Introduzione
La linguistica storica è la disciplina che si occupa dello
sviluppo delle lingue nel corso del tempo. È nata nella prima metà
del secolo scorso (anche se il paragone fra due o più sistemi
linguistici è precedente di molti secoli) e ha come punto di partenza
la scoperta di una affinità di ordine genetico tra le lingue
dell‟Europa e alcune dell‟Asia.
Fu la scoperta del sanscrito agli inizi dell‟Ottocento a dare
inizio a una nuova fase della linguistica. Nel 1786 Sir William
Jones, giudice inglese in India che aveva studiato da orientalista,
fece una scoperta alquanto straordinaria. Arrivato a Calcutta, aveva
iniziato a studiare il sanscrito, la lingua dei testi letterari e religiosi
dell‟India, e giunse a conclusioni che avrebbero rivoluzionato gli
studi di linguistica. Notò infatti che il sanscrito aveva notevoli
affinità con le lingue classiche dell‟Occidente sia nelle radici dei
verbi che nelle forme della grammatica.
L‟esistenza di tante lingue sparse per il continente eurasiatico
ed aventi in comune l‟ossatura delle loro forme grammaticali, del
lessico e del sistema fonetico condusse alla conclusione che queste
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lingue dovevano essere figlie di una stessa lingua differenziatasi col
passare del tempo in seguito alle migrazioni verso paesi diversi dei
popoli che un tempo parlavano quella lingua madre che venne
appunto denominata „indeuropeo‟.
Il termine indeuropeo, a prima vista forse troppo lungo e poco
eufonico, si è imposto a scapito di altre designazioni.
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In Germania si
utilizza il termine indogermanico. Fino a qualche decennio fa, sia in
Germania che nel resto d'Europa, si era diffusa la denominazione di
ariano.
Purtroppo ignoriamo sia il modo in cui le popolazioni
indeuropee chiamavano sé stesse, sia il nome con cui erano chiamate
dalle popolazioni vicine al tempo in cui erano ancora un piccolo
popolo unitario.
Dal libro sacro del Rigveda apprendiamo che gli abitanti
dell'India, del Pakistan, dell'Afghanistan e della Persia chiamavano sé
stessi aryas. Riconducibile al termine aryas potrebbe essere il termine
irlandese che nella forma medievale è Eriu ed indica il nome con cui
la popolazione chiamava sé stessa.
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Cfr. F. Villar, Gli indoeuropei e le origini dell‟Europa, Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 15-33.
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Poiché esistono testimonianze del medesimo fatto, sia fra i
popoli indeuropei orientali che fra quelli occidentali, si era pensato
che questa fosse la denominazione originaria del popolo indeuropeo.
Basandosi sull'equiparazione Arya/Eriu, si giunse dunque alla
conclusione che gli indeuropei chiamassero sé stessi *aryos.
Qualche anno fa, Oswald Szemerényi ha scoperto che in
ugaritico esiste il termine ary- col significato di 'parente, membro
della famiglia, compagno' che si può rapportare all'egiziano iry
'compagno'. Da questo studio recente risulta che il termine ariano,
utilizzato come bandiera per lo sterminio degli Ebrei, potrebbe avere
un'origine semita e, quindi, nelle lingue indeuropee, potrebbe essere
soltanto un prestito.
A questo punto, non essendo più sicuri del termine arya-, e non
conoscendo nemmeno il nome con cui gli Indeuropei erano chiamati
dai loro vicini, si è optato per soluzioni diverse, basandosi sul
principio di creare una parola composta la cui prima parte contenesse
la designazione del popolo più orientale e la seconda quella del
popolo più occidentale.
Nel XVII secolo venne usato il termine scitoceltico coniato da
Andreas Jäger in quanto la più orientale delle lingue conosciute dallo
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studioso tedesco era il persiano (da lui chiamato scita) e le più
occidentali erano le lingue celtiche.
Nel XIX secolo nacque in Germania il termine
indogermanico. In tale denominazione gli abitanti dell'India
rappresentano i membri più orientali e la popolazione germanica, di
cui i Tedeschi fanno parte, il membro più occidentale. Questo termine
è tuttora in uso nei paesi di lingua tedesca.
Il terzo termine è quello di indoeuropeo o indeuropeo
(secondo la linea scelta da Vittore Pisani) introdotto per la prima
volta dal britannico Thomas Young nel 1813. Quest'ultima
denominazione è stata preferita alla precedente probabilmente a causa
di una certa prevenzione degli studiosi contro un'eventuale
utilizzazione nazionalistica del termine indogermanico.
L‟esistenza di tante lingue da ricondurre ad un‟unica „lingua
madre‟ portò all‟elaborazione della linguistica comparata, branca
della linguistica che si basa sul confronto delle lingue.
Dalla pratica di questa nuova disciplina si capì ben presto che
non poteva esservi identità tra sanscrito e „lingua madre‟, come si
era erroneamente creduto all‟inizio, dato che sembra che
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quest‟ultima sia esistita in un passato molto remoto
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. Si cercò allora
di ricostruirla, isolando fra i tratti attestati delle lingue considerate
solo quelli più diffusi e meno riconducibili a particolari
innovazioni.
Fra i termini di parentela, ad esempio, si ricostruì per „padre‟
una forma *p ter con una p iniziale maggioritaria del latino pater,
greco sanscrito pita(r), e si interpretarono come
indebolimenti successivi la f del germanico (ing. father), la h
dell‟armeno (hayr) e la mancanza della consonante nel celtico (irl.
athir).
Solo alla fine del secolo scorso si riconobbe che uno studio
storico delle lingue doveva essere il presupposto naturale dello
studio comparativo. Le due direzioni della ricerca sono
complementari tra loro e si servono entrambe dei metodi della
comparazione. Ma, mentre l‟indagine storica pone a confronto strati
diversi della medesima lingua, la linguistica comparativa studia le
varie lingue rivolgendosi alle loro precedenti connessioni nella
preistoria.
2
Cfr. O. Szemerényi, Introduzione alla linguistica indeuropea, a cura di G. Boccali, V.
Brugnatelli, M. Negri, Milano, Unicopli, 1985, pp. 21-33.
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Partendo dal presupposto di una unità linguistica eurasiatica,
ci si trova di fronte ad una serie di problemi di difficile soluzione.
In primo luogo ci si chiede se ad una tale unità linguistica possa
essere corrisposta una unità etnica ben definita: se, cioè, i popoli
parlanti la lingua „indeuropea‟ siano stati davvero un gruppo a sé
stante con caratteristiche ben differenziate nei confronti di altre
popolazioni.
Chiaramente non si può affermare che la lingua sia un
elemento differenziale sul piano etnico, in quanto è inserita in una
realtà storica ben complessa ed in continuo divenire. Inoltre, essa
può essere facilmente parlata da individui o popoli diversi poiché si
basa su strutture che si possono acquisire facilmente soprattutto
nell‟infanzia.
“ … il fatto che noi possiamo postulare l‟esistenza di una comunione
linguistica … legittima la presunzione che quella lingua in un certo periodo
della preistoria possa essere stata parlata da un popolo, accomunato da una
certa somma di caratteri somatici e psichici preminenti, oltre che da usi e
costumanze proprie, in rapporto anche all‟ambiente biologico in cui si trovava
a vivere.
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Epperò quali siano stati tali caratteri differenziali è assai difficile dire,
poiché gli elementi che può fornire l‟antropologia sono molto scarsi e di assai
dubbia interpretazione. Gli incontri e le mistioni … sono di tale natura che non
è possibile, facendo astrazione dalle innovazioni sopravvenute, risalire a una
comunione di ordine antropologico, come è possibile invece raggiungerla sul
piano linguistico, dove disponiamo di una documentazione larghissima e
sicura.”
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L‟Europa, unitaria dal punto di vista linguistico, risulta
dunque enormemente differenziata dal punto di vista antropologico
con le sue numerose razze: alpina, mediterranea, nordica, dinarica.
Per comprendere il concetto basti pensare all‟attuale
diffusione della lingua inglese che è parlata nei vari continenti da
genti di ogni appartenenza.
Nonostante il costante aiuto fornito dall‟archeologia
preistorica, spesso la natura della documentazione risulta essere
scarsa e parziale: l‟interpretazione dei dati, infatti, è solitamente
talmente dubbia e discordante che spesso il linguista ha preferito
operare solo con la propria documentazione, senza cercare
rispondenze e conferme in altre discipline.
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A. Pagliaro, W. Belardi, Linee di storia linguistica dell‟Europa, Roma, Edizioni dell‟Ateneo,
1963, pp. 56-57.
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L‟unità indeuropea viene rappresentata in un primo momento
dal „modello dell‟albero genealogico‟, cioè di un ceppo originario
dal quale si dipartono branche diverse che si suddividono a loro
volta in altri rami. L‟orientamento attuale degli studi, comunque,
considera la lingua come una realtà in continuo divenire, essendo
strettamente legata al parlante ed alla sua realtà storica. La lingua,
così concepita, appare dunque come il risultato di un continuo
processo di integrazione dal quale si sono formati i vari
raggruppamenti linguistici.
È difficile immaginare una unità linguistica rigida in quanto
le tribù dovevano essere disseminate su un territorio molto vasto
senza alcun legame politico, economico o culturale ben definito.
Possiamo pertanto affermare che un indeuropeo unitario non è mai
esistito: si è avuta una grande quantità di dialetti con numerose
isoglosse, non sempre comuni a tutti i dialetti. In secondo luogo, le
isoglosse spesso non sono contemporanee tra loro. Infine,
l‟indeuropeo ricostruito è lontano dal rappresentare un sistema
linguistico ben determinato. Esso rappresenta, in realtà, un insieme
di isoglosse e non tiene conto delle particolarità di ogni singolo
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dialetto conservato nelle lingue storiche. Spesso manca il termine
equivalente nell‟altra lingua per poterne testimoniare l‟antichità.
“ … p. ex. un mot comme germ. *saiwi- (got. Saiws, etc.) „mer‟ ou
*liuþa- (v-h.-all. liod, etc.) „chant‟ peut avoir appartenu à des époques très
reculées aux dialectes indo-européens perpétués dans les langues germaniques;
mais rien de certain ne saurait être affirmé à ce propos, parce que nous ne
retrouvons pas ailleurs ces mots, et il pourrait toujours se faire qu‟ils soient des
emprunts relativement récents – c‟est-à-dire postérieurs à l‟unité indo-
européenne – d‟une autre langue que nous ne connaissons pas.”
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È interessante, a questo proposito, quanto sostenuto da Pisani
che alcune innovazioni comuni sarebbero sorte in seguito a contatti
istituitisi in epoca posteriore alla diaspora indeuropea:
“ … p. es. che la aspirazione e scomparsa di un antico s in analoghe
condizioni in lingue contigue in epoca storica quali il greco, il frigio, l‟armeno
e l‟iranico, fatto non certo riconducibile all‟antica unità, si fosse propagato da
una di quelle lingue alle altre dopo che tutte esse, portate per diverse vie nelle
4
V. Pisani, Saggi di linguistica storica, Torino, Rosenberg & Sellier, 1959, p. 51.
10
regioni che occupano in epoca storica, si trovarono vicine, e fra di loro si
instaurarono nuove relazioni.”
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Se si tiene conto del legame genetico, la carta linguistica
dell‟Europa si presenta oggi distinta soprattutto in tre grandi aree: la
latina, la germanica e la slava. Aree di minore estensione sono la
greca, con il suo prestigioso contributo alla cultura occidentale, la
baltica, in cui sopravvivono solo lituano e lettone, aree isolate del
dominio celtico, un tempo assai esteso, e l‟illirico, se ammettiamo
che l‟albanese appartenga a quell‟antico gruppo. Tutte queste lingue
appartengono geneticamente all‟unità indeuropea e appaiono come
la diversa continuazione di una comunione originaria.
Per il mondo mediterraneo e per quello egeo si ha la
possibilità di mettere in rapporto i dati archeologici con quelli
linguistici nel tentativo di far luce su circostanze ed eventi che
hanno operato sul dato genetico e che spesso sfuggono alla nostra
conoscenza.
Per i fattori endogeni, dovuti soprattutto alla forza creativa
della parola ed alla sua capacità di adattamento alle circostanze,
bisogna spesso accontentarsi di riferimenti psicologici, mentre per
5
V. Pisani, op. cit., p. 202.
11
quanto riguarda le circostanze di tempo e di luogo, nelle quali i
processi di integrazione si sono compiuti, è possibile elaborare
ipotesi di lavoro fondate su un presumibile rapporto tra dato
linguistico e dato geografico.
Per quanto riguarda l‟Iran e l‟Armenia, nella documentazione
degli imperi della Mesopotamia vi sono attestazioni sicure che
consentono di stabilire quando, e attraverso quali spostamenti, si
sono insediati gli Indeuropei. Per l‟India, la preesistenza di una
notevole civiltà, nonché il sopravvivere attuale di aree alloglotte
molto estese, sono prove ulteriori che, anche in questo caso, gli
Indeuropei sono venuti dall‟esterno, sovrapponendosi alle
popolazioni preesistenti.
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Dopo l‟ultima glaciazione, avvenuta verso l‟8000 a.C., con il
ritiro verso nord della coltre glaciale, l‟Europa settentrionale
presentava un paesaggio molto diverso che richiedeva un diverso
tipo di sfruttamento da parte delle varie popolazioni esistenti.
Queste ultime definite „mesolitiche‟ erano caratterizzate da
un‟economia basata sullo sfruttamento delle risorse marine e
fluviali oltre che dalla caccia e dalla raccolta. Dai ritrovamenti
6
Cfr. A. Pagliaro, W. Belardi, op. cit., p. 59-60.
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archeologici è emerso che la cultura materiale relativa a queste
popolazioni differisce da zona a zona. Uno dei problemi interessanti
della ricerca attuale è quello di sapere quando tali gruppi
culturalmente distinti, con manufatti diversi, emersero e come
debbano essere interpretati. Sembra che tale differenziazione si sia
verificata durante il Paleolitico Superiore, vale a dire poco dopo la
comparsa dell‟uomo anatomicamente moderno. Un elemento
importante, argomento di discussione, è lo sviluppo dell‟economia
agricola, basata sulla coltivazione dei cereali e sull‟allevamento del
bestiame.
In Europa i più antichi insediamenti agricoli risalgono al
6500 a.C. in Grecia e, ad un periodo immediatamente successivo
nel Mediterraneo occidentale. Quasi tutto il continente europeo,
tranne la parte dell‟estremo nord, era occupato verso il 3000 a.C. da
numerose comunità basate sull‟agricoltura.
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1 QUANDO E DOVE VISSERO GLI INDEUROPEI
Quando divenne assodato che la maggior parte dei popoli
d'Europa e alcuni dell'Asia appartenevano a una medesima famiglia,
gli studiosi non poterono fare a meno di domandarsi dove aveva
abitato questo popolo.
Il problema è molto complesso in quanto individuare la patria
d'origine di questo popolo significa stabilire quando, come e perché è
avvenuta la diffusione nel continente europeo: è il problema
dell'europeizzazione dell'Europa. E, dato che l'Europa rappresenta la
culla della civiltà occidentale, il problema che si pone è quello della
storia della nostra stessa civiltà. Si tratta, pertanto, di un compito
tanto impegnativo da richiedere la collaborazione di linguisti,
archeologi e storici della preistoria.
Qualsiasi teoria che pretenda di spiegare la diffusione delle
lingue indeuropee in eurasia deve rispondere alle tre fondamentali
domande: quando, dove, come.
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1.1 Il problema del tempo
La datazione dell'inizio del processo di diffusione delle lingue
indeuropee è uno dei problemi più dibattuti. D'altra parte, sarebbe
impensabile non prevedere un inquadramento cronologico nel quale
si possa contemplare la trasformazione di una lingua comune
indeuropea nell'insieme delle lingue storiche. Ciò comporta la
definizione di delimitazioni cronologiche.
Il periodo 'comune' deve essere necessariamente anteriore
all'esistenza di qualsiasi lingua storica differenziata. Nel XIX secolo,
il periodo limite era collocato tra il II e il I millennio a.C. (i Veda ed i
poemi omerici rappresentano le prime lingue attestate). Oggi tale
periodo viene collocato mille anni prima, nel 2000 a.C. circa,
prendendo in considerazione il miceneo e le lingue anatoliche.
Tuttavia, ancora prima, tra il 2300 e il 2200 a.C., sembra essere
esistita una varietà di indeuropeo differenziato ( la varietà anatolica)
come risulta dai nomi dei re anatolici contenuti in alcune tavolette
ritrovate in Cappadocia.
Quando, nel XIX secolo, si pensava ad un limite oggettivo
minimo da collocarsi tra il II ed il I millennio a.C., gli indeuropeisti
credevano che l'unità indeuropea fosse da collocare intorno al 2500