5
motivazionale, nel corso del cammino evolutivo. Quali cambiamenti, e quali 
analogie, è possibile rintracciare nella scala “rettili-mammiferi-esseri umani”? 
Al di là delle differenze strutturali e funzionali, sembra che sia la dimensione 
sociale, permessa dall’alta funzione della coscienza, quella che ha 
caratterizzato in modo determinante l’evoluzione della mente umana. Ecco 
allora comparire una serie di regole innate, geneticamente determinate attorno 
a valori evoluzionisticamente centrali, in grado di guidare il comportamento 
sociale. Gli SMI, Sistemi Motivazionali Interpersonali, sono presenti in tutti i 
mammiferi e rappresentano per questi individui il livello motivazionale 
fondamentale: ricevere e fornire cura, competere per il rango sociale, 
riprodursi sessualmente, cooperare per un obiettivo condiviso. Questo livello 
motivazionale si articola ulteriormente nell’uomo, potenziandosi grazie a 
quella che Edelman (1989) chiama “Coscienza di ordine Superiore”, 
sostanzialmente permessa dalle enormi possibilità fornite dal linguaggio e 
dalle facoltà cognitive superiori. Le emozioni, componente fondamentale degli 
SMI, e la loro funzione regolatrice si articolano in un modo complesso – grazie 
alla capacità di modulazione e condivisione permessa della dimensione 
interpersonale – e diventano una delle componenti fondamentali per la 
costruzione del proprio sistema di significati personale. 
Questo per quanta riguarda l’aspetto filogenetico: ma cosa si potrebbe dire se 
si considerasse lo sviluppo dal solo punto di vista ontogenetico? Lichtenberg, 
grazie ai risultati dell’Infant Research e dell’Infant Observation (ma soprattutto 
grazie alla preziosa opera di Stern (1985)), indaga in profondità la natura e la 
funzione strutturante della motivazione umana all’interno dello sviluppo 
individuale. Anch’egli evidenzia, senza però specificarne la natura, un insieme 
di sistemi (sistema di regolazione psicologica delle esigenze fisiologiche, 
dell’attaccamento-affiliazione, esplorativo-assertivo, avversivo e sensuale-
sessuale) che, regolando la motivazione e l’esperienza emotiva – in un 
contesto concreto ed interpersonale – contribuiscono alla strutturazione del Sé 
inteso quale centro indipendente di avvio, organizzazione, integrazione 
dell’esperienza e della motivazione. 
 6
Entrambi i contributi teorico-clinici concordano nel considerare il sistema 
dell’attaccamento, anche se non lo affermano esplicitamente, come 
gerarchicamente superiore rispetto agli altri, per il fatto di essere quello che 
organizza e struttura per molti anni, data la particolare neotenia umana, la 
relazione tra il bambino e chi si prende cura di lui. 
Queste le basi teoriche; ma come viene concepita l’eziopatogenesi dei disturbi 
mentali secondo le teorie che si basano sui sistemi motivazionali? Con le 
dovute differenze e cautele, entrambe vedono nella distorsione emozionale e 
nella conseguente alterazione del Sé, o del sistema dei significati personale, 
che prende avvio da un attaccamento di tipo insicuro, o peggio disorganizzato, 
la radice della psicopatologia: l’attivazione inappropriata, insufficiente e 
simultanea di due o più sistemi motivazionali (difensiva in senso classico per 
Lichtenberg) conduce a particolari configurazioni emotivo-cognitive che 
soggiacciono alle diverse tipologie di disturbi. Di gran lunga più importante 
risulta però l’attenzione posta, da entrambi gli autori, agli eventi concreti che 
fungono da fattori di rischio per la strutturazione di un percorso 
psicopatologico: maltrattamenti, traumi emotivi, trascuratezza, conflitti cronici, 
esperienze d’abuso, ma anche una comunicazione familiare improntata sulla 
menzogna e sull’invalidazione dell’esperienza emotiva, malattie croniche 
(anche psichiatriche) di uno o di entrambi i genitori e così via. Nella vita 
adulta, poi, saranno eventi pregnanti da un punto di vista emozionale – in 
particolare quelli in grado di attivare prepotentemente il sistema 
dell’attaccamento – a rappresentare i fattori scatenanti una patologia: lutti, 
separazioni (anche solo minacciate), fallimenti lavorativi, ma anche eventi 
potenzialmente positivi come l’inizio di nuove relazioni affettive, avanzamenti 
professionali o una gravidanza. 
Un’ultima nota spetta alla particolare posizione che occupa, nel modello 
cognitivo-evoluzionista, la dimensione (e non la categoria) della 
disorganizzazione dell’attaccamento: essa individuerebbe un continuum 
psicopatologico caratterizzato da fenomeni dissociativi, che sembra i grado di 
dare ragione, in quanto nucleo centrale, di un gruppo apparentemente 
diversificato di disturbi mentali. 
 7
CAPITOLO1 
 
LA NATURA DEI SISTEMI MOTIVAZIONALI 
 
 
I modelli psicopatologici che verranno presi in esame nel corso di questo 
lavoro, vale a dire quello cognitivo-evoluzionista di G. Liotti e quello 
psicanalitico di J.D. Lichtenberg, hanno come punto focale il concetto di 
sistema motivazionale. 
Benché le due teorie li concettualizzano secondo angolazioni e sfumature 
diverse, non vi è dubbio che entrambe li collocano all’interno della biologia 
del sistema nervoso centrale
1
. A parte questo comune punto di partenza 
però, i due autori li faranno discendere da due percorsi diversi: 
evoluzionista e neurofisiologico per Liotti, neurobiologico per Lichtenberg. 
Secondo Liotti i Sistemi Motivazionali, che si caratterizzano esplicitamente 
come Interpersonali, oltre ad avere una radice biologica, ne posseggono 
una evoluzionistica. Infatti, il concetto di SMI è costruito in una zona che si 
potrebbe definire di “cross-over”, in cui l’apporto di etologia, neurobiologia 
evoluzionistica e psicologia si incontrano e si fondono in una interessante 
sintesi multidisciplinare. 
Il modello epistemologico che fa da cornice a tutto questo è da ricondurre 
al pensiero evoluzionista di K.R. Popper, che verrà brevemente illustrato 
nel primo paragrafo, e alle idee di V.F. Guidano. 
Questo lavoro preliminare di contestualizzazione e analisi della nozione di 
SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali) si rende necessario per poter 
comprendere appieno la natura del concetto e le implicazioni che questa 
avrà nella costruzione del modello cognitivo-evoluzionista. 
Lo scopo principale è quello di illustrare un quadro di riferimento che si 
delinea come neuro-psico-sociale. Infatti, come verrà illustrato seguendo 
                                                 
1
 Per quanto riguarda la descrizione dei circuiti cerebrali a cui Lichtenberg riconduce il sistema di regolazione 
psichica delle esigenze fisiologiche, si rimanda all�appendice finale dell�opera �Psicoanalisi e sistemi 
motivazionali� (1989), in quanto una tale descrizione esulerebbe dagli scopi di questo lavoro. 
 8
la teoria della coscienza costruita da Edelman, la mente emerge come 
prodotto che non è possibile definire solo in termini cerebrali, necessari 
ma non sufficienti, ma anche in termini ambientali. Non appare scorretto 
affermare che essa si situi fra biologia ed ambiente, fra l’individuo ed il 
suo contesto ambientale, un ambiente che, nello specifico dell’essere 
umano, si declina secondo due modalità, una fisica e l’altra relazionale. 
Benché il modello di Edelman si riferisca esplicitamente ai soli valori 
appetitivi ed omeostatici in grado di favorire la sopravvivenza biologica 
dell’individuo, attraverso l’analisi proposta da Gilbert delle mete biosociali, 
da esso definite biosocial goals, verrà illustrata la soluzione 
evoluzionistica adottata per l’emergenza e la specializzazione del 
comportamento sociale. Questo perché, come verrà poi evidenziato dallo 
stesso Liotti (1994), l’essenza della natura umana, vale a dire la 
coscienza, possiede una dimensione intrinsecamente interpersonale. 
Senza qui voler anticipare il modello cognitivo-evoluzionista, ma 
limitandosi semplicemente a quanto proposto da Edelman, se il sistema 
nervoso si divide in due parti, l’una deputata alla categorizzazione del sé 
e l’altra a quella del non-sé, nel caso dell’uomo il non-sé, l’ambiente, non 
può che caratterizzarsi soprattutto come sociale. 
Quindi ai valori individuali proposti da Edelman si affiancheranno dei 
valori biosociali che, all’interno della memoria valori-categorie proposta 
dallo studioso americano come base per la categorizzazione ricorsiva 
propria della più generale funzione mnemonica e antecedente necessario 
all’emergere della coscienza, renderanno ragione dello svilupparsi 
progressivo di comportamenti, strategie e tattiche di sopravvivenza, ma 
anche della progressiva specializzazione, di natura sociale (non appare 
quindi casuale che il primo sistema motivazionale teorizzato da 
Lichtenberg sia definito di regolazione psichica delle esigenze fisiologiche, 
in accordo così con la tesi edelmaniana): come si vedrà in seguito, la 
motivazione omeostatica (di conservazione biologica) come facente parte, 
in senso evolutivo, di un livello motivazionale inferiore (in quanto 
 9
condiviso da tutti gli animali), e non specificamente umano come invece 
sarà quello proprio degli SMI. 
 
 
1.1 UNA CORNICE EPISTEMOLOGICA: L’EVOLUZIONISMO DI K. 
POPPER 
 
Karl R. Popper, nel 1989, tenne una conferenza alla London School of 
Economics in cui illustrò come fosse possibile “imparare qualcosa 
[ponendo la teoria della conoscenza] nel vasto e stimolante contesto 
dell’evoluzione biologica” (Popper, 1994).  
Il punto di partenza del filosofo è l’affermazione secondo cui “gli animali 
possono conoscere qualcosa: essi possono avere conoscenza” (Popper, 
1994, corsivo mio). 
Una premessa importante al discorso popperiano è rappresentata dal 
‘principio dell’omologazione’ o ‘teoria dell’omologazione’. Questa teoria 
evoluzionistica sostiene che organi simili all’interno di due specie hanno 
un antenato in comune. L’omologia non si ferma però al solo aspetto 
strutturale, ma è possibile che omologhe siano anche le funzioni, le 
procedure e persino il comportamento, se visto nel suo senso evolutivo
2
. 
E’ da sottolineare che l’ipotesi formulata da Popper, attraverso 
l’affermazione sopra riportata, non implica che gli animali siano 
consapevoli della loro conoscenza, tanto che persino gli uomini 
posseggono conoscenze di cui non sono consci.  
Secondo il filosofo la nostra conoscenza inconscia prende spesso la 
forma di “aspettative inconsce”. 
 
A questo punto è possibile trarre, con Popper (1994), alcune conclusioni 
che discendono dall’affermazione iniziale.  
 
                                                 
2
 Il comportamento di corteggiamento, specie se molto ritualizzato, ne � un esempio. 
 10
1. Per prima cosa la conoscenza si caratterizza, spesso, per il suo 
carattere di aspettativa, per una forma quindi che si definisce, nel 
linguaggio popperiano, congetturale e ipotetica: essa è, per questo, 
incerta. Sembra così che la maggior parte della conoscenza umana e 
animale, soprattutto quella più comune, assuma tale forma. Il suo 
carattere ipotetico però non ne preclude la veridicità oggettiva; anzi, 
questo tipo di conoscenza corrisponde ai fatti oggettivi. 
Diventa allora necessario distinguere fra la verità di un’aspettativa e la 
sua certezza, tra l’idea della verità e quella della certezza. La verità, 
secondo Popper, in quanto corrispondenza con i fatti, è oggettiva; la 
certezza è invece raramente oggettiva, di solito essa è un forte 
sentimento di fiducia, di convinzione, quantunque basato su una 
conoscenza insufficiente. La maggior parte delle nostre ipotesi sembra 
così caratterizzata da molta verità, ma da poca certezza (Popper, 1994). 
 
2. Seguendo il discorso di Popper, non solo gli uomini e gli animali 
possono conoscere ma, altresì, lo possono fare anche le piante, quando il 
senso della conoscenza è il senso biologico ed evoluzionistico (op. cit.). 
Ciò significa che se la conoscenza è in gran parte aspettativa, vera ma 
incerta, anche le piante – in realtà tutti gli organismi – ‘sanno’, o meglio ‘si 
aspettano’, ad esempio che spingendo più in profondità le loro radici 
troveranno l’acqua di cui hanno bisogno. Secondo il filosofo austriaco le 
piante hanno qualcosa che assomiglia alle sensazioni e alle percezioni, 
alle quali reagiscono: nel caso degli alberi è interessante notare come la 
struttura dei loro processi biochimici si tenga al passo con i cambiamenti 
ambientali a lungo termine (modificazioni stagionali). L’albero aspetta 
questi cambiamenti, è come se ne avesse una preconoscenza. Questi 
organismi sono altresì in grado di reagire a forze momentanee, a 
cambiamenti ambientali a breve termine: questa capacità sembra analoga 
alla reazione di un animale in risposta a percezioni a breve termine, ad 
esperienze sensoriali (Popper, 1994). 
 
 11
3. E’ possibile distinguere due tipi di aspettativa, due tipi di adattamento 
che da essa discendono: uno a breve e l’altro a lungo termine (Popper 
1994). L’interesse per questo tipo di conclusione è molto importante: 
infatti mentre gli eventi a breve termine occorrono nella vita dei singoli 
individui, quelli a lungo termine sono tali per cui l’adattamento ad essi 
deve essersi verificato durante l’evoluzione di moltissime generazioni; 
sono interessati due versanti dell’evoluzione, quello ontogenetico nel caso 
del singolo individuo e quello filogenetico quando si prendono in 
considerazione più generazioni. 
Osservando tuttavia la capacità di adattamento a breve termine si può 
notare che anch’essa sembra frutto di un adattamento evoluzionistico e 
non di un evento contingente (Popper, 1994).  
 
4. Negli animali la capacità di conoscere e reagire agli eventi presenti è 
interfacciata con l’ambiente attraverso gli organi di senso (Popper, 1994). 
Se prendiamo come esempio prototipico di questa classe gli occhi, 
vediamo che – come nel caso di una pecora minacciata da una volpe – se 
non ci fosse una conoscenza delle regolarità fisse dell’ambiente (c’è luce; 
ci sono nemici mortali; scappare è possibile solo se si identifica il nemico 
ad una distanza sufficiente), gli organi di senso sarebbero inutili. Si 
deduce quindi che gli organi di senso non si sarebbero potuti sviluppare 
senza una ricchissima conoscenza non consapevole delle condizioni 
ambientali a lungo termine. Questa conoscenza si è indubbiamente 
sviluppata insieme agli occhi e al loro uso, ma, in qualche, modo, secondo 
Popper, deve aver preceduto di almeno un passo l’evoluzione dell’organo 
di senso ed il suo uso. Questo perché la conoscenza delle precondizioni 
dell’uso dello stesso è incorporata nell’organo. 
 
5. Taluni danno forse per scontato che la nostra conoscenza derivi 
esclusivamente dai nostri organi di senso; tuttavia questo, secondo il 
filosofo austriaco, è un errore piuttosto grossolano da un punto di vista 
biologico: affinché i nostri sensi ci possano comunicare qualcosa è 
 12
necessario avere una conoscenza a priori
3
. Essa non può essere il 
risultato dell’osservazione, ma piuttosto il risultato di un’evoluzione basata 
su prova ed errore, dell’adattamento a quelle situazioni che 
rappresentano veri e propri problemi di sopravvivenza (Popper, 1994). 
Riassumendo, la conoscenza a lungo termine deve sempre precedere 
quella a breve termine e non può essere ottenuta solamente a partire da 
quest’ultima; inoltre entrambi i tipi si caratterizzano come ipotetici, 
congetturali: le condizioni a lungo termine possono andare incontro a 
revisioni, così come una conoscenza a breve termine può rivelarsi 
un’interpretazione erronea. 
 
6. La proposizione più decisiva e, forse, più generale che Popper fa 
discendere dalla sua affermazione iniziale (“gli animali possono 
conoscere qualcosa: essi possono avere conoscenza”) è che ogni 
adattamento alle regolarità ambientali e interne, alle situazioni a breve 
come a lungo termine, sono tipi di conoscenza (Popper, 1994). 
 
Una delle conclusioni che egli trae da quanto detto sopra è che anche 
negli organismi più semplici tutto dipende dall’organismo stesso: dalla sua 
struttura, dalla sua condizione e dalla sua attività. Gli organismi ed i loro 
organi incorporano aspettative circa il loro ambiente; queste aspettative 
sono ipotetiche e quindi omologhe alle nostre teorie. 
 
“Tutti gli organismi sono scopritori e solutori di problemi. E ogni soluzione di 
problemi coinvolge valutazioni e, con esse, valori. Solo con la vita valori e 
problemi entrano a far parte del mondo. Per l’evoluzione della conoscenza, due 
dei valori che abbiamo inventato mi sembrano della massima importanza: 
l’atteggiamento autocritico – un valore al quale dobbiamo insegnare a noi stessi 
a tener fede; e la verità – un valore al quale debbono sempre tener fede le 
nostre teorie. […] Entrambi questi valori entrano nel nostro mondo solo con il 
linguaggio umano, il primo e più importante prodotto della mente umana. […] 
Ho ripetuto spesso che fra l’ameba e Einstein c’è un solo scalino. Entrambi 
lavorano col metodo di tentativo ed errore. L’ameba deve odiare i propri errori, 
                                                 
3
 �Per vedere una cosa noi dobbiamo sapere che cosa sono le cose: che esse possono essere poste in un certo 
spazio, [�], che alcune hanno per noi un�importanza immediata, e che pertanto sono percepibili e saranno 
percepite, mentre altre, meno importanti, non arriveranno mai alla soglia della coscienza: esse non vengono 
percepite neanche inconsciamente, e, semplicemente, non lasciano traccia nel nostro apparato biologico�. 
(Popper, 1994) 
 13
perché quando sbaglia muore. Il passo che l’ameba non può fare, ma Einstein 
sì, è quello di assumere un atteggiamento critico ed autocritico” (Popper, 1994). 
 
 
1.2 IL FONDAMENTO EVOLUZIONISTICO DEGLI SMI 
 
La nozione di SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali), centrale nella 
teoria di Liotti, ha una forte radice evoluzionistica. L’influenza che le 
teorie di Darwin ebbero sulla costruzione dei modelli psicologici è cosa 
nota: lo stesso Freud fu largamente influenzato dalle teorie del 
naturalista britannico, come ha fatto notare Ellenbergher (1976) citando, 
ad esempio, la teoria degli istinti. 
Sembra però che la maggior parte delle teorie psicopatologiche siano 
state costruite tralasciando il fatto che gli esseri umani si sono evoluti da 
altri animali e che, soprattutto, possiedano un corpo; così come, sono 
spesso silenti rispetto all’evoluzione del comportamento sociale e alle 
sue relazioni con la psicopatologia. Per cui il fatto che specifici 
comportamenti sociali rappresentino l’espressione di soluzioni 
evoluzionisticamente determinate, viene spesso ignorata. Soprattutto per 
quel che riguarda la scienza cognitiva, così come si è sviluppata negli 
anni Settanta e Ottanta, il corpo è stato relegato al ruolo di ‘macchina’ 
che sembra operare, alternativamente, secondo i codici del pensiero e 
del comportamento. La nascita del computer avrebbe determinato uno 
spostamento degli schemi culturali nella costruzione della relazione 
mente-corpo: in questo contesto si sarebbe verificata la stessa 
conseguenza che una certa filosofia del dualismo ha prodotto in 
medicina. Infatti, se è possibile affermare che troppo spesso la medicina 
ha perso di vista la mente, sembra altrettanto possibile dire che molte 
teorie psicologiche abbiano perso di vista il corpo. Con questo non si 
vuole assolutamente affermare che la tensione essenziale, il divario, 
spesso paradossale, fra mente e corpo, tra esperienza soggettiva ed 
oggettiva, sia facilmente colmabile; al contrario. Tuttavia, in accordo con 
 14
diversi autori (Gilbert 1989; Liotti 1994, 2000; MacLean 1984), il corpo, 
con la sua storia evoluzionistica, può essere visto come uno strumento 
fondamentale per la comprensione di alcuni meccanismi mentali e 
comportamenti che da essi derivano. 
Seguendo lo schema proposto da Gilbert (1989) possiamo tracciare 
alcuni punti generali riguardanti l’evoluzione. 
Centrale per l’evoluzione stessa è il processo di selezione, cioè il 
meccanismo attraverso cui l’evoluzione opera una trasformazione delle 
specie. Sembra però che la selezione necessiti di una serie di alternative 
tra cui scegliere. Infatti occorre che si sviluppino all’interno di una 
popolazione delle impercettibili, ma significative, variazioni genetiche tra 
gli individui, in modo che la variazione migliore, cioè quella in grado di 
massimizzare la sopravvivenza, possa affermarsi. 
Se concentriamo la nostra attenzione sui comportamenti sociali, emerge 
che il processo di selezione opera non solo all’interno di una 
popolazione, bensì all’interno di una popolazione di organismi sociali. 
Considerando quindi il comportamento competitivo, sessuale o di 
accudimento, vediamo che il processo evolutivo focalizza il suo oggetto 
di studio sui migliori vantaggi che strategie e tattiche di interazione, inter 
e intraspecifiche, permettono di raggiungere. L’evoluzione dei 
comportamenti sociali, quindi, procede attraverso strategie e tattiche che 
sono in grado di fornire il miglior vantaggio nell’interazione fra gli 
organismi. Occorre però sottolineare che quanto detto fino ad ora non 
esclude che il più generale principio evoluzionistico (la variazione) sia al 
servizio del massimo sfruttamento delle risorse ambientali: quello che 
però qui interessa è, come già affermato, l’adattamento sociale. Tale 
adattamento trova nel sistema nervoso centrale (SNC) l’organo 
principale per l’esecuzione di interazioni sociali competenti: è infatti 
attraverso di esso che è possibile la strutturazione organizzativa e 
l’esecuzione degli atti sociali. Un assunto importante è che l’adattamento 
sociale implica alcuni meccanismi mentali (Gilbert, 1989). 
 15
Va detto però che non tutti i progressi evolutivi sono positivi in senso 
assoluto: infatti, essendo altamente specifici e contestualizzati, se 
dovesse cambiare l’ambiente di riferimento potrebbero trasformarsi in 
handicap, in punti di debolezza piuttosto che manifestarsi come punti di 
forza quali sono. 
Tornando al più generale quadro evoluzionistico, Buss (1987) sostiene 
che Darwin ha suggerito tre meccanismi selettivi: 
1. selezione naturale: evoluzione di caratteristiche che 
permettono all’individuo di adattarsi alle caratteristiche fisiche 
dell’ambiente; 
2. competizione intrasessuale:  evoluzione di 
caratteristiche che permettono all’individuo di essere 
avvantaggiato nella competizione sessuale; 
3. competizione intersessuale:  evoluzione di 
caratteristiche in grado di rendere un individuo maggiormente 
attraente per gli individui del sesso opposto. 
 
A volte, fra queste tre diverse tipologie possono insorgere dei conflitti. 
L’abilità individuale nel campo della risoluzione di questo conflitto 
sembrerebbe spiegare il successo ottenuto da alcuni individui nella lotta 
per la sopravvivenza. Darwin basò tutta la sua teoria sulla 
massimizzazione della funzione sessuale: ogni caratteristica, ogni 
adattamento evolutivo era al servizio di quella che egli definì la sexual 
riproductive fitness. 
La sopravvivenza dell’individuo attraverso la funzione sessuale, è però 
veramente considerata l’obiettivo evoluzionisticamente più importante? 
Secondo la teoria della inclusive fitness la risposta è no. Infatti, i 
sostenitori di questa prospettiva, ritengono che l’obiettivo degli individui è 
assicurare la sopravvivenza del proprio materiale genetico, addirittura a 
scapito della propria. Questo modo di intendere la sopravvivenza 
potrebbe così spiegare con successo quelle strategie che altrimenti 
risulterebbero incongruenti con un modello fondato esclusivamente 
 16
sull’individuo e sulla sua competenza sessuale: cura della prole, ricerca 
di aiuto, ricerca di uno status sociale, comportamenti altruisti e 
comportamenti cooperativi. 
L’unione di questi due obiettivi, sopravvivenza individuale e 
sopravvivenza del proprio materiale genetico, ha così permesso 
l’evoluzione di alcuni tipi di comportamento sociale (Gilbert, 1989). 
 
Se da un lato queste teorie sociobiologiche risultano interessanti, occorre 
dall’altro utilizzare una certa cautela nella loro applicazione. Infatti, oltre 
alla determinazione genetica, l’individuo umano è soggetto alla ‘forza 
della cultura’, ed è caratterizzato da una propria psicologia. Queste due 
importanti istanze sono in grado di apportare diverse varianti nel 
comportamento sociale rispetto a quanto inizialmente previsto della 
inclusive fitness theory. La cultura fornisce un contesto diverso rispetto a 
quello originariamente previsto per queste predisposizioni, ed è stato già 
notato come gli adattamenti evolutivi siano altamente contestualizzati.  
Nel caso della specifica configurazione psicologica dell’essere umano un 
posto centrale è occupato dalla coscienza (cfr. par. 1.3). Attraverso essa 
l’individuo è dotato di una notevole flessibilità nel perseguimento dei suoi 
obiettivi (in termini di analisi costi/benefici). Così assumono importanza la 
storia di apprendimento del soggetto, le attitudini ed il particolare 
contesto sociale all’interno del quale è inserito, più che le semplici 
strategie derivate dalla inclusive fitness theory considerata 
singolarmente. Tutto questo per ribadire ancora una volta che non è 
assolutamente produttivo, oltre che scientificamente scorretto, in 
un’analisi del comportamento umano, a qualsiasi livello essa venga 
effettuata, appiattirsi in uno sterile riduzionismo. 
Altro elemento che suggerisce cautela nell’applicazione incondizionata 
delle teorie sociobiologiche è il fatto che gli organismi sono organizzati 
secondo diversi livelli di strutturazione e che l’interazione fra questi 
assume diversi gradi di complessità. 
 17
Tutto questo consente di formulare l’ipotesi che gli individui non 
perseguano direttamente il successo riproduttivo o la sopravvivenza del 
loro materiale genetico; piuttosto, gli organismi, e tra loro l’uomo primo 
fra tutti, sembrano tendere a questi obiettivi attraverso strategie 
indirette
4
, perseguendo l’accumulazione di risorse, sia materiali che 
relazionali, per le quali sono in ultima analisi motivati. Se questa attività 
giunge ad un esito favorevole, allora il successo riproduttivo, così come 
quello di far sopravvivere il proprio materiale genetico, vengono di 
conseguenza (Gilbert, 1989). 
Per riassumere, quindi, gli obiettivi principali e le mete che potremmo 
definire biosociali, che sottostanno al comportamento degli individui, non 
sono quelle strettamente definite dalla inclusive fitness theory, ma 
piuttosto quelli che, in un determinato contesto evolutivo, conducono ad 
essi. A conferma di questa ipotesi, sembra che, qualora si produca una 
minaccia nel raggiungimento di queste mete, negli organismi dotati di 
SNC si producono dei disturbi funzionali che conducono a stati di 
disagio, sofferenza, infezioni, vulnerabilità verso la predazione da parte 
di altri e così via. Sinteticamente si riducono le possibilità di 
sopravvivenza. Quindi sembra non essere la minaccia del concetto 
evoluzionistico di riproduzione quella in grado causare seri cambiamenti 
nell’assetto funzionale del SNC, bensì quella relativa alle mete biosociali 
(Gilbert, 1989). 
 
                                                 
4
 Secondo Gadner, nell�evoluzione dei meccanismi di base della comunicazione sociale, esistono due 
messaggi fondamentali che interessano gli organismi sociali: quello attraverso cui i conspecifici tendono a 
stabilire legami fra loro, detto linking, e quello per cui tendono a distanziarsi, spacing. Queste due 
funzioni sono probabilmente fondate sul controllo e sull�accessibilit� delle risorse ambientali in grado di 
garantire la sopravvivenza. La dinamica linking/spacing, che potremmo ridefinire come gestione ottimale 
della distanza, sembrerebbe essere alla base di una variet� di comportamenti interpersonali rivolti alla 
ricerca dell�altro oppure al suo distanziamento, cos� come potrebbe spiegare la dinamica dialettica fra la 
paura dell�altro (un linking non favorevole) e la paura di non riuscire ad instaurare alcun legame 
(mancanza di linking). Nel caso degli esseri umani queste due funzioni sono modificate nel loro grado 
dalle esperienze culturali e personali (Gilbert, 1989). 
 18
1.2.1 I biosocial goals 
 
Avendo individuato la dinamica dell’evoluzione e sottolineato la natura 
indiretta delle strategie e degli obiettivi che gli organismi sociali adottano 
e perseguono, possiamo ora addentrarci nell’analisi della natura delle 
mete biosociali, dei biosocial goals, come li definisce Gilbert (1989), che 
rivestono un ruolo di primo piano nella definizione degli SMI utilizzata da 
Liotti nella sua prospettiva cognitivo-evoluzionista. 
L’ottica in cui Gilbert indaga la natura dei biosocial goals è quella che 
guarda ad essi come veicoli della inclusive fitness, ovvero, come 
abbiamo già avuto modo di vedere, il successo nel perseguimento dei 
biosocial goals favorisce la inclusive fitness. 
I biosocial goals sono quattro: 
 
™ Competizione per il potere 
™ Ricerca di cure 
™ Fornitura di cure 
™ Cooperazione 
 
La competizione per il potere, la meta sociale più antica in termini 
evoluzionistici, viene considerata principalmente in termini di 
comportamento individuale all’interno di una relazione sociale, anche se 
esiste in altri domini della vita. Essa è vista come relativa a quelle 
situazioni in cui un individuo è in diretta competizione con un altro per 
determinate risorse, oppure per la realizzazione di qualche desiderio e a 
quella in cui grossa parte della strategia consiste nel bloccare le 
opportunità dell’altro di accedere a tali obiettivi. In sintesi, nella ricerca 
del potere e della dominanza. 
Nel corso dell’evoluzione, in quelle specie in grado di produrre un 
comportamento sociale, la competitività individuale si è 
progressivamente adattata e modificata trasformandosi in cooperazione.