4
INTRODUZIONE
Il presente lavoro muove dal presupposto che il denaro sia uno tra i prodotti più
originali dell’intelletto sociale poichè “ha consentito una semplificazione senza
precedenti delle modalità di accesso a beni e servizi necessari alla vita”. Già nelle
forme più arcaiche, questa sua utilità negli scambi è apparsa evidente rispetto alle
forme di baratto puro e da allora l’oggetto moneta ha avuto uno sviluppo ed un
impiego sempre maggiore fino a diventare un elemento complesso, sempre più
essenziale per la sussistenza della quasi totalità delle persone. Allo stesso tempo
però il denaro rappresenta un elemento di disuguaglianza e resta un argomento
tabù più forte di molti altri. Inoltre, si osserva come la sua diffusione ha
allontanato sempre più l’uomo dalla dimensione della comunità perché lo “ha
sempre più svincolato dal mutuo aiuto e dal sostegno del gruppo”. Un’altra
considerazione fondamentale ha origine dal costatare che il denaro, che permette
di far lavorare le persone, è un mezzo sempre più scarso tanto che è sempre più
difficile utilizzarlo per unire bisogni non soddisfatti e risorse non usate. Pare
quindi legittimo riaprire una riflessione, in termini psicosociali, su cosa sia
effettivamente questo strumento, così come è attualmente concepito, e su cosa
comporti il suo utilizzo sulla percezione e nelle relazioni interumane. Questa
analisi, lontana dalla pretesa di esaurire l’argomento, si propone pertanto, in una
serie di passaggi, di far emergere che parlare di denaro corrisponde in sostanza a
parlare di relazioni e di fiducia cioè, in ultima analisi, costituisce un elemento
imprescindibile dell’interfaccia tra sfera personale e sociale. Premesso ciò, il tema
che sarà sviluppato riguarderà la concreta possibilità di ripensare ad un bmoneta,
non come “unica ed univoca”, ma come forma di connessione orizzontale che, per
prima cosa, necessita di una ridefinizione a partire dalle dimensioni locale e
comunitaria. Infatti, la definizione di una moneta sociale permette di richiamare
l’attenzione su come dovrebbe essere uno strumento monetario alla portata di tutti
e al servizio della comunità locale; ciò costituisce il punto cardine che permette
l’articolazione del ragionamento sulla possibilità che economia di mercato ed
economia delle relazioni coesistano nella prospettiva di un benessere condiviso.
Nel primo capitolo, l’analisi del denaro ci servirà a comprendere meglio la sua
natura ed in particolare quali aspetti siano implicati nella sua percezione e quali
vadano ad interessare le sfere cognitiva e relazionale-affettiva. In questo percorso
analizzaremo per prima cosa le funzioni classiche del denaro soffermandoci sui
risvolti psicosociali e sui significati simbolici che questo assume; quest’analisi
5
sarà poi ripresa servendoci dell’apporto di specifici paradigmi delle scienze
psicologiche. Nel secondo capitolo sarà esaminato il comportamento prosociale
iniziando da una riflessione sulla problematica dualistica egoismo-altruismo.
Sempre in questo ambito, servendoci del contributo della teoria dei giochi,
saranno analizzate le dinamiche della collaborazione in situazioni paradigmatiche
come il Dilemma del Prigioniero e il Gioco dell’Ultimatum. Ci soffermeremo
inoltre sull’osservazione di alcune variabili culturali e sull’interazione tra specifici
profili definiti in base alle modalità preminenti di cooperazione. Ancora sul tema
del comportamento prosociale, particolare attenzione sarà dedicata al concetto di
reciprocità e ai significati del dono, arrivando poi ad ampliare la prospettiva grazie
al concetto di solidarietà. Questa base teorica sarà propedeutica all’introduzione
dell’argomento relativo alle monete sociali, oggetto specfico del terzo capitolo.
Qui si esamineranno le monete sociali come strumenti che permettono la
ridefinizione del denaro come un mezzo al servizio della comunità in quanto
simbolo di un rinnovato patto di collaborazione fiduciaria tra i membri di uno
specifico territorio.
6
RIPENSARE IL DENARO
“La filosofia comincia con un senso di mistero e meraviglia
nei confronti di ciò che ogni persona sana di mente
considera troppo ovvio per preoccuparsene”
Searle, 2004
Noi tutti abbiamo una consolidata esperienza di cosa sia il denaro, ci appare
chiaro come funziona e possiamo dare una definizione empirica partendo
dall’utilizzo che ne facciamo abitualmente, ma spiegare con precisione di cosa si
tratti e quali siano le implicazioni cognitive, affettive e relazionali del suo utilizzo
può rivelarsi una questione complessa e per certi aspetti controversa. Come
affermano Ferrari e Romano (1999) “il denaro, nella sua interezza, è un concetto
troppo complesso perché possa essere affrontato per pura addizione di
argomentazioni, che in successione lineare esauriscano il tema” (p. 166). Oggi ci
troviamo immersi in un’economia che si basa quasi esclusivamente sull’utilizzo di
denaro; è grazie ad esso che, specialmente nelle aree cittadine, possiamo accedere
alla totalità dei beni di consumo o dei servizi che rispondono alla maggior parte
delle nostre necessità quotidiane. Il sociologo George Simmel notava questo
fenomeno già nel 1900, affermando, nella sua opera più importante, che
l’economia del denaro domina la metropoli. Degno di particolare nota è il fatto
che, pur condizionando fortemente un elevato numero dei nostri comportamenti,
le problematiche sollevate da questo strumento rimangono un argomento tabù più
forte di tanti altri, come se una sorta di pudore esercitasse un effetto inibitorio
sugli psicoanalisti e in egual modo sull’intera società (Viderman, 1993).
Ad un primo sguardo l’analisi del denaro appare dominio esclusivo delle scienze
economiche, mentre un’indagine più completa non può che richiedere l’apporto di
importanti contributi dalle scienze sociali (es.: Beattie, 1978; Polanyi, 1983;
Auriti, 2003) e filosofiche (es.: Simmel, 1900; Pound, 1933; Mathieu, 1985;
Coluccia, 2002). Il campo psicologico in particolare, appare imprescindibile da
percorrere considerando le implicazioni affettive e relazionali che il denaro porta
con sé. Inoltre, come afferma Margrit Kennedy (1995), il denaro “è una delle
questioni centrali della vita di molti ed è strettamente connesso con la percezione
che la gente ha di se stessa e del mondo” (pp. 71-72). Sorprende a tal proposito
7
che, proprio in questo campo, come è stato rilevato da Furnham e Lewis (1986) e
da Moscovici (1991), i lavori prodotti sull’argomento siano relativamente scarsi e
appaiano inoltre isolati e scollegati. Anche Webley (2001) nota come sia
sorprendente il fatto che “il comportamento delle persone con, e nei confronti, dei
soldi sembra talmente basilare e fondamentale quanto sia ignorato dagli
psicologi” (Zappalà e Sarchielli, 2001 p. 37). Se allo stato attuale è doveroso
annoverare un incremento dei contributi scientifici e divulgativi da parte delle
scienze psicologiche (es.: Vohs, 2008; Zhou et al., 2009) permane comunque
un’evidente frammentarietà.
1. FUNZIONI DEL DENARO
Sia il dizionario Garzanti (2007) che l’Enciclopedia Zanichelli (2006) descrivono
un primo significato della parola “denaro” abbastanza convergente, defininendolo
come ogni tipo di odierna moneta metallica, cartacea o di qualsiasi altro tipo di
supporto, che è destinata a costituire mezzo di pagamento per l’acquisto di beni e
servizi e per l’estinzione di debiti, ma anche unità di misura del valore.
L’Enciclopedia Britannica (2012) definisce il denaro come “un bene accettato dal
consenso generale come mezzo di scambio economico. È il mezzo in cui sono
espressi i prezzi e valori; come valuta, circola in forma anonima da persona a
persona e da paese a paese, in modo da facilitare gli scambi, ed è la principale
misura della ricchezza”. Nell’accezione più tecnica il denaro è semplicemente uno
strumento e, in quanto tale, può essere definito a partire dai suoi aspetti funzionali.
Questa prospettiva costituisce un utile punto di partenza per la sua comprensione
ma non può esaurire il significato che effettivamente assume per le persone che lo
adoperano. Inoltre occorre notare che limitarsi ad una connotazione funzionale
pone il rischio di mettere a fuoco solo lo strumento in sé, portandoci a credere che
si tratti di qualcosa di idealmente neutrale, slegato dal suo fondamentale
significato simbolico. Su quest’ultimo aspetto l’Enciclopedia Britannica riporta
infatti che in denaro è anche “una convenzione sociale […] di rara forza a cui le
persone si attengono anche sotto le più estreme provocazioni”.
Tralasciando per adesso la connotazione simbolica, muoviamo dalla prospettiva
funzionale. Così come riportato nel Nuovo Dizionario di Borsa e Finanza (2002),
8
le definizioni tecniche classiche degli strumenti monetari attuali (es.: Polanyi,
1983; Kennedy, 1995; Pittau, 2003; Lietar, 2007) propongono la distinzione di
quattro funzioni base: deposito di ricchezza, mezzo di pagamento, unità di conto,
intermediario di scambio. A partire da questi quattro aspetti, analizziamo con
specifica attenzione le implicazioni psicologiche e relazionali sottese o da questi
derivate.
1.1. Deposito della ricchezza
La funzione di deposito della ricchezz, definita anche con i termini riserva di
valore, consiste nella possibilità di accumulare oggetti quantificabili per poterne
disporre in futuro o solamente per tesaurizzarli. Nel primo caso l’individuo si
priva di un consumo immediato per rinviarlo in un momento futuro, nel secondo
caso la tesaurizzazione è motivata dai vantaggi derivanti dal mero possesso (e
dall’eventuale ostentazione), cioè dal prestigio e dal potere che derivano. Già
Aristotele distingueva questo utilizzo del denaro che riconduceva a quella forma
di economia chiamata crematistica per differenziarla dalle attività finalizzate alla
giusta cura della casa e della comunità (Zappalà e Sarchielli, 2001): l’oikonomia.
L’accumulo effettuato tramite la privazione di un consumo immediato in vista di
un beneficio futuro, ha precise connotazioni psicologiche. Nella prospettiva
psicoanalitica, un Io equilibrato riesce a mediare le spinte dell’Es gestendo la
soddisfazione delle pulsioni e ciò permette la realizzazione di progetti a media e
lunga scadenza che conferiscono vantaggi futuri maggiori rispetto alle
soddisfazioni immediate. Interessante appare il comportamento dell’accumulo
costante che, oltre ad un certo limite, può arrivare ad assumere quei connotati che
potremmo definire compulsivi; ed è proprio ciò che è permesso e sostenuto in
un’economia di tipo capitalistica. Deleuze e Guattari (1980) ritengono che, come
regola generale, si abbia un sistema di accumulo, “tutte le volte in cui avviene il
montaggio di un apparato di cattura, con la violenza molto particolare che crea,
o contribuisce a creare quello su cui essa si esercita e che, perciò presuppone se
stessa” (p. 654). Fondamentale per l’apparato di cattura in questione è il
meccanismo del debito e del tasso di interesse.
Un comportamento patologico, complementare all’accumulo e relativo all’uso,
può derivare da quella caratteristica che rende il denaro spendibile con estrema
9
facilità. Esso, infatti, in qualità di rappresentante di tutto ciò che è in grado di
comprare, permette la soddisfazione immediata di qualsiasi desiderio trovi una
risposta commerciale. Tale comportamento, in un’accezione più sociologica è
comunemente denominato consumismo e risulta evidente nelle sue forme più
estreme come nella psicopatologia
1
; in altri termini esso consiste in quegli atti che
sono riconducibili a particolari forme di fruizione del piacere definibili tramite la
metafora del “tracannare”. Erich Fromm (1977) illustra questa metafora partendo
dal concetto di incorporazione. Incorporare una cosa, ad esempio mangiandola o
bevendola, è una forma arcaica di possesso che è tipica di una certa fase dello
sviluppo infantile. Per Fromm, consumare è oggi la principale forma dell’avere:
“l’atteggiamento implicito del consumismo è quello dell’inghiottimento del mondo
intero” e “il consumatore è un eterno lattante che strilla per avere il poppatoio”
(ibidem p. 46).
Anche dalla seconda accezione di deposito di ricchezza, quella che si riferisce ai
vantaggi conseguenti il mero possesso, scaturiscono importanti implicazioni di
ordine psicologico. Il prestigio che deriva dal semplice possesso di denaro,
presuppone che vi sia una qualche forma di ostentazione. Secondo una prospettiva
espressivo-comunicativa, oltre un secolo fa Weblen (1899) introduceva il concetto
che il denaro, per i ricchi, permetterebbe il consumo vistoso, ossia l’idea che oltre
ad una certa soglia, si acquistino beni per mettere in evidenza classe sociale e
ricchezza. Da ciò deriva che tali comportamenti possono essere studiati utilmente
anche come forma di comunicazione e tale possibilità è ben evidenziata negli
studi sociali sull’offerta di doni (es.: Mauss, 1924). Lo scambio di doni, infatti,
può assumere una grande varietà di significati come rappresentare l’apertura di
una relazione di interesse o di fiducia, indicare una distanza sociale o una relativa
intimità.
Le caratteristiche della tesaurizzabilità e dell’accumulabilità, connesse a quella
della scarsità intrinseca del denaro, aprono la sfaccettata questione del potere e
quindi quella del disempowerment. Il denaro è qualcosa che ben reifica il concetto
di potere che può essere esercitato da chi ne possiede su chi ne ha un accesso
limitato. Alcuni autori, come ad esempio Cavalieri (2009), affermano che questo
aspetto si possa considerare come una funzione a sè stante: “un’ulteriore funzione
della moneta, sistematicamente ignorata nei libri di testo di economia, è di
1
Si consideri come il denaro sia il mezzo tramite il quale si attuano comportamenti che stanno alla
base di dipendenze “senza sostanza” come lo shopping compulsivo e il gioco d’azzardo.
10
prestarsi ad essere uno strumento di dominio. Chi possiede moneta dispone in
un’economia di mercato di un potente strumento di dominio, che permette di
esercitare un potere di condizionamento sugli altri. Questo avviene perché il
mercato non attribusce uguale diritto di voto ad ogni individuo, ma ad ogni unità
di moneta. Chi ha un dollaro vota per uno e conta pochissimo, mentre chi ha un
milione di dollari dispode sul mercato di un milione di diritti di voto. Questa è la
logica del mercato, che è un’istituzione utile, ma tutt'altro che democratica”
(Cavalieri, 2009 p. 319).
In un’ottica più antropo-psicologica si possono evidenziare altre facce che il
potere presenta in relazione al possesso di denaro. Consideriamo l’aspetto vitale e
costruttivo di questo concetto, cioè il potere di invece che il potere su, inteso
come la capacità specie-specifica dell’uomo di padroneggiare e plasmare non solo
la natura ma anche l’incognito. Il potere così inteso rispecchia una condizione
basilare dell’essere umano; assumendo questa prospettiva, ci si rende conto di
quanto sia impressionante il numero di persone che ancora oggi nel mondo vivono
una condizione di disempowerment, costretti ad uno stato di impotenza pressochè
totale rispetto all’accesso alle cose vitali più semplici (Amerio, 2000). Se il potere
può essere inteso come un elemento che compone la relazione, la ricchezza
monetaria è certamente uno strumento della relazione di potere che, come dice
Stoppino (1990), permette di indurre un altro a fare certe cose solo nella misura in
cui l’altro è disposto, o costretto da circostanze esterne, a tenere quel
comportamento. Nell’ambito della psicologia “ingenua” quotidiana il potere “è
posseduto” come se fosse una cosa concreta, una sostanza (Amerio, 2000) ed il
denaro concretizza molto bene la possibilità di avere influenza sugli altri
determinando relazioni asimmetriche sulla base del suo mero possesso. In sintesi,
il denaro è la manifestazione più visibile del rapporto di potere tra gli uomini
moderni, rapporto che però viene oggettivato, cioè svuotato delle dimensioni
relazionali e ideologiche; allo stesso tempo, con esso inoltre viene veicolata una
degradante semplificazione dei rapporti umani (Ferrari e Romano, 1999).
La funzione di deposito di ricchiezza appare particolarmente evidente quando si
pensa alle somme che giacciono nei conti deposito, dove il denaro rimane fermo
anche perché garantisce una rendita dovuta al pagamento di interessi sul deposito
stesso. Come fa notare Borruso (2002), ciò appare in contraddizione con la
funzione, che sarà esaminata più avanti, di intermediario di scambio. La tendenza
all’accumulo di una riserva di valore può essere analizzata anche come processo
di acquisizione di oggettì-sé (Kohut, 1988) che, permanendo nell’età adulta,
11
contribuisce alla composizione del Sé esteso cosi come definito da Belk (1988). In
questo senso è significativa l’affermazione di Erich Fromm: “se il mio sé è
costituito da ciò che io ho, sono immortale se le cose che ho sono indistruttibili
[…] nella misura in cui sono proprietario di capitali, divengo immortale”
(Fromm, 1977 pp. 113-4).
A tal proposito, appaiono cruciali le questioni del tasso di interesse e del debito.
Anche se a noi sembra scontato chi si paghi e si riceva una percentuale sull’uso
del denaro, non si può ignorare che tale proprietà renda l’odierno oggetto moneta
l’unica merce che, oltre a non avere costi di deposito, è in grado di moltiplicare se
stessa. Margrit Kennedy (1995), nel suo volume “La moneta libera da inflazione e
da interesse”, dimostra in modo chiaro come il tasso di interesse sia connaturato
ad ogni prezzo e non riguarda solo chi chiede un prestito. Considerando che
proprio per definizione sono i più poveri a pagare il prezzo dell’uso del denaro, è
come se tutti noi consentissimo “che un meccanismo occulto di redistribuzione
trasferisca incessantemente la ricchezza in modo iniquo da quelli che devono
lavorare per vivere e quelli che vivono di rendita” (Kennedy, 1995 p. 13).
Deleuze e Guattari (1980) definiscono questo sistema di accumulo come una
violenza che si pone sempre come già fatta, benchè la si rifaccia ogni giorno. Il
meccanismo del tasso di interesse perciò contribuisce a fornire un’ambivalente
percezione del possesso del denaro: per chi lo detiene esso è sì una riserva di
ricchezza ma da un punto di vista più ampio “mina la solidità comunitaria, rompe
i legami di solidarietà esistenti e fa scontrare con la concezione strumentale:
come può una entità inanimata generare altro denaro?” (Bustreo e Zatti, 2007 p.
58). Se il connaturato meccanismo distributivo dell’interesse non fa altro che
concentrare il denaro nelle mani di chi già ne possiede, pare legittimo domandarsi
quale può essere l’effettiva percezione di controllo da parte delle persone che ne
hanno accesso limitato e solo tramite la fatica del proprio lavoro.
La questione che ancora rimane aperta e senza una risposta soddisfacente è cosa in
concreto permetta all’oggetto denaro di avere “valore” per persone. In altre parole
cosa ne conferisce effettivamente la capacità di acquistare i beni.
1.2. Mezzo di pagamento
12
Il pagamento, nel senso moderno del termine è l’adempimento di un’obbligazione
mediante la consegna di unità quantificate. Tale caratteristica appare ovvia perché
consolidata nella nostra esperienza ma la nozione di origine indipendente del
pagamento era presente nelle civiltà arcaiche, dove l’obbligazione poteva essere
estinta con una grande varietà di consuetudini come ad esempio con un sacrificio
o lo svolgimento di servizi utili. Oggi, infatti, ci si dimentica che il pagamento per
millenni ha tratto origine delle obbligazioni religiose, sociali o politiche anziché
dalle trattazioni economiche (Polanyi, 1983). Si può dire che attualmente questa
funzione è diventata appannaggio esclusivo del denaro.
Secondo Maurizio Pallante (2005), fino a non molto tempo fa, ciò che era
necessario per vivere poteva essere autoprodotto o scambiato (in particolare i beni
derivati dalla divisione del lavoro e dalle eccedenze) all’interno della propria
comunità e diventava oggetto di acquisto solo se non poteva essere reperito in
loco con le prime due modalità. Con l’avvento dell’industrialismo le merci si
diversificano, si parcellizzano le produzioni, aumenta la divisione del lavoro; più
il lavoratore si specializza più si allontana dall’autosufficienza e viene a dipendere
totalmente dal denaro (Fini, 1998). Nell’economia odierna, dove la ricchezza di
un paese è misurata dai beni scambiati come equivalenti a merci (vedi ad esempio
la critica al P.I.L.
2
come misura del benessere in Pallante, 2005 o il paradosso di
Easterlin
3
, 1974, cfr. Kahneman, 2004), ed essendosi sempre più eclissata la
pratica dell’autoproduzione e dello scambio reciproco, la possibilità di soddisfare
ogni genere di necessità è sempre più limitata all’atto vendere-comprare. Perciò,
chi ha un limitato accesso all’ormai esclusivo mezzo di pagamento, di
conseguenza ha una proporzionata limitata possibilità di soddisfare i propri
bisogni. Secondo il filosofo Ivan Illich (1981), nella società occidentale la
trasformazione dei bisogni in richiesta di merci ha dato origine alla versione
moderna della povertà che consiste nella menomazione delle capacità e
dell’indipendenza degli individui. A partire dagli anni 70, per povertà si è iniziato
ad intendere la misura universale astratta del sottoconsumo e “dove regna questo
2
Nello storico discorso all’Università del Kansas (18 marzo 1968), il P.I.L. (Prodotto Interno
Lordo) fu descritto da Robert Kennedy come ciò che “misura tutto, eccetto ciò che rende la vita
degna di essere vissuta“.
3
Il paradosso di Easterlin o paradosso della felicità venne definito da Richard Easterlin
ricercando le ragioni per la limitata diffusione della moderna crescita economica. Egli evidenziò
che nel corso della vita la felicità delle persone dipende molto poco dalle variazioni di reddito e di
ricchezza. Questo paradosso, secondo Easterlin, si può spiegare osservando che, quando aumenta
il reddito, e quindi il benessere economico, la felicità umana aumenta fino ad un certo punto, poi
comincia a diminuire, seguendo una curva ad U rovesciata (Easterlin, 1974).