un “lettore implicito”; Casetti (Dentro lo sguardo, 1986) indi-
vidua più precisamente la presenza, il posto e il percorso di uno spettatore all’interno di un testo filmico.
6
rere insolubili. Quello che mi compete, lo ribadisco ancora una volta, è e-
videnziare solo come sia comunque possibile prevedere in linea di mas-
sima, attraverso certi accorgimenti tecnici di montaggio, le reazioni dello
spettatore.
Il centro di attenzione di questa tesi sarà prevalentemente il cinema
cosiddetto ‘narrativo’ e di finzione, tralasciando l’intricato ambito del ci-
nema di sperimentazione e ipotizzando solo per analogia l’applicabilità
delle tecniche individuate anche al cinema più documentaristico.
Considerando che l’importanza primaria dell’impatto sullo spettatore
sia innanzitutto il ‘visivo’, verrà trascurato il ‘sonoro’, anche perché si a-
prirebbe un campo ancora più vasto, che necessiterebbe probabilmente di
uno studio a parte. L’analisi si concentrerà quindi sulle tecniche di mon-
taggio legate esclusivamente alla pista visiva, considerando che incidano
maggiormente sulle reazioni dello spettatore, anche indipendentemente
dall’azione della pista sonora.
Si tenterà di tenere distinte, per quanto possibile, la teoria e le tec-
niche relative al montaggio delle singole inquadrature, delle scene, delle
sequenze. Il piano sequenza invece verrà considerato alla stessa stregua
degli altri elementi cinematografici capaci di influenzare, nonostante sia
un’importante forma di montaggio (‘montaggio interno’), che fa coincide-
re il découpage con la ripresa, senza passare attraverso la post-
produzione. Anche in questo caso si aprirebbe un campo estremamente
esteso e ancora meno facilmente analizzabile e delimitabile, anche perché
il piano sequenza lascia molta più libertà all’attenzione selettiva dello
spettatore.
7
Alcune precisazioni terminologiche.
Per facilitare la comprensione di un qualunque prodotto comunicati-
vo, è necessario fornire ai destinatari un orientamento all’interno della
terminologia adottata. Spesso l’autore ne fa uso dando per scontato un
significato univoco, senza quindi esplicitarlo chiaramente. Ritengo quindi
necessario spiegare in una maniera la più precisa possibile, il significato
che intendo trasmettere dei termini più ricorrenti e rilevanti.
- Per comodità e brevità si parlerà di ‘macrostruttura’, per designare
l’articolazione della successione dei “sintagmi”
3
o “segmenti autonomi”
(“segmenti minimi” formati da più “piani”, che costituiscono delle unità
dotate di senso
4
) e di ‘microstruttura’, per indicare la gestione
dell’accostamento delle inquadrature per costruire un singolo sintagma
(di cui il montaggio è il principale e fondamentale artefice). Il film è defi-
nito come “sintagma massimo”
5
del cinema.
- Si utilizzerà la distinzione di “fabula” e “intreccio” operata dai for-
malisti russi negli anni ’20
6
: fabula sono gli eventi da raccontare (sinoni-
mo di “storia” su di un piano più generale); intreccio si deve intendere
come modo di raccontare gli avvenimenti della fabula (sinonimo di “di-
scorso”, su di un piano più generale). Fabula e intreccio insieme costitui-
scono il “racconto”.
- Verrà impiegata preferibilmente la parola ‘autore’ piuttosto che
‘regista’, perché regista è un termine che, soprattutto in ambito hollywo-
odiano, ha un significato molto ristretto; l’autore è invece da considerarsi
l’entità che ha concepito l’intero film, dalla sceneggiatura al “final cut”.
3
Cfr. Metz, in particolare nel saggio “Problèmes de dénotation dans le film de fiction. Contribution à une
sémiologie du cinéma” (1966), trad. it. “Problemi di denotazione nel film di finzione”, in Semiologia del cinema,
Garzanti, Milano, 1980.
4
Metz definisce più precisamente il “segmento autonomo” come «ogni passo di film che non sia interrot-
to né da un cambiamento forte nel corso della trama, né da un segno di punteggiatura, né dall’abbandono di un
tipo sintagmatico per un altro». In C. Metz, “Ponctuations et démarcations dans le film de diégèse”, (1971-1972),
(trad. it. “Interpunzione e demarcazione nel film diegetico” in La significazione al cinema, Bompiani, Milano, 1975,
p. 258).
5
Ivi, p. 180.
6
Tra i più importanti: Boris Eichenbaum, Viktor Shklowski, Yuri Tinianov. Riferimento principale fu il vo-
lume “Poetika kino” (poetiche del cinema), pubblicato nel 1927. (tra i più importanti: Boris Eichenbaum, Viktor
Shklowski, Yuri Tinianov)
8
‘Entità’ in quanto capita che questa non sia incarnata in un essere uma-
no, ma che vi siano degli ‘organi superiori’ (come la casa di produzione
hollywoodiana) che influiscono profondamente sul risultato finale del film.
- “Profilmico”: ogni elemento appartenente alla realtà, legato alla
realizzazione del film.
- “Diegesi”: l’universo (ri)costruito dal film, reso omogeneo e coe-
rente essenzialmente dall’attività inferenziale e di formazione di ipotesi
dello spettatore (cfr. 2.2.2). Ogni elemento che appartiene a questa real-
tà fittizia è definito diegetico. Il termine deriva dalla Repubblica di Platone
ed è stato ripreso nell’accezione qui utilizzata da Etienne Souriau nel
1953
7
.
- ‘Mdp’: abbreviazione per ‘macchina da presa’.
- “Codice” linguistico: in generale è un sistema di convenzioni e re-
gole per costruire un “testo”, in particolare è uno specifico procedimento
per organizzare il discorso. Il cinema non è dotato di una “unità di codi-
ce”
8
, ma costituisce un insieme che si compone di diversi codici: visivi,
sonori, narrativi, sintattici. Il montaggio è tipicamente un codice sintatti-
co.
- Il “testo filmico” è definibile come enunciato autonomo e autosuffi-
ciente, unità di discorso garantita da una successione di segni linguistici
combinati secondo i codici del linguaggio cinematografico.
- Tenendo come punto di riferimento analitico
9
il singolo testo filmico
preso nella sua globalità, non si può prescindere dalla quadripartizione
che Hjelmslev
10
propone del segno. Egli lo concepisce come un’entità a
due facce, diviso in due “piani” (del “contenuto” e dell'“espressione”, che
7
E. Souriau et al., L’univers filmique, Flammarion, Paris, 1953.
8
Cfr. C. Metz, “Specificité des codes et specificité des langues”, 1969 (trad. it “Specificità dei codici e
specificità dei linguaggi” in La significazione al cinema, cit.). Ogni singolo film combina in maniera particolare
questi diversi codici intertestuali (specifici del cinema) ed extratestuali (non specifici del cinema, ma appartenenti
ad altri ordini di significazione di tipo culturale).
9
È estremamente importante esplicitare il “livello di senso”, come lo definisce Metz, su cui poggia
l’analisi, in quanto la distinzione che Hjelmslev fa del segno è «relativa rispetto a tutti i diversi casi a cui si appli-
ca, assoluta in ciascuno di tali casi». Cfr. C. Metz “Il dire e il detto al cinema: verso il declino di un Verosimile?”,
in Semiologia del cinema, cit., nota 4, pp. 321-322.
10
L. Hjelmslev L., Omkring Sprogteoriens Grundlæggelse, Festskrift udg. af Københavns Universitet,
København, 1943 (trad. it. I fondamenti della teoria del linguaggio, Einaudi, Torino, 1968).
9
possono riferirsi, rispettivamente, al senso del racconto e alla sua rappre-
sentazione), ognuno dei quali è diviso in due parti (“sostanza” e “forma”,
che insieme costituiscono la “materia”). In ambito cinematografico
11
si dà
luogo quindi a quattro differenti aspetti del testo filmico: la sostanza del
contenuto (il ‘soggetto’ del film: il suo contenuto sociale, la tematica af-
frontata); la forma del contenuto (la struttura del soggetto del film, la
fabula
12
); sostanza dell’espressione (il mezzo concreto che permette la
comunicazione, che corrisponde alla “materialità percettiva” del film: la
pellicola, con le sue immagini chimiche e la sua colonna sonora); la forma
dell’espressione (l’insieme delle configurazioni della “materialità percetti-
va” i e il loro ordine: l’intreccio).
- “Segno”, “significante”, “significato”.
Secondo Saussure
13
il segno è costituito da due elementi: il signifi-
cante, che è la manifestazione fisica del segno e il significato, che è il va-
lore semantico psichico che noi gli attribuiamo. È il sistema di significa-
zione che regola i rapporti tra questi tre elementi. In particolare, «il lin-
guaggio cinematografico non è una serie di significanti, ma una serie di
significazioni»
14
.
- La classificazione fatta da Pierce
15
riguardo i segni (per come essi
si riferiscono al “referente”, cioè all’oggetto reale,) è utile per comprende-
re il significato dei termini “indice”, “icona” e “simbolo”. L’indice intrattie-
ne un rapporto di causalità col suo referente (l’oggetto lascia un’impronta
di sé nel segno); l’icona ha una relazione di somiglianza con il suo refe-
rente (ogni rappresentazione artistica può essere considerata un’icona); il
11
Per l’applicazione dell’analisi hjelmsleviana al cinema cfr. C. Metz, “Propositions Mètodologiques pour
l’analyse du film”, 1968 (trad. it “Ipotesi metodologiche per l’analisi del film” in La significazione al cinema, cit.).
Per chiarire la distinzione tra i due piani, basti citare l’affermazione che egli fa in proposito in un altro saggio “Il
dire e il detto al cinema: verso il declino di un Verosimile?” (cit., p. 322): «tale distinzione, come anche quella tra
significante e significato, serve a differenziare quel che si vede sempre da quel che si deve sempre cercare».
12
Di una sostanza del contenuto possono essere concepite infinite varianti di forma del contenuto.
13
F. De Saussure, Cours de linguistique générale, Payot, Paris, 1916 (trad. it Corso di linguistica gene-
rale, Laterza, Roma/Bari, 1967).
14
C. Metz, “Ipotesi metodologiche per l’analisi del film” in La significazione al cinema, cit., p. 163.
15
Charles Sanders Peirce, Collected Papers, vol. I-IV, a cura di C. Hartshorne e P. Weiss, The Belknap
Press of Harvard University Press, Cambridge, 1931-1935 (trad. it parz. Pierce C. S., Semiotica, Torino, Einaudi,
1980).
10
simbolo ha un legame convenzionale e arbitrario col suo referente (ogni
parola di ogni lingua naturale può essere considerata un simbolo).
- Secondo Benveniste
16
, l’“enunciazione” è il processo che porta da
un’istanza virtuale, una frase astratta, ad un’istanza reale, una realizza-
zione particolare: l’“enunciato”. L’enunciazione è un dire e l’enunciato un
detto.
- La “marca di enunciazione” può essere intesa come qualunque e-
lemento non appartenente alla diegesi, che rivela la presenza di
un’intenzionalità comunicativa.
- “Istanza narrativa”, “narratore”.
L’istanza narrativa è il soggetto dell’enunciazione, l’entità che nel ci-
nema non solo “narra”, ma anche inevitabilmente “mostra” (cfr. il para-
grafo 3.2.2 per chiarimenti su questa distinzione). È preferibile al termine
“enunciatore”, in quanto quest’ultimo è prettamente usato dall’analisi
semiotica. È incarnata in coloro che hanno determinato il film così come
viene presentato ed è la responsabile dell’attuazione di strategie di co-
municazione, a partire dalle sue intenzionalità comunicative in base a
quanto essa “sa”.
Il termine narratore verrà impiegato solo per designare il personag-
gio delegato dall’istanza narrativa, per assolvere (anche se solo apparen-
temente) alle sue due funzioni di mostrare e narrare. Il concetto di narra-
tore così inteso si riferisce quindi al narratore diegetico.
- Per quel che riguarda la traslitterazione dei nomi propri dal russo,
data la difficoltà a reperire gli originali in cirillico, non mi avvarrò della co-
siddetta “trascrizione scientifica”, ma sceglierò una traslitterazione so-
stanzialmente ‘arbitraria’, nel tentativo di semplificarla, ma mantenendola
omogenea: Sergei Eisenstein, Kuleshov, Pudovkin, Mosjukin, Eichen-
baum, Potemkin.
16
E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris, 1966 (trad. it. Problemi di lingui-
stica generale, Milano, Il Saggiatore, 1971).
11
1 INTRODUZIONE
Ainsi une image est toujours commentée, doublée, suivie ou précédée
d'une autre image. Et là commence, avec ou sans montage, la manipulation.
Marc Ferro
17
È necessario ampliare alcuni cenni fatti in premessa riguardo
all’ambito e agli oggetti di studio. Devono essere esplicitate le variabili
imprescindibili da tenere sempre in considerazione, per poterle mantene-
re preferibilmente implicite lungo il dispiegarsi di questa tesi.
In generale non va dimenticata la difficoltà a tenere distinto ciò che
è innato nel nostro sistema cognitivo-percettivo, da ciò che è stato invece
appreso per abitudine alla percezione della realtà o per abitudine alla
fruizione cinematografica.
1.1 LO SPETTATORE
Sebbene si possa supporre (seguendo le diverse ipotesi di psicologia
cognitiva, cfr. 1.3) che gli esseri umani dispongano di un insieme di strut-
ture cognitive innate, non bisogna comunque dimenticare che l’influenza
delle contingenze esterne è profonda e che alla stessa fruizione di un film
possono corrispondere anche visioni radicalmente differenti. Verranno
quindi individuate quelle variabili legate appunto alle ‘contingenze ester-
ne’, comuni denominatori da tenere sempre in considerazione per potere
creare uno spettatore ‘ideale’ di riferimento.
- IL ‘CONTRATTO’.
Andare al cinema è e deve essere una scelta volontaria. Lo spettato-
re che si presta alla fruizione cinematografica paga per stipulare un ‘con-
tratto’ con l’autore. In quanto contratto, esso deve normalmente essere
reciproco: lo spettatore ascolta quello che l’autore ha da dirgli poiché
presuppone che egli conosca ciò di cui parla; l’autore deve costruire un
17
(Così un’immagine è sempre commentata, doppiata, seguita o preceduta da un’altra immagine. E qui
comincia, con o senza montaggio, la manipolazione). Egli si riferiva in particolare all’“Effetto Kuleshov”. Marc Fer-
ro, L'information en uniforme. Propagande, désinformation, censure, et manipulation, Ramsay, Paris, 1991, p.
88.
12
mondo coerente e sensato, mentre lo spettatore si lascia trasportare dal-
la finzione, senza opporre eccessiva resistenza. Si determina tuttavia
all’interno di questo ‘contratto’ un atteggiamento paradossale da parte
dello spettatore: egli deve contemporaneamente credere all’autore, pur
sapendo implicitamente di poter essere ingannato. L’inganno è efficace
solo se lo spettatore mette da parte la propria coscienza critica.
- IL LUOGO E LE CONDIZIONI DI FRUIZIONE.
Le condizioni che permettono un’adeguata “entrata nella finzione”
(cfr. 2.2.1) cinematografica sono per la psicanalisi simili alle caratteristi-
che dello stato di sonno o sogno. Il buio da cui si è attorniati; la fruizione
collettiva (l’essere circondato da altre persone), ma nello stesso tempo
individuale (pena la ‘fuoriuscita’ dalla finzione, in caso di distrazione); la
sottomotricità; la parziale passività (sospensione temporanea del corso
della vita reale).
La visione casalinga dei film all’interno della programmazione televi-
siva oppure mediante VHS o DVD è potenzialmente molto differente.
- LA DISTANZA DALLO SCHERMO.
Burch
18
ritiene che la distanza ottimale dallo schermo corrisponda a
circa il doppio della sua larghezza. Egli fa il parallelo con la pittura, dove
una determinata composizione non è valida per essere percepita a tutte
le distanze.
- NELL’ATTO DI GUARDARE, NON NEL RICORDO DI UNA VISIONE.
Il ricordo confonde eccessivamente ciò che è stato effettivamente
esperito con le proprie aspettative al riguardo, ma soprattutto con le infe-
renze ed ipotesi fatte nel momento della visione (cfr. 2.2.2), che tendono
a rendere l’intreccio molto più lineare, consequenziale ed omogeneo di
come di solito viene presentato.
- ALLA PRIMA VISIONE DI UN FILM.
Più visioni di un film permettono allo spettatore una maggiore libertà
di focalizzarsi su particolari che per limiti delle risorse cognitive (cfr. 1.3)
ad una prima visione aveva trascurato a favore della comprensione dei
18
N. Burch, (1969), Prassi del cinema, Pratiche, Parma, 1980, p. 41.
13
fatti narrati. La seconda visione favorisce un’attitudine critica piuttosto
che partecipativa nei confronti del film
19
.
Anche le conoscenza pregresse sulla trama del film, influiscono net-
tamente sulla sua comprensione, innanzitutto facilitandola.
- IN UNO STATO “CONCENTRATO”.
Lo spettatore non dovrebbe perdersi in divagazioni estranee al flus-
so filmico.
- LA “SOSPENSIONE DEL GIUDIZIO”.
L’“entrata nella finzione” e la permanenza in essa richiedono una
“sospensione del giudizio”, la regressione ad uno stato in cui non vengo-
no normalmente messe in atto valutazioni critiche di quanto sottoposto
alla propria visione. Nel momento in cui lo spettatore smette più o meno
volontariamente di credere in ciò che gli viene mostrato, allora riattiva le
sue facoltà critiche ed esce dalla finzione (cfr. 2.1).
- L’ETÀ.
Nei bambini l’attenzione si concentra sulle singole immagini e non
sulla relazione che esse instaurano nel loro succedersi (visione “sincreti-
ca”
20
), la continuità non viene così percepita e la narrazione non compre-
sa. Questo accade almeno fino ai primi anni di vita
21
, quando il problema
principale è la semplice ricostruzione delle singole azioni e dell’ambiente.
- L’APPARTENENZA CULTURALE.
Il cinema crea un’“impressione di realtà” (cfr. 2.2.6), che porta
spontaneamente a sovrastimare la sua somiglianza al mondo tangibile.
Come invece mette in evidenza Lotman
22
, il cinema è un linguaggio e
come tale convenzionale. I segni iconici da cui è costituito sono una con-
venzione allo stesso modo di quelli verbali: la loro semplicità di lettura in-
fatti è caratteristica solo di una specifica area culturale. Intuitivamente,
poi, per poter riconoscere delle immagini è necessario avere già esperito
19
J. Mitry, Esthétique et psychologie du cinéma (II – Les formes), cit., p. 60.
20
D. Giordano, Film e spettatore, Lupetti, Milano, 1994, p. 28.
21
Cfr. gli esperimenti di G. Mialaret e M.G. Méliès, “Expériences sur la compréhension du langage ci-
nématographique par l’enfant”, in Revue Internationale de Filmologie, n. 18-19, 1954.
22
Jurij M. Lotman, (1973), Semiotica del cinema, Del Prisma, Catania, 1994, pp. 21-25.
14
nella realtà il referente (o la categoria, in genere socialmente determina-
ta, a cui esso appartiene): già Filostrato diceva (a proposito di ‘codici
condivisi’) che nessuno può intendere il cavallo o il bue dipinti se non sa
come sono tali animali. La lettura di un prodotto audiovisivo richiede una
‘competenza’
23
. Una dimostrazione di questa affermazione la si trova in
alcune popolazioni, dove si riscontra lo stesso problema che nei bambini,
di una visione “sincretica”, a causa di una mancata socializzazione alla
fruizione degli audiovisivi. Non si tratta di un diverso modo di percepire il
reale, quanto piuttosto una differente interpretazione di quanto percepi-
to
24
. McLuhan
25
ipotizza che difficoltà di comprensione del linguaggio fil-
mico possano essere dovute alla tendenza di esplorare le immagini per
coglierne i particolari, qualora manchi l’abitudine di mettere a fuoco
l’immagine un po’ prima dello schermo per poterla vedere nel suo insie-
me.
Anche l’appartenenza sessuale si può supporre determinante per
percepire il film in maniere differenti, fondamentalmente per ragioni cul-
turali, storicamente e socialmente determinate.
In ogni caso vi è una differenza radicale soprattutto a livello di com-
prensione, a seconda del bagaglio culturale che ogni individuo diversa-
mente possiede, pur appartenendo alla stessa “macrosocietà”. La discri-
minante è in particolar modo la comprensione della forma
23
La ‘competenza’ è un concetto articolato, nato con gli studi di linguistica. Una persona è ritenuta com-
petente nell’uso di un dato linguaggio, qualora sia in grado di padroneggiare quattro elementi: sapere cosa e in
quale misura è formalmente possibile, realizzabile (in virtù dei mezzi di esecuzione disponibili), appropriato (in
relazione al suo contesto d’uso e valutazione) ed effettivamente realizzato. La competenza non è quindi solo di
tipo linguistico, ma è strettamente legata all’ambito sociale in cui un linguaggio viene utilizzato.
24
Curioso è il caso riportato da M. Herskovits, citato da Marazzi: una donna africana non era capace di
riconoscere in fotografia l’immagine del proprio figlio. L’ipotesi esplicativa che è stata data non verteva sulla in-
capacità della donna di riscontrare una somiglianza tra la riproduzione e la realtà, quanto piuttosto da una man-
cata esposizione a immagini nella sua cultura di appartenenza. In A. Marazzi, Antropologia della visione, Caroc-
ci, Roma, 2002, p. 45.
Un’altra abitudine che cambia a seconda del tipo di società è la capacità di riconoscere più facilmente
immagini “epitomiche” o al contrario “eidoliche”, secondo la distinzione fatta da B. Deregowski (cit. da Marazzi,
ivi, p. 46). Le prime descriverebbero i tratti essenziali dell’oggetto, mentre le seconde cercano di riprodurne la
profondità.
25
Egli fa riferimento alle ricerche effettuate dall’antropologo John Wilson. In Herbert Marshall McLuhan,
(1962), in C. Grassi (a cura di), Cinema come macchina produttrice di emozioni. Tempo e spazio nel cinema,
Bulzoni, Roma, 1998, p. 279.
15
dell’espressione. La forma del contenuto (la fabula) è in genere più facil-
mente accessibile, anche se il livello di astrazione a cui l’interpretazione
del soggetto può arrivare varia molto. Il grado di coinvolgimento cambia
a seconda della familiarità col linguaggio cinematografico e il livello di co-
noscenza degli artifici tecnici per costruire un film. La competenza lingui-
stica è un fattore determinante, poi, di quella che nell’introduzione al ca-
pitolo secondo chiamerò ‘salienza’: maggiore è l’interiorizzazione dei co-
dici del linguaggio cinematografico, maggiore sarà l’immediatezza nel co-
gliere gli elementi che risultano ‘significativi’ rispetto al flusso omogeneo
di immagini. Secondo Marazzi
26
è una caratteristica delle “società metro-
politane complesse e culturalmente multiple” il permettere la decodifica
sia secondo modi personali, sia in maniera condivisa. Quello che varia poi
è anche quello che Rivers
27
chiama “potere di osservazione”: quanto
maggiore è la familiarità con l’ambiente (e quindi con quel determinato
linguaggio della comunicazione), tanto più acuta e precisa sarà
l’osservazione, non dovendosi più concentrare sulla comprensione iniziale
dell’ambiente stesso.
- L’EPOCA STORICA.
Anche in questo caso si parla di competenza, la capacità di leggere il
linguaggio audiovisivo nell’epoca in cui avviene la fruizione cinematogra-
fica, conoscendone codici e contesti d’uso. Ogni linguaggio, per essere un
efficace tramite per lo scambio di informazioni, deve basarsi su conven-
zioni condivise dall’emittente e dal ricevente della comunicazione. È tut-
tavia possibile la condivisione quando vi è una negoziazione continua tra
ciò che si discosta dalla convenzione e la capacità dello spettatore di abi-
tuarsi a queste novità, attraverso quella che Metz definisce
“l’assuefazione storica, l’acculturazione al cinema”
28
. È infatti attraverso
l’accumulo di esperienze di fruizione che si produce un’evoluzione socio-
logica che porta ad un’acculturazione al cinema. Un esempio potrebbe es-
26
A. Marazzi, Antropologia della visione, cit., p. 169.
27
W. H. Rivers, cit. da A. Marazzi, Antropologia della visione, cit., p. 42.
28
C. Metz, Cinema e psicanalisi, Marsilio, Venezia, 2002, p. 136.
16
sere la reticenza psicologica dei primi spettatori cinematografici ai primi
piani o comunque alla figura umana non ripresa per intero. Balázs rac-
conta a tal proposito un aneddoto molto indicativo:
Uno dei miei amici moscoviti mi raccontò il caso della sua nuova domestica
arrivata in città, per la prima volta, da un kolchoz siberiano. Era una ragaz-
za intelligente, aveva frequentato le scuole con profitto, ma per una serie
di strane circostanze, non aveva mai visto un film. I suoi padroni la manda-
rono al cinema, dove si proiettava una qualsiasi commedia popolaresca.
Tornò a casa pallidissima, imbronciata. “Ti è piaciuto?” le chiesero. Era an-
cora in preda all’emozione, e per qualche minuto non seppe spiccicare sil-
laba. “Orribile” disse infine, indignata. “Non riesco a capire perché qui a
Mosca permettono che si faccian vedere tante mostruosità”. “Ma che hai vi-
sto?” ribatterono i padroni. “Ho visto” rispose la ragazza “uomini fatti a
pezzi: la testa, i piedi, le mani, un pezzo qui un pezzo là, in luoghi diver-
si”
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.
Ai primordi del cinema, inoltre, ogni immagine rischiava di imporre
la sua scala alla successiva, per cui farfalle riprese in primissimo piano
apparivano grandi come carrozze inquadrate in campo medio.
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In B. Balázs (1949), Il film. Evoluzione ed essenza di un’arte nuova, Einaudi, Torino, 1987, pp. 24-26.
L’attendibilità della verità dell’episodio non è comunque molto elevata.
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1.2 GLI ALTRI ELEMENTI CINEMATOGRAFICI
INFLUENZANTI
Per poi poter pienamente incentrare la tesi sul montaggio come e-
lemento profondamente influenzante lo spettatore, è opportuno indicare
anche gli altri codici del linguaggio cinematografico che possono stimolare
una reazione più o meno intensa.
ξ LA FOTOGRAFIA.
- La sensibilità della pellicola. Quanto più la pellicola è sensibile, tan-
to più è visibile la sua grana. Questo contribuisce a creare un’atmosfera.
- La luce, che può trasformare un ambiente (e quindi il significato
stesso della rappresentazione), conferendogli un’atmosfera particolare:
qualità (contrastata, diffusa; statica, dinamica), direzione (frontale, late-
rale, dall’alto, dal basso, controluce), sorgente (key light, fill light, back
light). Per quel che riguarda la sorgente, l’esperienza quotidiana (sia con
luce diurna che artificiale) ci porta ad aspettarci normalmente che la dire-
zione sia dall’alto. L’illuminazione con altre direzioni esagera le dimensio-
ni spaziali, creando un effetto spaziale dinamico e di conseguenza anche
effetti drammatici.
- Il colore: realistico/immaginario; decorativo/espressivo-
psicologico; il rapporto tra la vividezza del primo piano rispetto allo sfon-
do. Non sono da trascurare poi le corrispondenze psicologiche dei colori:
è tendenzialmente riconosciuto che i colori freddi attraggono e rilassano,
mentre i colori caldi respingono ed eccitano. In realtà prevalgono comun-
que le associazioni arbitrarie e dipendenti dal singolo testo filmico, oltre
che del significato sociale che acquista un colore se in associazione ad un
determinato oggetto
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Quello che cambia è però a volte solo il significato sociale che la simbologia del colore assume, non il
tipo di reazione emotiva che esso stimola. A questo proposito Marazzi, parla dell’uso che viene fatto del bianco e
del nero nei funerali: nei cinesi prevale il bianco, contro il nero europeo, non perché i colori evochino stati
d’animo differenti, quanto piuttosto perché si dà un diverso significato alla partecipazione ad un funerale. Mentre
gli europei col vestirsi di nero vogliono partecipare alla condizione del defunto, i cinesi se ne vogliono distaccare,