5
Premessa
Una qualsiasi opera di ripristino, rivalorizzazione o di bonifica dovrebbe essere preceduta da
uno studio di monitoraggio dell’area in esame da cui possano essere tratte indicazioni su
quali siano le emergenze presenti, le dinamiche con cui le varie problematiche si intersecano,
le matrici più esposte ecc. Questo lavoro di tesi si propone di delineare una metodologia di
monitoraggio di un’area, La Piana di Scarlino, che è sottoposta a molteplici pressioni di varia
natura ed entità.
Il monitoraggio di una determinata area ed il relativo lavoro di campionamento, possono
prevedere tempi di studio diversi, che nei singoli casi, possono dilatarsi in itinere, mano a
mano che l’area viene investigata. Per questo motivo, la presente tesi non ha alcun fine
esaustivo sull’area presa in esame, ma un incipit di alcune delle metodologie che meglio
potrebbero fornire un quadro dello stato attuale dell’area unitamente a studi di analisi di
rischio ambientale, connessi ad eventi passati, presenti e futuri.
Il lavoro di tesi si è sviluppato partendo dallo studio cartografico dell’area, la messa in posto
di piezometri, il prelievo di campioni da marzo 2009 a dicembre 2009 e l’analisi degli stessi
svolta presso i laboratori dell’Istituto degli Studi Ecosistemici del CNR di Pisa con la
supervisione del Dott. Brunello Ceccanti e della Dott.ssa Serena Doni.
6
INTRODUZIONE
7
1.1 La piana di Scarlino e le Colline Metallifere
Macchia mediterranea Seminativo arborato, semplice
con olivi e macchia
Isola d’Elba Follonica e Piombino Stabilimento
Figura 1. Veduta panoramica del golfo di Follonica e colline retrostanti.
Padule di Scarlino
Le Colline Metallifere si differenziano dalle altre regioni dell'Antiappennino Toscano, perché
costituiscono una zona ricchissima di giacimenti minerari, che da sempre hanno segnato lo
sviluppo dell'intero territorio, la storia dei suoi abitanti e ne hanno determinato il nome. Sono
sei i comuni compresi nell'area: Follonica, Scarlino, Gavorrano, Massa Marittima, Montieri e
Monterotondo Marittimo. L'intera zona si estende per 800 km2. Nel quadro di imponenti
fenomeni geologici avvenuti circa 70 milioni di anni fa, è avvenuta l’intrusione di una massa
di magma granitico tra le formazioni sedimentarie della zona. I fluidi metalliferi originatisi si
sono iniettati tra le rocce sedimentarie generando giacimenti di minerali metallici, cui la zona
deve il nome. Il territorio delle Colline Metallifere, in rapida e schematica sintesi, è
caratterizzato prevalentemente dalla presenza di minerali di ferro (pirite), di rame
(calcopirite), di zinco (blenda) e minerali di piombo (galena), senza contare i giacimenti di
cinabro (solfuro di mercurio) presenti nella zona del Monte Amiata. Nonostante l’attività
estrattiva abbia avuto inizio già in epoca etrusca, questa ha avuto un ruolo centrale ai giorni
nostri quando, altri e nuovi utilizzi di alcuni di questi solfuri misti, vennero messi in opera.
Prima fra tutte la pirite. Questo bisolfuro di ferro, infatti, utilizzato fin dall’antichità per la sua
parte ferrosa, venne sfruttato, dagli inizi del 1900 in poi, per trarne zolfo. Questo,
successivamente, vedeva il suo impiego nella produzione di acido solforico, utilizzato anche
per la produzione di esplosivo in periodo bellico. Per anni la miniera di Gavorrano e quella di
Bocccheggiano, meglio conosciuta come miniera di Campiano, furono oggetto di una serrata
estrazione gestita dalla società Montecatini, in seguito divenuta Montedison (anni ’70). Agli
8
inizi degli anni ’50 però, l’estrazione della pirite, finalizzata all’utilizzo dello zolfo, cominciò
a rivelarsi piuttosto antieconomica, quando paragonata all’utilizzo del minerale sulfureo puro
presso alcune solfatare del sud Italia. Questa situazione spinse la società Montecatini a cercare
una soluzione differente per ciò che riguardava il ciclo produttivo. Fu così che, per chiudere il
ciclo produttivo in loco (fino ad allora la pirite veniva venduta e lavorata in altre zone d’Italia)
e cercare di limitare le spese, la più grande impresa industriale della zona (Il Casone) venne
convertita in quello che rimane tutt’oggi, ossia lo stabilimento Casone (Nuova Solmine) per la
produzione di acido solforico.
Figura 2. Ciminiera dello stabilimento il Casone-Tioxide e bacini.
Al Casone perveniva, quindi, il minerale da Gavorrano e da Campiano, alla cui lavorazione
seguiva la produzione di ceneri di arrostimento, stoccate per anni, ed ancor oggi, presenti
nella zona. Un problema rilevante legato ai giacimenti di pirite è che questi non presentano
sempre la medesima composizione ed, in alcuni casi, possono essere presenti impurezze di
varia natura, tra cui Piombo ed Arsenico, presenti anche nelle ceneri di arrostimento stoccate,
oltre che nelle miniere in disuso (Campiano), anche nella zona antistante lo stabilimento del
Casone. Le inevitabili infiltrazione all’interno di falde sono, a tutt’oggi, al centro di vicende
giudiziarie tra le varie amministrazioni comunali e le società legate al gruppo ENI, che per
anni hanno gestito lo smaltimento di tali ceneri ( Barocci, 2001).
9
Figura 3. Discarica nei pressi dello stabilimento.
1.2 Il Polo industriale del Casone
Alle spalle della zona umida, tra i comuni di Scarlino e Follonica sorge il già citato polo
industriale del Casone.
Ad oggi, all’interno di tale area sono presenti diverse Società con produzioni distinte.
La Nuova Solmine era originariamente una azienda mineraria del Gruppo ENI. E' stata
privatizzata e, dal 1997, appartiene interamente alla SOLMAR s.p.a.. Oggi è leader in Italia
nella produzione di acido solforico da zolfo (circa 550.000 tonnellate l'anno) e di Oleum
(circa 100.000 tonnellate l'anno) e commercializza circa 1.100.000 tonnellate l'anno di acido
solforico in tutto il Mediterraneo.
Lo stabilimento copre una superficie di circa 140 ettari; è servito da un raccordo ferroviario
collegato con la rete nazionale e da un pontile a mare per il carico e lo scarico di navi cisterna
con pescaggio fino a 6.5 mt. Tramite una centrale termoelettrica è inoltre allacciato alla rete
elettrica nazionale, di cui è normalmente fornitore (sito on-line www.solmine.it). Proprio
questo stabilimento era quello che si è avvalso della componente sulfurea estratta dalle piriti
grossetane per quasi 30 anni.
Già nel 1962 (primo anno di apertura dello stabilimento), tra le righe di un opuscolo
denominato “La Montecatini Edison in Maremma; Nota informativa per i giornalisti” edito
dalla stessa società con lo scopo di presentare ai media ed al territorio lo stabilimento ed i suoi
obiettivi di produzione e creazione di benessere per tutto il territorio, si leggeva ciò che, in
10
altri toni e modi si sarebbe scoperto molti anni dopo. Infatti nella descrizione dell’utilizzo
completo della pirite, si legge: “Le ceneri di pirite, sinora considerate un sottoprodotto di
lavorazione, e costituite da ossidi di ferro impuri, vengono invece convogliate in forni speciali
per la conversione in magnetite che, separata dal contenuto sterile, è inviata poi all’impianto
di pellettizzazione, nel quale viene granulata in minuscole palline (“pellets”). Il prodotto così
ottenuto, completamente desolforato, ha un contenuto assai elevato di ferro (circa il 67%) e
rappresenta il materiale ideale per la carica degli altiforni dell’industria siderurgica”
(Montecatini Edison S.p.A., 1962).
Proprio allo “sterile” già presentato in queste righe sarà attribuita la componente in metalli
pesanti ritrovata nella Piana e nel fiume Merse. Quest’ultimo infatti, scorrendo nelle vicinanze
del giacimento di Boccheggiano (Campiano), ha subito gravi danni a causa del riversarsi di
acque ricche in metalli pesanti in seguito alla chiusura della miniera nel 1994 a cui seguì,
infatti, lo stoccaggio, all’interno della miniera stessa, di tonnellate di ceneri di arrostimento
di pirite. I metalli pesanti ad esse associati, infatti, vennero portati in soluzione una volta che
la miniera subì l’allagamento. Anche nell’Atto di Sindacato Ispettivo n°4-00130, pubblicato il
14 luglio 2001(seduta n°10) si legge “Nella miniera di Campiano sono stati utilizzati come
ripiena dei vuoti di coltivazione, oltre agli sterili di miniera, le ceneri ematitiche derivanti
dall’impianto Nuova Solmine di Scarlino e i fanghi prodotti dalla depurazione delle venute
d’acqua interne alla miniera stessa, che venivano pompate all’esterno del corpo minerario, che
detti materiali sono classificati (allegato A decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22) come
rifiuti contenenti arsenico (060403), rifiuti derivanti dall’estrazione di minerali non metalliferi
(010101) e rifiuti tossici e nocivi (Tabella 1.1 delibera 27.7.1984) costituiti dalle scorie della
lavorazione della pirite” ed ancora “ tali rifiuti, se posti a contatto con le acque sono in grado
di cedere i metalli in essi contenuti ed in particolare l’arsenico, e che la concentrazione di
arsenico nel lisciviato delle ceneri di pirite è risultata superiore al limite della tabella A
allegata alla legge n. 319 del 1976”.
Tra le pagine dello stesso opuscolo citato sopra, di più di quarant’anni fa, già veniva
denunciato chiaramente il problema di infiltrazioni di acqua all’interno delle gallerie:
“ Anche a Boccheggiano, come già a Niccioleta, il maggior ostacolo allo sfruttamento dei
giacimenti fu sempre rappresentato dalle considerevoli infiltrazioni di acque sotterranee,
l’abbondanza delle quali costrinse la Montecatini Edison a realizzare una galleria di scolo
lunga 7 km per abbassare il livello idrostatico della miniera da quota 379 a quota 90 circa”
(Montecatini Edison S.p.A., 1962 ).
11
Figura 4. Monti di zolfo nei pressi dello stabilimento.
L’altro grande stabilimento è rappresentato dalla Tioxide. In questo stabilimento, unico in
Italia, l’attività principalmente svolta è quella di produrre pigmenti a base di biossido di
titanio e di alcuni prodotti secondari derivanti da operazioni accessorie al ciclo produttivo
principale. Anche il biossido di titanio trova largo impiego nel campo delle vernici, dei
fissanti ecc. La problematica connessa all’esistenza di un impianto del genere è legato al fatto
che alla fine del ciclo, a fronte di una produzione media annua di 60.000-80.000 tonnellate di
biossido di titanio, che costituisce il 70 per cento del fabbisogno del nostro Paese, l’impianto
genera circa 400.000 tonnellate di rifiuto speciale non pericoloso, denominato "gesso rosso".
Proprio per questo, già nel 2001, era stato firmato un accordo tra Regione Toscana, Enti locali
ed Azienda Tioxide finalizzato ad incrementare le possibilità di riutilizzo di gessi rossi in
attività di ripristino ambientale ed a ridurne drasticamente il conferimento in discarica, visto
che all’Azienda veniva chiesto di passare dall’attuale produzione del 70% al 5% , previsto
per il 2010.
La connessione tra i 2 stabilimenti è legata al processo di produzione del biossido di titanio,
denominato processo al solfato: l’ilmenite (FeTiO3) viene digerita con acido solforico
concentrato, formando: solfato ferroso, solfato ferrico (rispettivamente FeSO4 e Fe2(SO4)3) e
solfato di titanile TiO · SO4. La massa è lisciviata con acqua e ogni materiale viene rimosso
(Huntsman-Tioxide, 2004). Attualmente l’unica ciminiera rimasta attiva nello stabilimento,
appartiene proprio alla Tioxide che gestisce anche una serie di vasche contenenti acido
solforico.
Accanto a questi 2 colossi sorgono nella zona industriale altri impianti riguardanti operazioni
di assemblaggio, gestione rifiuti e progettazione; a questi, non possono essere imputare le
condizioni alterate della Piana.
12
1.3 Studi pregressi sullo stato di salute della Piana di Scarlino
Nel 2003 è stato presentato, nell’ambito di un Consiglio Comunale (Scarlino), il lavoro di un
gruppo di docenti dell’Università di Siena, coordinato dal Prof. Enzo Tizzi, che era centrato
sulla concentrazione anomala di Arsenico ed altri metalli pesanti nella Piana di Scarlino. Tale
studio si rese necessario per documentare in modo incontrovertibile l’estensione ed intensità
dell'inquinamento da Arsenico nel territorio della Piana di Scarlino e delle Colline Metallifere;
l’esigenza di commissionare tale studio sottolineava anche che, nell'ultimo decennio, il
problema dell’inquinamento aveva assunto dimensioni importanti, diventando fonte di forte
preoccupazione nella popolazione residente e problema politico concreto. A ciò avevano
contribuito significativamente, negli ultimi 20 anni, una serie di campagne analitiche
effettuate dagli Enti preposti al controllo ambientale (ARPAT, 2001) e dai tecnici della società
proprietaria dell'impianto (AQUATER, 1985; ENI-Ambiente 1997, Nuova Somme, 1999),
che avevano evidenziato elevati livelli da Arsenico nell'area intorno al plesso industriale;
inoltre, la progressione delle conoscenze, da parte della comunità scientifica, e la divulgazione
delle stesse relativamente agli effetti patologici che l'Arsenico ha sulla salute degli esseri
umani, sia per la sua tossicità acuta ad alte dosi, sia per la sua tossicità cronica a dosi basse
continue, ha generato consapevole ed informato allarme nella popolazione residente. Nella
Piana di Scarlino, sia le acque di falda superficiale che il terreno, presentano concentrazioni di
Arsenico abbondantemente al di sopra dei livelli medi considerati normali in natura e
superiori a quelli limite previsti dalle vigenti disposizioni in materia.
1.4 Contesto storico ambientale
Come già descritto in precedenza lo stabilimento del Casone fu localizzato in un'area
paludosa, residuo del Lago di Scarlino, che fino al 1820, data dell'inizio delle bonifiche,
occupava larga parte della Piana. La bonifica completa dell'area non fu mai portata a termine,
anche a causa della discreta profondità del lago che nella parte vicina al mare poteva ospitare
anche piccole navi.
13
Figura 5. Visualizzazione schematica della Bonifica de Lago di Scarlino
Come mostrato nella Figura 5, la porzione centrale della Piana di Scarlino, compresa tra il
fiume Pecora e il Canale Allacciante, fu bonificata attraverso opere successive di colmata che
sfruttavano principalmente l'apporto di sedimenti del fiume Pecora, mentre la zona a sud del
Canale Allacciante fu bonificata attraverso le colmate dei torrenti provenienti dalle colline
sovrastanti. Tale differenza spaziale nelle operazioni di bonifica è molto importante e viene
richiamata come una delle ragioni fondamentali delle differenze di carico di Arsenico che
esistono tra i terreni delle due zone.
Dopo la fine delle operazioni di bonifica, l'area che va dal Casone di Scarlino al Puntone, è
rimasta Zona Umida per lungo tempo. Ciò è importante sia per la comprensione del fenomeno
in oggetto sia per presentare l’intero studio del fenomeno della diffusione dell'inquinamento
da Arsenico. Infatti, nelle zone umide, si verificano due situazioni concomitanti e sinergiche
per la chimica di questo elemento: la presenza di un ambiente fortemente riducente e la
presenza costante di falde acquifere. Il primo fattore esalta la solubilizzazione dell'Arsenico in
virtù della sua riduzione da As V ad As III. Essendo la specie ridotta meno affine per gli
idrossidi di ferro che si ritrovano nei substrati argillosi, essa viene mobilizzata con maggiore
facilità. Inoltre, tale mobilizzazione è favorita dalla stessa riduzione del Ferro, da Fe III a Fe
II, con conseguente solubilizzazione dei relativi ossidi e idrossidi, i quali esercitano
14
normalmente un'azione "sequestrante" sull'Arsenico. La presenza di falde acquifere,
ovviamente, facilita il trasporto dei soluti anche a lunga distanza. Tali caratteristiche negative
sono entrambi potenzialmente presenti nell'area in esame e l'analisi dei dati non può
prescinderne.
Il suolo e il sottosuolo della Piana sono stati caratterizzati, da una serie di studi geo-pedologici
che ne hanno messo in evidenza la costituzione in livelli argillosi poco permeabili intercalati
da livelli sabbioso-ghiaiosi permeabili, sede di acquiferi. Gli acquiferi presenti che
impegnano, anche se non con lo stessa potenza tutta la piana, sono due:
1. una falda freatica, di dimensioni modeste, soggetta a significative variazioni stagionali
che si trova a bassa profondità rispetto al piano di campagna (1.5-3.0 m). La portata e
l'estensione di questa falda non risultano ancora ben definite;
2. una falda artesiana, che invece si trova a profondità maggiore, 13-20 m, di dimensioni
consistenti, che viene continuamente utilizzata per vari scopi, tra cui quello di acqua
potabile.
Naturalmente, la presenza di tali acquiferi é di fondamentale importanza sia per la
comprensione del fenomeno che per la bonifica dei siti inquinati. A questo proposito, é molto
interessante lo studio AQUATER '85 ed uno dei documenti antecedenti, in cui si affronta in
maniera sistematica il problema idrogeologico della Piana. In quello studio si riporta: "la falda
superficiale si instaura in livelli sabbioso-ghiaiosi che intercalano sotto forma di sottili lenti
gli strati argillosi" "falda artesiana presente a maggiore profondità. Tale falda è inserita in un
livello costituito da ghiaia e ciottoli a granulometria variabile da 0,5 a 10 cm, a spigoli vivi o
arrotondati, con elevata alterazione, spesso immersi in matrice sabbiosa o limo argillosa... a
una profondità media di circa 12 m. L'osservazione di maggior rilievo su questo "importante
acquifero" è che nonostante sia separato da quello superiore da "intercalazioni più o meno
spesse di argille" tali strati generalmente impermeabili, "non interrompono comunque la
continuità idraulica con la falda superficiale e specialmente a livello di zona di alimentazione,
mentre situazioni di netta separazione possono essere localmente presenti" Tali osservazioni
sono molto significative e mettono in evidenza il fatto che l'acquifero profondo non risulta
del tutto indipendente da quello superficiale e una particolare attenzione nella definizione
delle opere di bonifica sia necessaria al fine di salvaguardarlo con il massimo della
precauzione. Lo studio ACQUATER, mette anche in risalto la funzione drenante dei due corsi
di acqua presenti, il Pecora e il Canale Allacciante che scorrono pensili sulla piana.
Come già accennato in precedenza, affrontando la questioni delle ceneri derivate
dall’arrostimento della pirite, è doveroso precisare che questi residui (55.000 tonnellate
15
annue) sono stati stoccati a "piè di fabbrica", direttamente sul suolo, formando il cumulo
conosciuto come "panettone". Questo cumulo é costituito da circa 1.500.000 tonnellate di
ceneri ematitiche, altri composti secondari, sempre provenienti dal processo di combustione
del minerale. Considerando un contenuto di Arsenico medio di circa 420 mg/kg, si desume
che nel cumulo siano presenti circa 750 tonnellate di Arsenico. Tale discarica è censita dalla
Regione Toscana come sito GR66 da sottoporre a bonifica . Similmente al "panettone", nella
stessa zona sono stoccati i residui dell'impianto di frantumazione: fini e finissimi di pirite. Il
peso di alcuni di questi cumuli ha determinato uno sprofondamento del materiale nel terreno
argilloso, fino a livelli che lo mettono direttamente a contatto o in stretta prossimità della
falda acquosa superficiale. Tale caratteristica é estremamente importante e sicuramente ha un
ruolo determinante nel fenomeno di inquinamento della falda superficiale che si riscontra
nell'area (Barocci , 2001).
16
1.5 Inquadramento geologico e chimismo delle acque
I terreni del Complesso Neoautoctono presenti nella bassa Valle del Pecora comprendono
sedimenti alluvionali, colluviali, e lacustro-palustri di età da tardo-Tortoriana a Quaternaria
(Fig. 6). In particolare, la porzione più superficiale della Piana di Scarlino è costituita da
terreni palustri che rappresentano l'area occupata dall'antico Padule, quasi completamente
bonificato a partire dalla prima metà del 1800 (Bertini et al., 1969; Gasperi, 1970;
Carmignani, 2005).
Figura 2 - Carta geologica schematica della Piana di Scarlino
con indicazione del Pozzo Profondo Vetricella e dei Pozzi
Profondi La Botte 1 e 2.
(stralcio da: Carta Geologica della Toscana 1:250.000; ) Carmignani, 2005
Pozzi Profondi La Botte 1-2
SE
13
Pozzo Profondo Vetricella
9
9
9
9
18
19
18
31
33
1
4 Km0
Figura 6. Carta geologica 1:250000
All’interno della sequenza Neoautoctona sono presenti un acquifero superficiale di tipo
freatico (ubicato mediamente a 8 m dal p.c.) e più acquiferi profondi di tipo confinato o
semiconfinato ubicati a profondità comprese tra circa 12 m e 20 m. Lo spessore variabile della
sequenza Neoautoctona determina un numero di acquiferi profondi localmente variabile
17
Dal punto di vista geochimico la zonazione chimica delle acque (Avio et al., 1995; Bianchi et
al., 1997; Saragosa, 2000), ottenuta con analisi effettuate su pozzi aventi profondità comprese
tra 50 e 100 m dal p.c., mette in evidenza la presenza di acque clorurate lungo il litorale,
acque bicarbonate lungo i rilievi e acque solfatiche nella parte interna della Piana di Scarlino .
Per quanto riguarda l’inquadramento geologico della zona, si ricorda che l’area in questione è
caratterizzata dalla presenza dei complessi alluvionali del Neogene, mentre il substrato
profondo è rappresentato dalle litologie del “Macigno” e delle “Argille a Palombini”.
1.6 Il Padule di Scarlino
Lo stabilimento si trova alle spalle di una zona umida denominata “Padule di Scarlino”. Il
termine “Padule” è il sostantivo usato in Toscana, specialmente in Maremma, per definire la
palude. La parte bassa della valle del fiume Pecora nel 1826 risultava occupata da una vasta
zona umida, in gran parte dulcacquicola, che copriva originariamente una superficie di alcune
centinaia di ettari (600-1000), compreso un ampio lago costiero con sbocco al mare (Selvi et
al., 2006).Le bonifiche per colmata (con uno spessore di riporto di circa 1,5
m.),disboscamenti, la messa a coltura ed infine l’industrializzazione (dagli anni ’60 in poi),
hanno profondamente modificato le caratteristiche della palude, che oggi ha un superficie di
circa 142 ha, ai quali possono essere sommati altri 50 ha di zone umide limitrofe seminaturali
od artificiali, comunque separate dal corpo centrale (Fig. 3). L’area ha subito profonde
modificazioni, il processo di “colmata” è stato praticamente completato, per cui oggi esistono
solo pochi specchi d’acqua permanenti per lo più di origine artificiale e la palude, in estate, si
prosciuga quasi completamente.
18
Figura 7. Veduta di un chiaro della palude di Scarlino
Il corpo centrale, di circa 142 ha, è diviso in due settori, separati da un canale collettore con
direzione nord-sud, che, raccogliendo le acque del Fiume Pecora, si getta nel Canale
Allacciante, il quale riceve anche le acque provenienti dal Rigiolato e dagli impluvi collinari
ad oriente della pianura. Le acque nel settore ovest, più vicino alla costa, sono in gran parte
salmastre, mentre ad est del canale collettore l’ambiente è prevalentemente dulcacquicolo. Le
temperature e le precipitazioni medie annue riferite a Follonica, la stazione termo-
pluviometrica più prossima all’area di studio, sono rispettivamente di 15,7°C e 655,2 mm.
Nonostante le profonde modificazioni, il Padule di Scarlino rappresenta ancora un habitat
insostituibile per molte specie animali e vegetali e merita adeguate misure di tutela e gestione.
Il Ministero dell’Ambiente ha inserito il Padule di Scarlino nell’elenco dei siti “Natura 2000”
(n° IT 5190006), della direttiva dell’ UE n° 92/43 detta “Habitat”, relativa alla conservazione
degli habitat, della fauna e flora selvatiche. Successivamente, la Regione Toscana, con la
legge 56/2000, ha inserito il Padule di Scarlino nell’elenco sei SIR (Siti di Importanza
Regionale) con il n° 106. Inoltre, in base all’art. 33 della Legge/R n° 3/94, sui 142 ha del
corpo centrale del Padule è stata istituita un’Oasi di Protezione della Fauna, oggi
ulteriormente ampliata con l’adozione del nuovo Piano Faunistico provinciale. Dopo
l’alluvione dell’autunno del 2005, che aveva danneggiato capanni e camminamenti, il
tracciato di questi ultimi è stato modificato proprio al fine di una migliore protezione
dell’avifauna. Allo scopo di ricreare condizioni ambientali simili a quelle del passato, è stata
nuovamente introdotta una mandria di bovini di razza maremmana, circa 20 capi, nella stessa
area del padule dove fino a pochi anni fa veniva praticato l’allevamento allo stato brado.