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presa in esame la storia dei suoi modelli organizzativi dal 1970 ad oggi, suddivisa
approssimativamente in tre fasi: quella dell’Alta Automazione e della flessibilità di prodotto,
quella della Qualità Totale e della Fabbrica Integrata, quella della terziarizzazione avanzata e
della Fabbrica Modulare. Ad ognuna di queste è dedicato un capitolo.
Si è trattato, come vedremo, di un’evoluzione dettata non solo da esigenze di mercato ma
anche dal confronto, talvolta drammatico, con la forza lavoro organizzata e, più di recente,
con le resistenze individuali.
Il lavoro si conclude con un’osservazione complessiva sull’evoluzione dei modelli
organizzativi negli stabilimenti di FIAT Auto, che prende in considerazione le reali
determinanti che hanno guidato il management in questo cammino di trasformazione. Si
cerca infine di spiegare il ruolo che le vecchie strutture gerarchico-burocratiche e la cultura
fordista, ampiamente radicata nella gerarchia operaia, hanno avuto nel determinare e limitare
le scelte organizzative dell’azienda; se, in sostanza, le vecchie pratiche tayloriste siano state
effettivamente superate o se costituiscono ancora una determinante importante pur in quegli
scenari che si professano “post-fordisti”.
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PARTE PRIMA
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CAPITOLO I
IL MODELLO GIAPPONESE NELLA PROSPETTIVA
OCCIDENTALE
1.1 Il modello giapponese: le caratteristiche generali
Prima di parlare del modello giapponese nella prospettiva occidentale è necessaria una breve
sintesi che illustri le caratteristiche principali di questo modello organizzativo.
In primo luogo bisogna rilevare la centralità del suo elemento strutturale, che è il sistema
Just-in-Time (di seguito denominato JIT). Si tratta di un sistema produttivo che garantisce la
continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal
mercato; esso si basa sull’idea del produrre e consegnare merci finite al momento opportuno
per inserirle nei sottogruppi, e i materiali acquistati per trasformarli al momento opportuno in
parti.
Le conseguenze sull’output sono del tutto opposte a quella della produzione di massa:
mentre il fordismo-taylorismo punta su economie di scala attraverso la fabbricazione
prolungata e uniforme di un dato prodotto e il rigido rispetto delle quantità programmate in
anticipo, il modello giapponese, tramite il JIT, tende a far uscire prodotti in serie brevi e
differenziate, adattandole continuamente in base alle fluttuazioni della domanda. E’ il
mercato quindi a “tirare” la produzione.
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Il JIT si basa su quattro requisiti fondamentali (Bonazzi, 2000), ognuno dei quali comporta
rilevanti conseguenze organizzative:
1) L’eliminazione delle risorse ridondanti, considerate spreco.
All’opposto dell’officina delle fabbriche fordiste, ricche di scorte per fronteggiare le
situazioni critiche, il modello giapponese punta su un officina minima dove si realizzi una
“produzione snella” (Womack et. al. 1991). Tale officina richiede meno scorte, meno spazi,
meno movimenti di materiale, tempi di allestimento più brevi, meno addetti, meno apparati
informativi e tecnologie più frugali. Una filosofia di essenzialità pervade l’officina, dove è
sempre in corso una “caccia” allo spreco (muda). Il concetto di spreco è molto vasto e va
dalla presenza di materiali inutili ai movimenti superflui, dai tempi morti alle produzioni non
immediatamente richieste dal mercato. Il processo congnitivo e di miglioramento continuo
che viene così innestato è detto in giapponese kaizen.
L’utilizzo di una tecnologia frugale (dove per frugale non si intende “arretrata” ma quanto
più possibile semplice e manovrabile dagli operatori) insieme alla riduzione delle scorte
consente di poter provvedere a rapidi e frequenti allestimenti dei macchinari per cambiare di
produzione ed accorciare i tempi di transito ogni qual volta le esigenze della domanda lo
richiedano.
2) Il coinvolgimento dei dipendenti nelle decisioni riguardanti la produzione.
E’ così superata del tutto la divisione burocratica del lavoro prevista da Taylor tra
progettazione ed esecuzione. Nel sistema giapponese le mansioni hanno confini poco precisi
e i dipendenti sono sollecitati a partecipare alle decisioni riguardanti la produzione. La
manifestazione più evidente è nel principio di “autonomazione” (da “autonomia” e
“automazione”, in giapponese jidoka), che impone agli operai di interrompere il flusso
produttivo ogni qual volta si riscontrano delle imperfezioni, segnalandolo tramite indicatori
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luminosi (andon). Altre caratteristiche del lavoro nel modello giapponese sono la polivalenza
delle capacità professionali (che consente l’interscambiabilità di posizioni all’interno del
gruppo di lavoro) e la flessibilità delle squadre di lavoro, che adattano la propria consistenza
numerica e la propria struttura interna alle variazioni dei compiti e del flusso produttivo.
L’impegno verso il kaizen, realizzato dai lavoratori con suggerimenti, discussioni di gruppo,
sperimentazioni, mostra quanto si sia lontani dal modello taylorista, dove la modalità di
esecuzione del lavoro (la one best way) era prestabilita e definita una volta per tutte da una
squadra di esperti ed imposta dall’alto. Mentre il lavoratore fordista era impegnato in compiti
ripetitivi, per nulla coinvolgenti, di mera esecuzione, l’impresa giapponese si sostiene invece
sull’altissima capacità intellettuale dei suoi operai (Koike, 1988).
Un’altra differenza fondamentale rispetto al fordismo, è l’essenzialità del coordinamento
orizzontale (Aoki, 1991) che supera il tradizionale collegamento verticale (per via
gerarchica).
La sua funzione principale è creare un sistema il più possibile integrato tra flusso delle
informazioni e flusso della produzione allo scopo di garantire un adattamento flessibile alla
domanda di mercato con il minimo ricorso alle scorte di magazzino. Il coordinamento
orizzontale è realizzato principalmente tramite il sistema kanban, ossia un sistema di
cartellini posti su recipienti mobili che svolgono la doppia funzione di moduli d’ordine e di
notifiche di consegna. Le operazioni delle varie postazioni lavorative sono così coordinate
attraverso un flusso informativo che muove da monte a valle, senza bisogno di ricorrere a
sistemi centralizzati di pianificazione.
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3) La partecipazione dei fornitori.
Le imprese ispirate al modello giapponese seguono una politica di fornitura opposta a quella
delle imprese fordiste tradizionali: non scelgono i fornitori in base ai costi delle singole
commesse, ma li selezionano accuratamente in base alla capacità di collaborare con
l’impresa madre in piani di lungo termine. Questi piani vanno dalla progettazione dei
componenti fino al loro costante miglioramento nel corso degli anni. L’impresa madre
favorisce la collaborazione tra i fornitori attraverso il loro raggruppamento in grappoli di
sub-fornitori, che consenta un interscambio di informazioni e aiuti. Le aziende fornitrici
tendono a localizzarsi a breve distanza dall’azienda madre in modo di garantire rapide e
frequenti consegne di materiale in conformità alle prescrizioni del JIT, e creando una fitta
rete cooperativa basata su rapporti di fiducia e di reciproca trasparenza e su contratti di lungo
periodo.
4) La ricerca della Qualità Totale
Diversamente dalle tradizionali imprese fordiste, il modello giapponese non affronta la
qualità come un problema separato dalla quantità produttiva, ma la assume invece come una
caratteristica obbligatoria e gratuita dei prodotti, e tutto il processo produttivo è organizzato
in modo da progredire costantemente verso l’obiettivo ideale dello zero difetti. La ricerca
della Qualità Totale è presente lungo tutto il processo lavorativo: dalla ideazione del
prodotto, alla scelta del materiale, alla costruzione, alla consegna. Il processo lavorativo deve
incoroporare dei meccanismi di autocorrezione, in modo che i prodotti arrivino alla fine della
linea già garantiti sul piano della qualità, così da rendere meno importante la revisione e il
controllo. L’utilizzo dell’autonomazione lungo tutta la linea diminuisce progressivamente la
necessità di interrompere il flusso per eliminare i difetti, dato che non si presentano più.
Collegare la qualità all’essenzialità è il modo con cui l’azienda giapponese cerca di
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realizzare un processo produttivo senza sprechi, senza costi economici aggiuntivi ma che
garantisca allo stesso tempo un prodotto che sia privo di difetti per il consumatore.
Compreso che l’obiettivo dello zero-difetti è tanto più facile da perseguire quanto più è corto
il lotto messo in produzione, viene da sé la connessione tra flessibilità produttiva e qualità,
donde la sigla cumulativa JIT/TQM (Total Quality Management) per esprimere l’intima
connessione biunivoca tra i due concetti.
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1.2 Il dibattito in Occidente
L’ampio dibattito che in occidente ha affrontato le novità organizzative del modello
giapponese si è in primo luogo rivolto alle variabili sociali che ne hanno consentito il
successo e alle conseguenze che tale modello provoca nei rapporti tra impresa e dipendenti.
La letteratura manageriale si è infatti resa conto che tale modello non è un patrimonio
esclusivamente giapponese ma un complesso di pratiche e tecniche dotate di una
applicabilità universale, ed esportabile quindi, con i dovuti adattamenti, nel contesto
occidentale.
Nel corso degli anni ’80, tecniche e stili di management di origine giapponese sono stati
adottati con successo sia nei transplant (stabilimenti costruiti all’estero da parte di fondi di
investimento giapponesi) e sia come autonoma ricezione da parte di imprese occidentali.
Man mano che questa penetrazione aumentava, prendeva vigoriva il dibattito sulle
conseguenze sociali e i costi umani che la sua applicazione comporta.
Del sistema produttivo JIT è stata messa in luce la sostanziale ambivalenza. Si tratta infatti di
un delicato meccanismo che è efficientissimo se tutto gira al meglio, ma è estremamente
fragile se sorge un qualunque intoppo. Di conseguenza per poter funzionare, e per poter
garantire quei livelli di qualità che, insieme alla economicità costituiscono i benefici
principali del sistema a zero-scorte, tale sistema richiede un ambiente sociale assolutamente
colalborativo ed estrema dedizione al lavoro.
All’interno di questo dibattito è agevole distinguere tra due differenti approcci. Il primo pone
l’accento sugli aspetti culturali e istituzionali di quel modello, legati alla formazione di
rapporti di fiducia tra i dipendenti e l’azienda, mentre il secondo pone l’accento sui vincoli
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organizzativi provocati dal sistema JIT e sull’intensificazione dello sfruttamento del lavoro
umano.
Il fattore nazionale non è indifferente nel determinare l’orientamento degli approcci. Infatti il
primo genere di approccio (denominato “soft”) si è affermato principalmente negli Stati
Uniti, mentre la seconda impostazione (che possiamo definire “hard”) ha trovato terreno più
fertile in Gran Bretagna, paese dove la sociologia industriale ha più solide tradizioni pro-
labour.
E’ appunto in relazione all’orientamento pro-labour o pro-management che si riscontra il
maggior contrasto all’interno del dibattito sul modello giapponese: infatti a seconda del
sistema di convinzioni di chi giudica, tale modello può apparire come l’occasione per un
esaltante arricchimento della personalità dei lavoratori, oppure come un meccanismo di
sottile e ossessivo asservimento.
E’ bene puntualizzare subito che questi orientamenti non coincidono affatto con le frontiere
nazionali, dato che in tutti i paesi dove si è sviluppato il dibattito sociologico è possibile
riscontrare sia difese sia critiche relative alla teoria organizzativa in questione. Tuttavia
questa distinzione costituisce una variabile importante nel caratterizzare l’indirizzo
prevalente nelle varie comunità scientifiche. E’ infatti possibile notare come, nei paesi con
una tradizione sociologica a più forte orientamento pro-labour, prevalgono le ricerche che
sottolineano gli effetti negativi del modello giapponese sulla condizione operaia, come
l’intensificazione del lavoro e l’indebolimento del sindacato. Al contrario nei paesi dove la
comunità scientifica presenta una maggiore inclinazione pro-management si riscontrano
giudizi più favorevoli, giustificati con l’arricchimento professionale, l’importanza delle
relazioni di fiducia e i vantaggi competitivi che il modello giapponese offre.
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E’ tuttavia necessaria un’ulteriore distinzione, tra chi studia i fattori istituzionali e sociali che
favoriscono l’eccezionale spirito comunitaristico presente nelle aziende giapponesi, e chi
affronta il problema della esportabilità della produzione snella prescindendo da quel contesto
sociale.
Infatti si è trattato di due comunità scientifiche con scarse comunicazioni tra loro: chi mette
l’accento sul management delle risorse umane e sul consenso si limita a brevi e superficiali
commenti sui meccanismi produttivi tipici di quel modello, come il JIT o il sistema kanban;
viceversa, chi individua l’essenza del modello giapponese nel problema di come ridurre lo
spreco e rendere la produzione quanto più snella possibile, tende a vedere tutti gli altri
elementi del modello come ruotanti intorno a questo nodo centrale.
Nel concreto procedere delle ricerche in occidente non si può inoltre prescindere dal
problema del contrasto che sorge tra gli assunti che formano il tipo ideale della produzione
snella (in sostanza come è stato elaborato nella teoria e nella pratica del Sistema di
Produzione Toyota – di seguito denominato SPT) e la concreta fenomenologia delle aziende
occidentali che hanno adottato metodi e tecniche di produzione snella e qualità totale
prescindendo dal fatto che la loro origine storica è stata in Giappone.
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1.3 Favorevoli ed oppositori
Nell’ampio ventaglio di orientamenti riscontrabili all’interno del dibattito, Bonazzi (1993b)
usando come categoria interpretativa principale il modo di porsi nei confronti del problema
dei costi umani, classifica tre generi di posizioni.
La prima è quella dei favorevoli, nella quale distingue a sua volta tra gli “apologeti puri”,
quelli per i quali il lavoro umano ricava solo il beneficio di diventare più intelligente, e i
“difensori realisti”, colori i quali ritengono che il lavoro diventa sì più intelligente, ma anche
più duro e impegnativo.
Gli “apologeti puri” affermano che un principio fondamentale del modello è l’utilizzo di
tutte le capacità umane. Nell’impegno a compiere sempre meglio il proprio lavoro essi
vedono il rispetto della dignità umana, la fonte dell’autostima e il senso di appartenenza a
una comunità. Sono principi che essi riscontrano in pratiche come il decentramento delle
responsabilità a livelli esecutivi, l’appiattimento della gerarchia, il superamento della
divisione tayloristica del lavoro, pratiche che favorirebbero il coinvolgimento intelligente dei
lavoratori e l’alto grado di autorealizzazione. Vengono addotti anche altri argomenti quali
quelli della fusione tra necessità dell’impresa e desideri dei lavoratori (Bergmann 1983,
Muramatsu et. al. 1987, Monden 1983).
I “difensori realisti” non mancano invece di mettere in luce l’incremento stress psicofisico
per i lavoratori, perché non appena riescono a risolvere un problema posto dalla riduzione
delle scorte, subito la direzione elimina altre scorte. E’ quello che Parker e Slaughter (1988)
hanno definito management by blame and stress. In questa prospettiva il confine tra
coinvolgimento e sfruttamento tende a farsi molto sottile.
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Questi autori dimostrano che per sostenere il modello giapponese non è necessario presentare
un quadro edulcorato che meglio si adatti alla sensibilità occidentale; sono quelli, tra i fautori
del modello, che non hanno remore ad ammettere che il lavoro non diventa soltanto più
responsabile ma anche più impegnativo, più controllato, più vincolato, più conforme alle
prescrizioni date, più standardizzato nei contenuti e nei metodi (Schonberger, 1982).
Si tratta di aspetti che pur mostrando tipici segni di standardizzazione taylorista, in un ottica
di JIT costituiscono la premessa per un coinvolgimento attivo, perché solo quando il lavoro è
completamente standardizzato diventa possibile, aumentandone la velocità, far emergere i
punti deboli e coinvolgere gli operai nell’impegno agonistico del miglioramento continuo.
La seconda categoria individuata da Bonazzi è quella degli “oppositori”, per i quali lo
scenario dell’applicazione in occidente del modello giapponese è dipinto con tinte
apocalittiche.
La tesi di questi autori è che il lavoro operaio non diventa più intelligente ma soltanto più
duro. Denunciano i costi umani intollerabili, la pressione dell’illimitato e volontario
asservimento agli imperativi dell’impresa, lo stravolgimento inaccettabile del sistema di
relazioni industriali conquistato in Occidente, la scomparsa o la subordinazione del
sindacato, la centralità ossessiva del lavoro anche nella sfera della vita privata.
Secondo alcuni autori (Dohse, Jurgens e Malsch, 1985) il modello giapponese sarebbe il
massimo perfezionamento del fordismo-taylorismo, secondo altri (Delbridge e Turnbull,
1991) sarebbe invece la più completa espressione di post-fordismo proprio grazie alla novità
dei suoi aspetti disumanizzanti.
La superiorità del toyotismo risiederebbe nell’essere riuscito ad asservire anche la
conoscenza delle astuzie dei lavoratori alla causa della razionalizzazione produttiva, facendo
interiorizzare loro l’etica di un’ossessiva dedizione al lavoro.
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Al contrario di quella europea infatti, la cultura giapponese loderebbe ed esalterebbe questa
spirale di sforzi crescenti che provocano un aumento nei carichi di lavoro.
Comune a tutti questi autori è conclusione che il modello giapponese sia totalmente
incompatibile con il sistema europeo di relazioni industriali, ed è pertanto da rifiutare in
blocco, operando affinchè anche i lavoratori giapponesi comincino a contestarlo.
La critica principale che si può muovere agli autori che Bonazzi ha racchiuso sotto la
definizione di oppositori è che le loro analisi non consentono di distinguere tra il JIT
astrattamente inteso come un sistema produttivo puro e l’applicazione parossistica che di
esso se ne fa in Giappone.
La terza categoria, definita dei “problematici” è sicuramente la più interessante. Essi infatti
sottolineano le ambivalenze del modello giapponese, e partendo da queste sostengono la
possibilità di un suo adattamento al contesto occidentale attenuandone gli effetti più gravosi.
Argomentando dall’estrema intrinseca fragilità del sistema JIT e dalla conseguente necessità
di un forte coinvolgimento dei lavoratori per garantirne il regolare funzionamento, essi
sostengono essere nell’interesse vitale dell’azienda il raggiungimento di un quadro di
relazioni industriali capace di garantire il consenso attivo e la dedizione responsabile dei
dipendenti, obiettivo che in Giappone sarebbe stato raggiunto attraverso l’impiego a vita e
l’integrazione in un sistema totale (Kenney e Florida 1988, Oliver e Wilkinson 1988).
Di conseguenza prevedono l’apertura di una stagione di contrattazioni tra management e
direzione per adattare il JIT all’ambiente sociale (Zipkin, 1991): tale previsione è
teoricamente importante, perché permette di contestare le posizioni apocalittiche che non
distinguono tra JIT ed applicazione giapponese dello stesso.
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La tesi dell’adattamento quindi suppone che sia possibile distinguere tra logiche di
funzionamento del JIT inteso come paradigma organizzativo puro e applicazioni estreme o
forzature che appartengono all’interpretazione del magement, alla sua volontà di dominio ed
ai rapporti di forza.
All’interno della corrente dei “problematici” è avvenuta la presa di coscienza che il modello
giapponese non costituisce un tutto organico dove ogni parte regge ed alimenta l’altra, ma
piuttosto un menù di tecniche e pratiche selezionabili in modo indipendente e addirittura
arbitrario (Klein, 1989).
Adottare una tecnica giapponese piuttosto che un'altra è una scelta che dipende talvolta non
dalla reale necessità dell’impresa, bensì dalla percepita maggiore facilità di adozione di
quella tecnica .
La variante sociologica che all’interno di questa corrente ha realizzato questa
consapevolezza può essere definita “riduzionista”, perché consente un approccio più
articolato e tranquillizzante al problema dell’adattabilità e delle modalità in cui i modelli di
produzione di stampo giapponese sono stati realizzati in occidente.
In questa prospettiva conviene partire dalla distinzione di Ackroyd et al. (1988) tra
giapponesizzazione diretta, piena e mediata (o indiretta) per poi analizzare i diversi modi in
cui, nei differenti paesi occidentali, si sono recepite pratiche e sistemi di Qualità Totale e JIT.