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INTRODUZIONE 
 
Il presente lavoro muove dal presupposto che il denaro sia uno tra i prodotti più 
originali dell’intelletto sociale poichè “ha consentito una semplificazione senza 
precedenti delle modalità di accesso a beni e servizi necessari alla vita”. Già nelle 
forme più arcaiche, questa sua utilità negli scambi è apparsa evidente rispetto alle 
forme di baratto puro e da allora l’oggetto moneta ha avuto uno sviluppo ed un 
impiego sempre maggiore fino a diventare un elemento complesso, sempre più 
essenziale per la sussistenza della quasi totalità delle persone. Allo stesso tempo 
però il denaro rappresenta un elemento di disuguaglianza e resta un argomento 
tabù più forte di molti altri. Inoltre, si osserva come la sua diffusione ha 
allontanato sempre più l’uomo dalla dimensione della comunità perché lo “ha 
sempre più svincolato dal mutuo aiuto e dal sostegno del gruppo”. Un’altra 
considerazione fondamentale ha origine dal costatare che il denaro, che permette 
di far lavorare le persone, è un mezzo sempre più scarso tanto che è sempre più 
difficile utilizzarlo per unire bisogni non soddisfatti e risorse non usate. Pare 
quindi legittimo riaprire una riflessione, in termini psicosociali, su cosa sia 
effettivamente questo strumento, così come è attualmente concepito, e su cosa 
comporti il suo utilizzo sulla percezione e nelle relazioni interumane. Questa 
analisi, lontana dalla pretesa di esaurire l’argomento, si propone pertanto, in una 
serie di passaggi, di far emergere che parlare di denaro corrisponde in sostanza a 
parlare di relazioni e di fiducia cioè, in ultima analisi, costituisce un elemento 
imprescindibile dell’interfaccia tra sfera personale e sociale. Premesso ciò, il tema 
che sarà sviluppato riguarderà la concreta possibilità di ripensare ad un bmoneta, 
non come “unica ed univoca”, ma come forma di connessione orizzontale che, per 
prima cosa, necessita di una ridefinizione a partire dalle dimensioni locale e 
comunitaria. Infatti, la definizione di una moneta sociale permette di richiamare 
l’attenzione su come dovrebbe essere uno strumento monetario alla portata di tutti 
e al servizio della comunità locale; ciò costituisce il punto cardine che permette 
l’articolazione del ragionamento sulla possibilità che economia di mercato ed 
economia delle relazioni coesistano nella prospettiva di un benessere condiviso. 
Nel primo capitolo, l’analisi del denaro ci servirà a comprendere meglio la sua 
natura ed in particolare quali aspetti siano implicati nella sua percezione e quali 
vadano ad interessare le sfere cognitiva e relazionale-affettiva. In questo percorso 
analizzaremo per prima cosa le funzioni classiche del denaro soffermandoci sui 
risvolti psicosociali e sui significati simbolici che questo assume; quest’analisi
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sarà poi ripresa servendoci dell’apporto di specifici paradigmi delle scienze 
psicologiche. Nel secondo capitolo sarà esaminato il comportamento prosociale 
iniziando da una riflessione sulla problematica dualistica egoismo-altruismo. 
Sempre in questo ambito, servendoci del contributo della teoria dei giochi, 
saranno analizzate le dinamiche della collaborazione in situazioni paradigmatiche 
come il Dilemma del Prigioniero e il Gioco dell’Ultimatum. Ci soffermeremo 
inoltre sull’osservazione di alcune variabili culturali e sull’interazione tra specifici 
profili definiti in base alle modalità preminenti di cooperazione. Ancora sul tema 
del comportamento prosociale, particolare attenzione sarà dedicata al concetto di 
reciprocità e ai significati del dono, arrivando poi ad ampliare la prospettiva grazie 
al concetto di solidarietà. Questa base teorica sarà propedeutica all’introduzione 
dell’argomento relativo alle monete sociali, oggetto specfico del terzo capitolo. 
Qui si esamineranno le monete sociali come strumenti che permettono la 
ridefinizione del denaro come un mezzo al servizio della comunità in quanto 
simbolo di un rinnovato patto di collaborazione fiduciaria tra i membri di uno 
specifico territorio.
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RIPENSARE IL DENARO 
 
“La filosofia comincia con un senso di mistero e meraviglia  
nei confronti di ciò che ogni persona sana di mente  
considera troppo ovvio per preoccuparsene” 
Searle, 2004 
 
Noi tutti abbiamo una consolidata esperienza di cosa sia il denaro, ci appare 
chiaro come funziona e possiamo dare una definizione empirica partendo 
dall’utilizzo che ne facciamo abitualmente, ma spiegare con precisione di cosa si 
tratti e quali siano le implicazioni cognitive, affettive e relazionali del suo utilizzo 
può rivelarsi una questione complessa e per certi aspetti controversa. Come 
affermano Ferrari e Romano (1999) “il denaro, nella sua interezza, è un concetto 
troppo complesso perché possa essere affrontato per pura addizione di 
argomentazioni, che in successione lineare esauriscano il tema” (p. 166). Oggi ci 
troviamo immersi in un’economia che si basa quasi esclusivamente sull’utilizzo di 
denaro; è grazie ad esso che, specialmente nelle aree cittadine, possiamo accedere 
alla totalità dei beni di consumo o dei servizi che rispondono alla maggior parte 
delle nostre necessità quotidiane. Il sociologo George Simmel notava questo 
fenomeno già nel 1900, affermando, nella sua opera più importante, che 
l’economia del denaro domina la metropoli. Degno di particolare nota è il fatto 
che, pur condizionando fortemente un elevato numero dei nostri comportamenti, 
le problematiche sollevate da questo strumento rimangono un argomento tabù più 
forte di tanti altri, come se una sorta di pudore esercitasse un effetto inibitorio 
sugli psicoanalisti e in egual modo sull’intera società (Viderman, 1993). 
Ad un primo sguardo l’analisi del denaro appare dominio esclusivo delle scienze 
economiche, mentre un’indagine più completa non può che richiedere l’apporto di 
importanti contributi dalle scienze sociali (es.: Beattie, 1978; Polanyi, 1983; 
Auriti, 2003) e filosofiche (es.: Simmel, 1900; Pound, 1933; Mathieu, 1985; 
Coluccia, 2002). Il campo psicologico in particolare, appare imprescindibile da 
percorrere considerando le implicazioni affettive e relazionali che il denaro porta 
con sé. Inoltre, come afferma Margrit Kennedy (1995), il denaro “è una delle 
questioni centrali della vita di molti ed è strettamente connesso con la percezione 
che la gente ha di se stessa e del mondo” (pp. 71-72). Sorprende a tal proposito
7 
 
che, proprio in questo campo, come è stato rilevato da Furnham e Lewis (1986) e 
da Moscovici (1991), i lavori prodotti sull’argomento siano relativamente scarsi e 
appaiano inoltre isolati e scollegati. Anche Webley (2001) nota come sia 
sorprendente il fatto che “il comportamento delle persone con, e nei confronti, dei 
soldi sembra talmente basilare e fondamentale quanto sia ignorato dagli 
psicologi” (Zappalà e Sarchielli, 2001 p. 37). Se allo stato attuale è doveroso 
annoverare un incremento dei contributi scientifici e divulgativi da parte delle 
scienze psicologiche (es.: Vohs, 2008; Zhou et al., 2009) permane comunque 
un’evidente frammentarietà. 
 
 
1. FUNZIONI DEL DENARO 
 
Sia il dizionario Garzanti (2007) che l’Enciclopedia Zanichelli (2006) descrivono 
un primo significato della parola “denaro” abbastanza convergente, defininendolo 
come ogni tipo di odierna moneta metallica, cartacea o di qualsiasi altro tipo di 
supporto, che è destinata a costituire mezzo di pagamento per l’acquisto di beni e 
servizi e per l’estinzione di debiti, ma anche unità di misura del valore. 
L’Enciclopedia Britannica (2012) definisce il denaro come “un bene accettato dal 
consenso generale come mezzo di scambio economico. È il mezzo in cui sono 
espressi i prezzi e valori; come valuta, circola in forma anonima da persona a 
persona e da paese a paese, in modo da facilitare gli scambi, ed è la principale 
misura della ricchezza”. Nell’accezione più tecnica il denaro è semplicemente uno 
strumento e, in quanto tale, può essere definito a partire dai suoi aspetti funzionali. 
Questa prospettiva costituisce un utile punto di partenza per la sua comprensione 
ma non può esaurire il significato che effettivamente assume per le persone che lo 
adoperano. Inoltre occorre notare che limitarsi ad una connotazione funzionale 
pone il rischio di mettere a fuoco solo lo strumento in sé, portandoci a credere che 
si tratti di qualcosa di idealmente neutrale, slegato dal suo fondamentale 
significato simbolico. Su quest’ultimo aspetto l’Enciclopedia Britannica riporta 
infatti che in denaro è anche “una convenzione sociale […] di rara forza a cui le 
persone si attengono anche sotto le più estreme provocazioni”. 
Tralasciando per adesso la connotazione simbolica, muoviamo dalla prospettiva 
funzionale. Così come riportato nel Nuovo Dizionario di Borsa e Finanza (2002),
8 
 
le definizioni tecniche classiche degli strumenti monetari attuali (es.: Polanyi, 
1983; Kennedy, 1995; Pittau, 2003; Lietar, 2007) propongono la distinzione di 
quattro funzioni base: deposito di ricchezza, mezzo di pagamento, unità di conto, 
intermediario di scambio. A partire da questi quattro aspetti, analizziamo con 
specifica attenzione le implicazioni psicologiche e relazionali sottese o da questi 
derivate. 
 
1.1. Deposito della ricchezza 
 
La funzione di deposito della ricchezz, definita anche con i termini riserva di 
valore, consiste nella possibilità di accumulare oggetti quantificabili per poterne 
disporre in futuro o solamente per tesaurizzarli. Nel primo caso l’individuo si 
priva di un consumo immediato per rinviarlo in un momento futuro, nel secondo 
caso la tesaurizzazione è motivata dai vantaggi derivanti dal mero possesso (e 
dall’eventuale ostentazione), cioè dal prestigio e dal potere che derivano. Già 
Aristotele distingueva questo utilizzo del denaro che riconduceva a quella forma 
di economia chiamata crematistica per differenziarla dalle attività finalizzate alla 
giusta cura della casa e della comunità (Zappalà e Sarchielli, 2001): l’oikonomia. 
L’accumulo effettuato tramite la privazione di un consumo immediato in vista di 
un beneficio futuro, ha precise connotazioni psicologiche. Nella prospettiva 
psicoanalitica, un Io equilibrato riesce a mediare le spinte dell’Es gestendo la 
soddisfazione delle pulsioni e ciò permette la realizzazione di progetti a media e 
lunga scadenza che conferiscono vantaggi futuri maggiori rispetto alle 
soddisfazioni immediate. Interessante appare il comportamento dell’accumulo 
costante che, oltre ad un certo limite, può arrivare ad assumere quei connotati che 
potremmo definire compulsivi; ed è proprio ciò che è permesso e sostenuto in 
un’economia di tipo capitalistica. Deleuze e Guattari (1980) ritengono che, come 
regola generale, si abbia un sistema di accumulo, “tutte le volte in cui avviene il 
montaggio di un apparato di cattura, con la violenza molto particolare che crea, 
o contribuisce a creare quello su cui essa si esercita e che, perciò presuppone se 
stessa” (p. 654). Fondamentale per l’apparato di cattura in questione è il 
meccanismo del debito e del tasso di interesse. 
Un comportamento patologico, complementare all’accumulo e relativo all’uso, 
può derivare da quella caratteristica che rende il denaro spendibile con estrema
9 
 
facilità. Esso, infatti, in qualità di rappresentante di tutto ciò che è in grado di 
comprare, permette la soddisfazione immediata di qualsiasi desiderio trovi una 
risposta commerciale. Tale comportamento, in un’accezione più sociologica è 
comunemente denominato consumismo e risulta evidente nelle sue forme più 
estreme come nella psicopatologia
1
; in altri termini esso consiste in quegli atti che 
sono riconducibili a particolari forme di fruizione del piacere definibili tramite la 
metafora del “tracannare”. Erich Fromm (1977) illustra questa metafora partendo 
dal concetto di incorporazione. Incorporare una cosa, ad esempio mangiandola o 
bevendola, è una forma arcaica di possesso che è tipica di una certa fase dello 
sviluppo infantile. Per Fromm, consumare è oggi la principale forma dell’avere: 
“l’atteggiamento implicito del consumismo è quello dell’inghiottimento del mondo 
intero” e “il consumatore è un eterno lattante che strilla per avere il poppatoio” 
(ibidem p. 46). 
Anche dalla seconda accezione di deposito di ricchezza, quella che si riferisce ai 
vantaggi conseguenti il mero possesso, scaturiscono importanti implicazioni di 
ordine psicologico. Il prestigio che deriva dal semplice possesso di denaro, 
presuppone che vi sia una qualche forma di ostentazione. Secondo una prospettiva 
espressivo-comunicativa, oltre un secolo fa Weblen (1899) introduceva il concetto 
che il denaro, per i ricchi, permetterebbe il consumo vistoso, ossia l’idea che oltre 
ad una certa soglia, si acquistino beni per mettere in evidenza classe sociale e 
ricchezza. Da ciò deriva che tali comportamenti possono essere studiati utilmente 
anche come forma di comunicazione e tale possibilità è ben evidenziata negli 
studi sociali sull’offerta di doni (es.: Mauss, 1924). Lo scambio di doni, infatti, 
può assumere una grande varietà di significati come rappresentare l’apertura di 
una relazione di interesse o di fiducia, indicare una distanza sociale o una relativa 
intimità. 
Le caratteristiche della tesaurizzabilità e dell’accumulabilità, connesse a quella 
della scarsità intrinseca del denaro, aprono la sfaccettata questione del potere e 
quindi quella del disempowerment. Il denaro è qualcosa che ben reifica il concetto 
di potere che può essere esercitato da chi ne possiede su chi ne ha un accesso 
limitato. Alcuni autori, come ad esempio Cavalieri (2009), affermano che questo 
aspetto si possa considerare come una funzione a sè stante: “un’ulteriore funzione 
della moneta, sistematicamente ignorata nei libri di testo di economia, è di 
                                                             
1
 Si consideri come il denaro sia il mezzo tramite il quale si attuano comportamenti che stanno alla 
base di dipendenze “senza sostanza” come lo shopping compulsivo e il gioco d’azzardo.
10 
 
prestarsi ad essere uno strumento di dominio. Chi possiede moneta dispone in 
un’economia di mercato di un potente strumento di dominio, che permette di 
esercitare un potere di condizionamento sugli altri. Questo avviene perché il 
mercato non attribusce uguale diritto di voto ad ogni individuo, ma ad ogni unità 
di moneta. Chi ha un dollaro vota per uno e conta pochissimo, mentre chi ha un 
milione di dollari dispode sul mercato di un milione di diritti di voto. Questa è la 
logica del mercato, che è un’istituzione utile, ma tutt'altro che democratica” 
(Cavalieri, 2009 p. 319). 
In un’ottica più antropo-psicologica si possono evidenziare altre facce che il 
potere presenta in relazione al possesso di denaro. Consideriamo l’aspetto vitale e 
costruttivo di questo concetto, cioè il potere di invece che il potere su, inteso 
come la capacità specie-specifica dell’uomo di padroneggiare e plasmare non solo 
la natura ma anche l’incognito. Il potere così inteso rispecchia una condizione 
basilare dell’essere umano; assumendo questa prospettiva, ci si rende conto di 
quanto sia impressionante il numero di persone che ancora oggi nel mondo vivono 
una condizione di disempowerment, costretti ad uno stato di impotenza pressochè 
totale rispetto all’accesso alle cose vitali più semplici (Amerio, 2000). Se il potere 
può essere inteso come un elemento che compone la relazione, la ricchezza 
monetaria è certamente uno strumento della relazione di potere che, come dice 
Stoppino (1990), permette di indurre un altro a fare certe cose solo nella misura in 
cui l’altro è disposto, o costretto da circostanze esterne, a tenere quel 
comportamento. Nell’ambito della psicologia “ingenua” quotidiana il potere “è 
posseduto” come se fosse una cosa concreta, una sostanza (Amerio, 2000) ed il 
denaro concretizza molto bene la possibilità di avere influenza sugli altri 
determinando relazioni asimmetriche sulla base del suo mero possesso. In sintesi, 
il denaro è la manifestazione più visibile del rapporto di potere tra gli uomini 
moderni, rapporto che però viene oggettivato, cioè svuotato delle dimensioni 
relazionali e ideologiche; allo stesso tempo, con esso inoltre viene veicolata una 
degradante semplificazione dei rapporti umani (Ferrari e Romano, 1999). 
La funzione di deposito di ricchiezza appare particolarmente evidente quando si 
pensa alle somme che giacciono nei conti deposito, dove il denaro rimane fermo 
anche perché garantisce una rendita dovuta al pagamento di interessi sul deposito 
stesso. Come fa notare Borruso (2002), ciò appare in contraddizione con la 
funzione, che sarà esaminata più avanti, di intermediario di scambio. La tendenza 
all’accumulo di una riserva di valore può essere analizzata anche come processo 
di acquisizione di oggettì-sé (Kohut, 1988) che, permanendo nell’età adulta,
11 
 
contribuisce alla composizione del Sé esteso cosi come definito da Belk (1988). In 
questo senso è significativa l’affermazione di Erich Fromm: “se il mio sé è 
costituito da ciò che io ho, sono immortale se le cose che ho sono indistruttibili 
[…] nella misura in cui sono proprietario di capitali, divengo immortale” 
(Fromm, 1977 pp. 113-4). 
A tal proposito, appaiono cruciali le questioni del tasso di interesse e del debito. 
Anche se a noi sembra scontato chi si paghi e si riceva una percentuale sull’uso 
del denaro, non si può ignorare che tale proprietà renda l’odierno oggetto moneta 
l’unica merce che, oltre a non avere costi di deposito, è in grado di moltiplicare se 
stessa. Margrit Kennedy (1995), nel suo volume “La moneta libera da inflazione e 
da interesse”, dimostra in modo chiaro come il tasso di interesse sia connaturato 
ad ogni prezzo e non riguarda solo chi chiede un prestito. Considerando che 
proprio per definizione sono i più poveri a pagare il prezzo dell’uso del denaro, è 
come se tutti noi consentissimo “che un meccanismo occulto di redistribuzione 
trasferisca incessantemente la ricchezza in modo iniquo da quelli che devono 
lavorare per vivere e quelli che vivono di rendita” (Kennedy, 1995 p. 13). 
Deleuze e Guattari (1980) definiscono questo sistema di accumulo come una 
violenza che si pone sempre come già fatta, benchè la si rifaccia ogni giorno. Il 
meccanismo del tasso di interesse perciò contribuisce a fornire un’ambivalente 
percezione del possesso del denaro: per chi lo detiene esso è sì una riserva di 
ricchezza ma da un punto di vista più ampio “mina la solidità comunitaria, rompe 
i legami di solidarietà esistenti e fa scontrare con la concezione strumentale: 
come può una entità inanimata generare altro denaro?” (Bustreo e Zatti, 2007 p. 
58). Se il connaturato meccanismo distributivo dell’interesse non fa altro che 
concentrare il denaro nelle mani di chi già ne possiede, pare legittimo domandarsi 
quale può essere l’effettiva percezione di controllo da parte delle persone che ne 
hanno accesso limitato e solo tramite la fatica del proprio lavoro. 
La questione che ancora rimane aperta e senza una risposta soddisfacente è cosa in 
concreto permetta all’oggetto denaro di avere “valore” per persone. In altre parole 
cosa ne conferisce effettivamente la capacità di acquistare i beni. 
 
1.2. Mezzo di pagamento
12 
 
Il pagamento, nel senso moderno del termine è l’adempimento di un’obbligazione 
mediante la consegna di unità quantificate. Tale caratteristica appare ovvia perché 
consolidata nella nostra esperienza ma la nozione di origine indipendente del 
pagamento era presente nelle civiltà arcaiche, dove l’obbligazione poteva essere 
estinta con una grande varietà di consuetudini come ad esempio con un sacrificio 
o lo svolgimento di servizi utili. Oggi, infatti, ci si dimentica che il pagamento per 
millenni ha tratto origine delle obbligazioni religiose, sociali o politiche anziché 
dalle trattazioni economiche (Polanyi, 1983). Si può dire che attualmente questa 
funzione è diventata appannaggio esclusivo del denaro. 
Secondo Maurizio Pallante (2005), fino a non molto tempo fa, ciò che era 
necessario per vivere poteva essere autoprodotto o scambiato (in particolare i beni 
derivati dalla divisione del lavoro e dalle eccedenze) all’interno della propria 
comunità e diventava oggetto di acquisto solo se non poteva essere reperito in 
loco con le prime due modalità. Con l’avvento dell’industrialismo le merci si 
diversificano, si parcellizzano le produzioni, aumenta la divisione del lavoro; più 
il lavoratore si specializza più si allontana dall’autosufficienza e viene a dipendere 
totalmente dal denaro (Fini, 1998). Nell’economia odierna, dove la ricchezza di 
un paese è misurata dai beni scambiati come equivalenti a merci (vedi ad esempio 
la critica al P.I.L.
2
 come misura del benessere in Pallante, 2005 o il paradosso di 
Easterlin
3
, 1974, cfr. Kahneman, 2004), ed essendosi sempre più eclissata la 
pratica dell’autoproduzione e dello scambio reciproco, la possibilità di soddisfare 
ogni genere di necessità è sempre più limitata all’atto vendere-comprare. Perciò, 
chi ha un limitato accesso all’ormai esclusivo mezzo di pagamento, di 
conseguenza ha una proporzionata limitata possibilità di soddisfare i propri 
bisogni. Secondo il filosofo Ivan Illich (1981), nella società occidentale la 
trasformazione dei bisogni in richiesta di merci ha dato origine alla versione 
moderna della povertà che consiste nella menomazione delle capacità e 
dell’indipendenza degli individui. A partire dagli anni 70, per povertà si è iniziato 
ad intendere la misura universale astratta del sottoconsumo e “dove regna questo 
                                                             
2
 Nello storico discorso all’Università del Kansas (18 marzo 1968), il P.I.L. (Prodotto Interno 
Lordo) fu descritto da Robert Kennedy come ciò che “misura tutto, eccetto ciò che rende la vita 
degna di essere vissuta“. 
3
 Il paradosso di Easterlin o paradosso della felicità venne definito da Richard Easterlin 
ricercando le ragioni per la limitata diffusione della moderna crescita economica. Egli evidenziò 
che nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di 
ricchezza. Questo paradosso, secondo Easterlin, si può spiegare osservando che, quando aumenta 
il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino ad un certo punto, poi 
comincia a diminuire, seguendo una curva ad U rovesciata (Easterlin, 1974).