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1.1 La discriminazione
Alla base della parità e dell’occupazione vi è la parola
“discriminazione”, definita come distinzione operata in seguito ad un
giudizio o ad una classificazione.
La discriminazione, è vista in generale con connotazione negativa
coincide con la pratica di ridurre le possibilità di partecipazione
sociale, politica ed economica ad alcuni individui in base a
caratteristiche non giustificabili come, ad esempio la pigmentazione
della pelle, il genere e le idee politiche.
La discriminazione è un concetto molto generico che può essere visto
sotto vari aspetti.
La discriminazione è diretta: quando una persona è trattata meno
favorevolmente di quanto sia stata o sarebbe stata trattata un’altra in
una situazione analoga a causa del sesso, della razza, della religione,
dell’handicap, dell’età e delle tendenze sessuali.
La discriminazione è indiretta quando una disposizione, un criterio o
una prassi apparentemente neutri possono mettere una persona, a
motivo del sesso, della razza, della religione, dell’handicap, dell’età e
delle tendenze sessuali, in una posizione di particolare svantaggio
rispetto ad altre persone.
Altra forma di discriminazione è la molestia, da considerarsi come
comportamento indesiderato, adottato a motivo del sesso, della razza,
della religione, dell’handicap, dell’età e delle tendenze sessuali e
avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona e di
creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o
offensivo.
Con lo scopo di assicurare la parità, esistono azioni positive, misure
specifiche dirette ad evitare o compensare svantaggi a motivo del
sesso, della razza, della religione, dell’handicap, dell’età e delle
tendenze sessuali.
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1.2 Le donne in Europa
Le donne rispetto agli uomini subiscono una serie di svantaggi in tutti
i paesi del mondo, compresi quelli più avanzati. Le donne non godono
ancora delle stesse opportunità degli uomini; nello studio condotto
dall’United Nations Development Programme nel 1995 riguardo il
rapporto sullo sviluppo umano è stato evidenziato che: le donne
costituiscono il 70% del totale mondiale dei poveri e i due terzi del
totale degli analfabeti, esse ricoprono soltanto il 14% delle
occupazioni amministrative e manageriali, il 10% dei seggi
parlamentari e il 6% dei ministeri governativi.
In un’analisi successiva, “Le donne nel mondo 1995”, è stato
osservato che le donne svolgono professioni quasi sempre diverse da
quelle degli uomini con livelli salariali inferiori; per le donne è
maggiore la responsabilità e l’impegno nell’ambito delle funzioni
domestiche. Le ore lavorate alla settimana sono maggiori per le
donne; tra i paesi in cui le differenze di ore lavorate sono più forti
rientra l’Italia (10 ore in più a settimana), la Spagna (23 ore in più),
la Bulgaria (9 ore in più), la Gran Bretagna (6 ore in più) e l’Ungheria
(5 ore in più).
Oltre alle opportunità di carriera, le occupate sono penalizzate anche
per quanto riguarda i differenziali retributivi: a parità di prestazione le
donne guadagnano meno degli uomini. Dal 1970 al 1994 le differenze
salariali sono diminuite nella stragrande maggioranza dei paesi
europei.
Il salario medio delle donne è circa tre quarti di quello degli uomini, i
differenziali sono più contenuti nei paesi nordici, così come in Francia,
Italia e in generale dove esiste una legislazione sulle pari opportunità.
Le politiche di pari opportunità dell’Unione Europea si sono evolute
secondo politiche economiche non neutrali, ma che sono diversamente
influenzate da uomini e donne a causa del loro diverso ruolo nella
società e nella famiglia.
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L’analisi di genere è svolta seguendo quattro caratteristiche basilari:
• equità: riduzione delle disuguaglianze tra cittadini e cittadine;
• efficienza: migliore conoscenza del territorio e migliore impiego
delle risorse;
• trasparenza: individuazione delle aree maggiormente
interessate dalle disparità di genere;
• consapevolezza: rendere i destinatari consapevoli dell’esistenza
di disparità di genere.
1.2.1 1993-2002: Europa, paesi a confronto
Occupazione e disoccupazione
Quindici milioni di occupati in più e oltre tre milioni di disoccupati in
meno: questa è la sintesi del bilancio del mercato del lavoro europeo
nel decennio 1993-2002. Il bilancio non è negativo, ma due fattori ne
attenuano la positività
1
:
• la crescita dell’occupazione in Europa consiste anche in un
recupero delle forti perdite registrate nella recessione dei primi
anni Novanta, quando in poco tempo si era registrata una
diminuzione di occupati.
• la dinamica occupazionale in Europa è stata meno brillante di
quella registrata negli Stati Uniti, dove la recessione ha avuto
minore impatto della recessione (un milione e 200 mila
dipendenti in meno tra luglio 1990 e marzo 1991).
In questo quadro si può descrivere un confronto tra le performance
del mercato del lavoro italiano e quelle di alcuni significativi Paesi
dell’Unione Europea. Il confronto interessa due tipologie di Paesi: da
un lato i più grandi, con dimensioni maggiori o analoghe all’Italia
come Germania, Regno Unito e Francia; dall’altro i più dinamici,
1
CNEL, Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro – Rapporto sul mercato del lavoro 2003.
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proposti talvolta come modelli cui dovrebbero ispirarsi le nostre
politiche del lavoro: si tratta di Olanda, Irlanda, Finlandia e Spagna.
GRAFICO 1: Dinamica degli occupati di 15-64 anni in alcuni paesi 1993-2000
(1993=100).
Osservando la dinamica dell’occupazione (grafico 1), emerge che
nell’Europa dei 15, a fronte di una crescita media attorno al 10%,
Irlanda, Spagna e Olanda mostrano nell’ordine risultati nettamente
più positivi (gli occupati in Irlanda sono cresciuti in 10 anni di più
della metà). Italia e Germania sono in fondo alla classifica: entrambe
negli anni Novanta hanno dovuto fronteggiare un effettivo calo
occupazionale, poi a partire dal 1999 l’Italia ha recuperato, ottenendo
discreti risultati, mentre la Germania è sostanzialmente al medesimo
livello di 10 anni prima, soltanto la sostanziale stabilità della
popolazione in età lavorativa ha consentito il mantenimento di un
tasso di occupazione costante.
Germania e Italia sono anche i Paesi in cui nella prima parte del
decennio la disoccupazione è aumentata significativamente: la
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Germania scontando i costi della riunificazione, l’Italia pagando cara
la crisi economica e politica del 1992-93.
In Italia i disoccupati si sono continuamente ridotti, tanto che a fine
decennio erano inferiori al livello di partenza, mentre in Germania la
fase di recupero si è bloccata nel 2000 con il successivo aumento
della disoccupazione.
Dinamiche analoghe della disoccupazione si sono registrate anche in
Francia, paese che è riuscito a ridurla del 20% rispetto al dato
iniziale. Irlanda, Olanda, Regno Unito e Finlandia sono invece i Paesi
in cui i disoccupati sono drasticamente diminuiti.
TABELLA 1 - Principali indicatori del mercato del lavoro 1993-2003 (15-64 anni) –
Valori assoluti e percentuali.
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In tutti i Paesi è cresciuta la quota di occupati nei servizi: questo
trend è stato fortissimo in Germania, tanto da trascinare la stessa
media europea, mentre in Spagna e Finlandia ha avuto un impatto
più modesto. Questi due Paesi, assieme all’Irlanda, hanno visto
crescere gli addetti nell’industria e di conseguenza lo spostamento di
occupati verso i settori non agricoli ha concorso allo sviluppo sia del
secondario che del terziario. Come mostra la tabella 1 nell’Europa dei
15 gli occupati dal 1993 al 2002 sono aumentati del + 4,6%, mentre
nell’industria è stata registrata una diminuzione del 3,2%.
Tra i Paesi osservati, Irlanda e Finlandia sono quelli che hanno fatto
registrare la più elevata crescita del prodotto interno lordo: il tasso di
crescita dell’Irlanda tra il 1995 e il 2000 non è mai sceso sotto l’8%
2
,
mentre quello della Finlandia è stato per diversi anni sopra il 4%. Dal
1997-2000 anche la Spagna ha registrato un buon indice di crescita.
La performance occupazionale di questi Paesi dipende da una più
favorevole dinamica della domanda.
In generale, in tutti i Paesi Europei si sono registrati buoni andamenti
del mercato del lavoro associati al lungo ciclo economico positivo
degli anni Novanta.
La strategia europea per l’occupazione varata nel novembre 1997 dal
Consiglio Europeo di Lussemburgo è coincisa con una fase espansiva
favorevole per introdurre le riforme e le risorse necessarie a
sostenerle proposte, riguardanti i quattro “pilastri”:
• occupatibilità;
• adattabilità;
• imprenditorialità;
2
Questa eccezionale performance va valutata tenendo conto che l’Irlanda ha da un lato meno di 4 milioni
di abitanti e dall’altro ha tenuto un basso profilo politico traendo ampi vantaggi dall’inclusione nella
Comunità Europea. Con ciò ha beneficiato di importanti trasferimenti netti e ha continuamente attirato
investimenti grazie anche alla ridottissima tassazione delle imprese (l’aliquota è del 12,5%). Risultato di
questo modello di sviluppo è che nel 2003 il reddito pro capite, misurato in standard di potere d’acquisto,
è il più elevato in Europa dopo il Lussemburgo: Commissione delle Comunità Europee, Relazione della
Commissione al Consiglio Europeo di primavera. Promuovere le riforme di Lisbona nell’Unione
allargata, COM (2004) 29, febbraio 2004.
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• pari opportunità.
La crescita di posti è stata contrassegnata dal ruolo sempre più
importante delle forme flessibili di impiego, per durata dell’orario o
del contratto.
I dati dicono che il lavoro temporaneo e il part-time sono in crescita;
in particolare i lavoratori a tempo parziale nel 2002 erano il 18% del
totale (+ 3% in 10 anni) e quelli temporanei il 13% (+2%). Circa un
quarto dei lavoratori europei è occupato secondo modalità non
standard, diverse cioè dal rapporto “lavoro tradizionale” a tempo
pieno e con durata indeterminata.
La quota di contratti a tempo determinato è cresciuta in tutti i Paesi,
ad eccezione di quelli con le migliori performance occupazionali: in
Irlanda è scesa a meno del 60% rispetto al 1993, così come n
Finlandia e Spagna.
Nel 2002 i Paesi con la minor quota di lavoro temporaneo erano il
Regno Unito e l’Irlanda. Tranne che in Spagna e Italia, ovunque la
quota di lavoratori temporanei è inferiore a quella degli addetti part-
time e in generale cresce meno rapidamente.
Lo studio della dinamica del lavoro part-time è più omogenea: si è
incrementato e diffuso ovunque. Irlanda e Italia sono i Paesi con la
maggior crescita, ma anche in Germania il boom di questo regime
orario è stato significativo. L’Olanda conferma e rafforza la sua
peculiare caratteristica di “patria del part-time” (che interessa in
media il 44% degli occupati ma arriva al 73% fra le donne); essa è
seguita da Germania e Regno Unito, anch’essi con una quota assai
elevata di lavoro a tempo parziale.
Gli elementi raccolti ci consentono di osservare che, mentre il part-
time risponde a caratteristiche evolutive comuni a tutti i Paesi, è uno
strumento importante per includere nel mercato del lavoro segmenti
di offerta a disponibilità parziale, il lavoro temporaneo rispecchia di
più le caratteristiche nazionali sia in termini di struttura produttiva
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che di regolazione normativa e sociale, tanto formale quanto
effettiva.
L’associazione tra lavori a termine e precarietà dell’occupazione è
fuorviante. La durata predefinita dei rapporti di lavoro influisce sulla
qualità dell’impiego: oltre metà dei lavoratori europei con contratto a
termine (in Spagna e Cipro oltre il 90%) avrebbe preferito un impiego
a tempo indeterminato ma non l’ha trovato.
La fase più recente
Il lungo recupero del mercato del lavoro europeo si è interrotto in
diversi Paesi nel 2002 arenandosi quasi ovunque nel 2003. Il tasso di
occupazione per la popolazione 15-64 anni è rimasto stabile e in
qualche caso si è ridotto (soprattutto in Germania, ma anche in
Irlanda e Finlandia). Data la fase di rallentamento economico, l’onere
dell’aggiustamento sembra caduto più sulle ore lavorate che sul
numero di occupati, ma è stata coinvolta anche la dinamica della
produttività, che quasi ovunque è rallentata.
Nell’area dell’euro la crescita del tasso di disoccupazione si è
arrestata a partire dall’estate 2003, perché la partecipazione al lavoro
è stata scoraggiata dal rallentamento economico.
Tutto ciò ha indotto gli organismi comunitari a prendere atto che
l’Unione Europea non raggiungerà l’obiettivo intermedio, previsto per
il 2005 riguardante un livello del tasso di occupazione del 67% e
pare compromesso anche l’obiettivo del 70% per il 2010. In questo
contesto, l’ultimo Joint Employment Report riconosce che per
conseguire gli obiettivi di Lisbona le riforme del mercato del lavoro
non bastano. Sono necessarie sane politiche macroeconomiche e
riforme strutturali degli altri mercati (prodotti, servizi, capitali),
tenendo presente di incoraggiare la competitività con la conseguente
creazione di nuovi posti di lavoro.
Risulta inutile pensare a innovazioni negli orientamenti della strategia
europea per l’occupazione. E’ opportuno concentrasi sulle attuazioni,
questo comporta:
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• monitoraggio;
• coinvolgimento maggiore dei Parlamenti, delle autorità regionali
e delle Parti Sociali;
• confronti tra pari;
• convergenza verso le pratiche regolative e gli assetti
istituzionali che mostrano di dare i migliori risultati, pur nel
rispetto delle differenze nazionali.
In definitiva, quello a cui l’Unione Europea chiama i singoli Stati è un
grande processo di policy learning
3
, di tale processo l’Italia ha
estremo bisogno.
1.3 Le donne in Italia
Per il mercato del lavoro italiano, il 2003 è stato un anno importante,
che da un lato ci ha fatto superare per la prima volta i 22 milioni di
occupati residenti e dall’altro sembra avere portato a esaurimento il
ciclo della creazione di posti: ciclo avviato nel 1997 dalle novità
introdotte con il “pacchetto Treu” sul mercato del lavoro, alimentato
negli anni successivi dalla domanda di lavoro, e stimolato nel 2001
dal credito d’imposta istituito con la legge finanziaria.
3
L’Olanda si distingue per l’adozione di un modo di far politica centrato sui problemi e di una prassi di
concertazione che ha consentito ai diversi attori di accumulare esperienza e memoria, mettendoli in grado
di imparare le lezioni dei fallimenti e dei successi.