3
Per approfondire l’incidenza di tali fattori si è deciso di analizzare le definizioni esistenti di
immagine di impresa: avere una valida immagine aziendale vuol significare godere d’un
favorevole riscontro da parte del trade e del consumatore. Se un’impresa ha investito o
intende investire risorse nella creazione della sua immagine sul mercato, nel medio-lungo
termine disporrà di un fattore differenziale di successo. La promozione di tale immagine è
argomento della trattazione in quanto l’immagine si costruisce soprattutto su fattori
immateriali e questi debbono essere veicolati tramite una corretta ed oculata
promozione/comunicazione.
La sensibilità al brand, ovverosia al marchio, è molto forte nel consumatore di moda;
parlando di giovani, ma non solo, se il prodotto è firmato da un affermato stilista o marchiato
da una grande azienda, spesso è il solo fattore determinante del suo acquisto. Disporre di
marchi famosi è divenuta oggi una via obbligata per le imprese in genere, essenziale per
quelle che operano nella fascia alta di mercato. A supporto di tale assunto si è deciso di
affrontare lo studio circa il marchio, con una prima parte che ripercorre la storia del marchio
e la formazione del suo significato etimologico ed una seguente che tratta del ruolo
strategico della marca nel sistema della moda. La marca permette di attuare strategie
competitive per affrontare il mercato; le marche della moda e, soprattutto, alcune di esse,
come le marche del lusso, grazie alla potenzialità del proprio brand possono agire su due
fronti:
1. diversificazione orizzontale: ampliamento della gamma di prodotti ed estensione della
marca a nuovi settori merceologici;
2. diversificazione verticale: allungamento della gamma e commercializzazione di
seconde e terze linee di prodotto.
Branding non significa soltanto avere un nome o un marchio di rilievo, è la risultante d’una
strategia di fashion marketing e d’una serie di azioni che avvengono nel contesto produttivo e
commerciale (styling, valenze moda, eccellente produzione, validi prodotti, buon rapporto
prezzo/qualità, buona distribuzione, mirata comunicazione, efficace promozione, continuo e
puntuale servizio, ecc.); tutto ciò ed altro ancora con il tempo contribuiscono quindi a creare
l’identità e l’immagine di marca e anche su questi temi si è soffermata la ricerca. Si parla di
identità e di immagine nella moda intendendo con il primo termine (identità) la realtà
dell’impresa/marca di moda, dei suoi prodotti e servizi con i conseguenti aspetti positivi e
negativi. Il secondo termine (immagine) identifica la percezione dell’identità del gruppo di
moda o della sua marca.
4
All’interno della trattazione si sono specificate le differenze esistenti tra immagine riflessa ed
immagine reale dell’azienda: l’immagine riflessa corrisponde a “come l’impresa si vede”,
ovverosia l’immagine che di essa hanno i vertici aziendali. L’immagine reale è, invece, quella
che viene a costruirsi nella mente dei pubblici di riferimento come somma delle percezioni
che ciascun componente del pubblico riceve dell’impresa o dei suoi prodotti o di una sua
marca.
Il branding sarà per il consumatore un punto di riferimento fondamentale, un elemento capace
di mantenere nel tempo un rapporto di fidelizzazione sia del cliente intermediario che del
consumatore finale; in questo senso diventa un fattore importante ed estremamente efficace di
differenziazione dell’offerta. Una collezione senza brand verrebbe banalizzata nella massa dei
prodotti offerti; al contrario il marchio aggiunge ad una collezione un valore aggiunto di
grande presa.
Un prodotto deve essere assolutamente identificabile, diversamente il consumatore non
riuscirà a riscontrarlo; se si può disporre di un marchio e di una notorietà sul mercato, si
faciliterà la scelta del consumatore, visto che in ciò avrà buone e convincenti motivazioni per
l’acquisto.
A sostegno degli argomenti trattati nel corso della tesi, sono stati analizzati due casi di studio
che sono apparsi poter essere emblematici per comprendere le potenzialità dell’immagine e
dell’identità (di azienda e di marchio) nella moda.
Il primo approfondimento riguarda la Giorgio Armani S.p.A., un Gruppo italiano di moda
che ha saputo nel tempo costruire una fortissima immagine coordinata ed è stato in grado di
fondare un’identità di marchi, di prodotti, di servizi tale da poter assumere tale azienda a
leader nell’ambito moda e non solo. Il primo elemento di forza dell’immagine del gruppo si
fonda proprio sull’immagine che lo stilista-imprenditore Giorgio Armani ha saputo creare di
sé stesso, il Re Giorgio della moda, King George, come viene soprannominato, ha saputo
“lasciare il proprio segno” non solo su abiti (declinati in tante linee e marchi tutti
ugualmente forti), ma anche su hotel, occhiali, ristoranti, profumi, fiori, cioccolatini, elementi
d’arredo e tanto altro: un vero esempio delle potenzialità d’immagine ed identità a partire
dalla moda.
Il secondo caso di studio affronta il momento in cui il Gruppo La Perla, leader italiano nel
settore abbigliamento intimo, ha deciso di lanciare una nuova linea di abbigliamento prêt-à-
porter (nel 2000).
5
Tale passaggio da azienda produttrice esclusivamente di intimo e costumi da bagno ad
industria che propone anche abbigliamento esterno ha comportato non solo il passaggio del
Know-how specifico del gruppo da un settore merceologico ad un altro, ma anche lo studio
approfondito del trasferimento dell’immagine e dell’identità consolidate di La Perla nel nuovo
ambito: si è ricercata la continuità nella diversità. Fattore notevolmente interessante al fine
della scrittura di questa ricerca, è anche risultato essere il modo assolutamente innovativo ed
efficace con cui si è fatta promozione alla nuova linea nel 2003 in occasione della settimana
di presentazioni di moda Milano Moda Donna.
6
1 L’IMMAGINE
1.1 L’IMMAGINE COORDINATA NELLA MODA
L’immagine coordinata, internazionalmente nota come corporate identity o corporate image,
è quella che aziende, enti, società, danno di loro attraverso la particolare struttura estetica
degli stampati, della pubblicità, della segnaletica, oltre al design dei prodotti e del particolare
stile dei servizi offerti.
1
Quando il 12 Febbraio 1951 un gruppo di sarti decide di presentare a Firenze le prime
collezioni di Alta Moda italiane sulla scia di quelle degli esperti colleghi parigini (Fig.1),
l’immagine ed il suo potere sono ancora tutti da scoprire.
Per comunicare con il resto del mondo, peraltro una cerchia molto ristretta, ai nuovi “creatori”
basta un foglio di carta intestata, una busta con l’indirizzo, un biglietto da visita con uno
stemma e un invito per la sfilata. È il tipografo a fare questo semplice lavoro: non serve altro;
solo il nome, spesso altisonante e nobile, e il fascino del personaggio, rendono felice il
business.
Figura 1: sfilata al Teatro della Pergola di Firenze, 1950, modelli delle Sorelle Chiostri. I modelli sono da
gran sera e molto appariscenti, ma per nulla denotati dal punto di vista di un marchio. (fonte: Le origini
dell’alta moda in La moda italiana, Electa, Milano, 1987)
1
Tratto da: Enciclopedia della stampa, Edizioni UCEP, Torino.
7
La moda italiana cresce e diventa vessillo del nostro paese diffondendo in tutto il mondo i
propri modelli ma rimanendo comunque dominio di una elite molto sofisticata, ristretta, con
notevoli possibilità finanziarie ma annoiata.
Le vere “scosse” a questo stato di cose arrivano con gli anni `60: solo quando l’abito imbocca
la via del laboratorio, praticamente entra in fabbrica dalla porta più grande, nasce l’esigenza
di farlo riconoscere senza guardare l’etichetta cucita a mano sul collo. I primi stilisti ad
approfondire l’importanza di darsi un’immagine coordinata al fine di farsi riconoscere fra
tanti sono il marchese fiorentino Emilio Pucci (1914-1992) (Fig.2) ed il pittore, grafico e
stilista americano Ken Scott (1919-1991).
Figura 2: cappa da indossare su costume o bikini, di Emilio Pucci, fine anni ’50. La firma “Emilio” in nero
compare alcune volte in ogni singolo foulard. È uno dei primi esempi di capo firmato e con un’immagine
personale e riconoscibile. (Dalla collezione personale Pucci a Firenze)
8
I frequenti appuntamenti con la stampa internazionale accelerano tutto il sistema, dai duecento
giornalisti delle prime sfilate nella Sala Bianca di Palazzo Pitti a Firenze si passa ai migliaia
di operatori, compratori, agenti, fotografi, inviati tv della Fiera di Milano - e di tutti gli
happening del settore - che seguono con accanimento ogni appuntamento.
I nomi della moda si moltiplicano e il mercato è sopraffatto da proposte che debbono
dichiarare a prima vista la loro paternità: stilisti e uomini-marketing, trend-setter e uomini-
prodotto lavorano insieme a ritmi serrati, perché i giorni a disposizione sono sempre contati, e
si affiancano per raggiungere un risultato globalmente efficace.
Al grande coordinamento necessario per mantenere le posizioni raggiunte, o per tagliare nuovi
traguardi, fa eco la necessità di un altrettanto forte ed intelligente coordinamento d’immagine,
grafico e pubblicitario, di packaging come di stile globale: è irrinunciabile il fatto di
presentarsi in modo eccellente in ogni momento, in ogni occasione e non solo più alla stampa
specializzata, ma anche, e soprattutto, ai consumatori finali che, con l’avvento del prêt-à-
porter industriale, delle seconde e terze linee dello stesso stilista, degli accessori, profumi ed
oggetti sotto il medesimo marchio, sono diventati numerosi e sempre più internazionali ed
eterogenei. Da non sottovalutare è anche il fatto che le firme vogliono sempre più rivolgersi a
tutti coloro i quali, in un modo o nell’altro, vengono in contatto con il marchio stesso pur non
essendone acquirenti, al fine di ampliare la possibilità di risonanza del nome in questione.
«Il coordinamento aiuta a vendere la griffe nelle sue licenze, praticamente in ogni prodotto
che porta quel nome: c’è il “sapore” di Armani anche se non si tratta del suo prestigioso prêt-
à-porter»
2
.
Alcuni brand sono fermi su certe posizioni grafiche da molto tempo, più o meno dal `75 – è
questa la data di nascita di molti logo che sono anche oggi familiari – altri invece,
movimentano la loro immagine di stagione in stagione tentando di rendere unico ogni loro
appuntamento, ma mai dimenticando una propria filosofia di fondo.
Giorgio Armani scrive il suo nome allo stesso modo da così tanto tempo e sfrutta una palette
di colori tanto coerente che ormai si legge “Giorgio Armani” senza che i nostri occhi debbano
scorrere sull’intero nome per comprenderlo (Fig.3).
Figura 3: grafica del marchio Giorgio Armani, 2004.
2
Tratto da: Soli P.; Moda: l’immagine coordinata; Zanichelli; Bologna; 1990
9
«La sintesi visiva, la corporate identity, assume il ruolo di elemento unificante per l’azienda
di riferimento che contrassegna i percorsi comunicativi sia interni che esterni al gruppo in
questione. L’immagine viene in questa direzione a caratterizzarsi come identità che traccia il
profilo dell’azienda nel suo spessore storico, nella sua capacità di rendersi attuale e quindi di
rinnovarsi e nella sua individualità di marca e di prodotto, a partire dalla consapevolezza che i
membri dell’azienda hanno della propria appartenenza»
3
.
In questa prospettiva, corporate image (immagine coordinata), brand image (immagine di
marca) e product image (immagine di prodotto), confluiscono in un sistema di identificazione
visiva in cui ogni momento ed ogni elemento comunicativo sono “marcati” in modo univoco e
personalizzato.
La rappresentazione visiva di un gruppo ed il coordinamento della sua immagine mirano a
costruire un sistema di comunicazione fondato su elementi interrelati, ciascuno dei quali è in
rapporto ed in funzione con gli altri. Nella corporate identity non si riflette solamente un
settore dell’attività aziendale, ma tutto il complesso dell’azienda, che si pone come fatto
culturale e comunicativo.
Alla costruzione ed alla realizzazione della propria immagine concorrono la filosofia
aziendale, una consolidata politica di marketing a medio termine, lo stile di sale promotion,
merchandising e advertising, l’organizzazione e strutturazione dei vari servizi e l’identità di
prodotto o servizio offerto.
L’immagine raccoglie ogni comunicazione proveniente dall’interno della stessa struttura
organizzativa dell’azienda e destinata a circolare internamente (identity), così come ogni
comunicazione che dall’interno è proiettata verso l’esterno (image), destinata quindi a un
fruitore e a uno spazio che stanno al di fuori. «Ecco allora che identity ed image richiedono
contemporaneità di formulazioni, progettazioni, previsioni e strutturazioni operative, in una
prospettiva sociale di ricezione comunicativa dalla quale emergano la realtà dell’azienda e le
sue possibilità di sviluppo legate ad un divenire sociale».
4
L’immagine coordinata deve possedere la caratteristica peculiare di convogliare, esprimere e
rappresentare il fluire di tutte le comunicazioni provenienti dall’azienda in modo tale che
l’utente, trovandosi di volta in volta di fronte ad un elemento dell’immagine, possa ricostruire
quest’ultima nella sua globalità.
L’immagine, che si tratti di quella di una impresa, di una persona, di una regione, di una
località turistica, di una rivista, di un progetto culturale o di qualsivoglia d’altro, è generata,
3
Tratto da: Appiano A.; L’immagine coordinata, all’interno di Strategie d’immagine, a cura di Ferraro Guido;
Centro scientifico editore; Torino; 1992
4
ibidem
10
prodotta, come percezione da parte di un pubblico, da una serie di fattori tra loro diversi per
natura e per caratteristiche. Limitandosi al campo delle imprese, si può affermare che fra i
fattori che concorrono a crearne l’immagine, ve ne sono alcuni legati a cose in qualche modo
concrete e altri più impalpabili, soggettivi, legati proprio a componenti emotive. Così, per
esempio, concorrono a “fare” l’immagine di un’impresa
5
:
La qualità dei suoi prodotti,
Il loro aggiornamento continuo;
La diffusione della rete di distribuzione;
L’effettiva funzionalità dei servizi post-vendita;
La solidità economica dell’impresa ed il credito di cui essa dispone negli ambienti
finanziari;
La correttezza delle sue politiche commerciali;
La disponibilità nei confronti dei clienti;
La trasparenza dei comportamenti delle forze di vendita;
Lo stile degli uffici e dell’impresa e quello dei suoi stabilimenti,
La grafica delle pubblicazioni prodotte dall’impresa;
Le caratteristiche della grafica utilizzata nel packaging dei suoi prodotti;
ma, per le aziende che si occupano di moda, anche:
Lo stile intrinseco dei prodotti-moda venduti;
La risonanza della “leggenda” spesso creatasi attorno alla figura di un determinato
stilista o designer.
Per la moda, contrariamente ad altri ambiti, solo oggi si comincia a porre attenzione ad altri
due fattori che concorrono alla creazione d’immagine aziendale, ma che in altri ambiti già
sono riconosciuti da anni, ossia:
L’impiego di materiali riciclabili sia nella realizzazione dei prodotti che degli
imballaggi;
L’attenta attinenza alle norme per il rispetto dell’ambiente, sia per quanto riguarda le
materie prime impiegate, che il trattamento dei residui delle lavorazioni industriali.
Come appare da questo elenco, peraltro non certamente esaustivo, sono molti e diversi fra
loro i fattori che, nel loro insieme, concretizzano l’immagine dell’impresa: il loro numero e la
loro diversificazione rendono complesso il lavoro di chi si occupa di assicurare il corretto
sviluppo e la puntuale promozione dell’immagine dell’impresa.
5
Tratto da: Morelli M.; La comunicazione d’impresa e la promozione dell’immagine; Franco Angeli, Milano;
1990
11
Le potenzialità forti dell’immagine coordinata delle aziende e dell’immagine di marca (che
tratterò più approfonditamente nel prossimo capitolo) hanno sollevato, e sollevano, dibattiti
volti a capire il rapporto, per altro in continua evoluzione, fra moda, immagine, identità e
marca.
Luisa Valeriani, in “Senza confini? Strategie comunicative e di consumo nel rapporto
Arte/Moda”
6
riporta un’interpretazione contemporanea del valore dell’immagine nella moda.
A partire dagli anni Ottanta, spiega, qualcosa è cambiato nel sistema della moda basato
sull’inseguire la perpetua novità: è accaduto che il seguire la moda ha cominciato a non essere
più di moda. Il termine trendy è diventato quasi un insulto, il sistema di “far cadere le mode
dall’alto” degli stilisti ( meccanismo del trikle down) non ha funzionato più e gli stilisti stessi,
invece di inseguire il cambiamento come avevano sempre fatto, hanno cominciato a proporre
griffe che avessero un’immagine stabile sul mercato più di quanto non fossero grandi le
differenze delle collezioni da un anno all’altro.
Il fenomeno era parte di un processo più generale, che investiva il mercato nel suo complesso.
Proprio negli anni Ottanta il marketing assumeva il ruolo dominante nel processo di
produzione-consumo-circolazione, e mentre la produzione materiale delle merci si trasferiva
prevalentemente nel Terzo Mondo, i prodotti in quanto tali perdevano la loro importanza e
l’interesse si spostava sul marchio, sul brand. Smaterializzazione della produzione,
evanescenza crescente della merce e, parallelamente, potere straripante del brand: come
riferisce Naomi Klein nel suo saggio best-seller No Logo
7
- diventato un po’ il manifesto del
movimento mondiale contro le multinazionali -, la vera fabbrica non è quella dove vengono
fatti i prodotti, ma la mente che produce i marchi. Per i pubblicitari della Nike il prodotto non
è che «il miglior strumento di marketing», prosegue Klein, e comprare un vestito o un paio di
scarpe significa soprattutto comprare uno stile di vita e avere «un profondo contatto emotivo»
con il vestito o con le scarpe.
Ma se la smaterializzazione del prodotto operata dal marketing ha finito per fissare nel
marchio il desiderio del consumatore invece di liberarlo nella moltiplicazione dell’offerta, nel
campo della moda il processo ha avuto un decorso particolare dovuto al coinvolgimento
emotivo connesso all’indossare, al “portare su di sé” e più in generale alle modificazioni
dell’aspetto che la moda comporta; al punto da rendere il territorio della moda un osservatorio
privilegiato anche sotto un profilo di analisi del politically correct.
Fin dai suoi esordi, la pubblicità aveva stimolato a riconoscersi nell’assimilazione del sogno,
nell’associazione mentale tra desiderio e marchio: l’importanza del nome del brand era
6
Tratto da: Communifashion®, sulla moda, della comunicazione; a cura di Abruzzese A.e Barile N.; Luca
Sassella editore; Roma; 2001
7
Tratto da: Klein N.; No Logo; Baldini e Castoldi; Milano; 2000
12
cresciuta quanto più si dimostrava forte la sua capacità di convincere all’acquisto anche in
presenza di alternative molto simili o addirittura più economiche, convogliando in tal modo su
di sé anche l’affidabilità del prodotto, la buona reputazione della ditta produttrice, nonché la
percezione che di entrambe aveva l’acquirente. «Nel campo della fashion il fenomeno è stato
evidente fin da subito – dice la Valeriani
8
- a livello di abbigliamento di massa, in cui il
modello di mercato americano agiva più in profondità: l’etichetta Levi’s (Fig.4) sul dietro dei
jeans ha sempre funzionato come certificato di autenticità, ed ha significato molto più che un
semplice prodotto sul mercato, identificandosi con, ed identificando, il mito dell’America dei
cowboys e del rock’n’roll».
Figura 4: Marchio ed etichetta applicata sul retro dei jeans Levi’s
Viceversa, a livello di Alta Moda, fino a che le grandi sartorie nel boom degli anni Ottanta
non hanno allargato il loro target d’elite entrando nel grande mercato dei media, era l’abito in
sé che costituiva il testo, che coagulava su di sé il complesso dei valori simbolici. Più che
dall’etichetta, un capo di Chanel o perfino di Courrèges e Saint-Laurent si riconoscono dal
taglio, dai materiali, dai colori, dagli accostamenti: sono “opere d’arte”.
La prima, e forse unica dell’epoca, a capire l’importanza della firma, dell’etichetta, della
personalizzazione per prevenire le copie ed i falsi e per farsi riconoscere senza esitazioni, è
Elsa Schiapparelli (1890-1973) negli anni Trenta del novecento, Madame creatrice di moda
nata in Italia ma francese a tutti gli effetti (Fig.5). Donna dalla incomparabile creatività e
precorritrice dei tempi, grazie anche ai suoi rapporti con gli artisti più all’avanguardia
dell’epoca, già dal 1930 circa non si dimentica di apporre l’etichetta all’interno de propri capi
personalmente firmata e contrassegnata dalla stagione di riferimento del capo (Fig.6).
8
Tratto da: Valeriani L.; Senza confini? Strategie comunicative e di consumo nel rapporto Arte/Moda; in
Communifashion®, sulla moda, della comunicazione; a cura di Abruzzese A. e Barile N.; Luca Sassella editore;
Roma; 2001
13
Figura 5: Giacca da sera disegnata da Elsa Schiapparelli, inverno 1937-1938.
(Fonte: Shocking all’interno del catalogo dell’esposizione Best Dressed; Philadelphia Museum of Art,
1998)
Figura 6: Etcichetta interna del capo visibile in Figura 5,
contrassegnata dalla firma Schiapparelli, la collezione di riferimento del capo e l’indirizzo della boutique
di Elsa a Parigi.(Fonte: Shocking all’interno del catalogo dell’esposizione Best Dressed; Philadelphia
Museum of Art, 1998)
14
Ma Schiap (questo è il soprannome della Schiapparelli) è precorritrice isolata dei tempi,
perché solo secondariamente l’etichetta-firma garantisce l’autenticità dell’autore, già
abbondantemente comprovata con altri mezzi. È il prodotto che assorbe il brand, non il
contrario, ed è la novità del prodotto che costituisce evento. Solo il possesso, la proprietà
dell’oggetto (e dell’immaginario simbolico ad esso collegato) assicura stato e distinzione
sociale, esattamente come accade alle opere d’arte nei saloni dei collezionisti.
«Paradossalmente il target elitario garantisce l’offerta indifferenziata a tutti dello stesso
prodotto»
9
.
Con l’ingresso nel mercato dei media anche per la sartoria d’autore le cose cambiano: ciò che
prima era collegato direttamente al bene di consumo (classe sociale, genere, età, stile di vita)
viene trasformato sulla griffe che si autopromuove come marchio di lusso, ragionevolmente
raro e soprattutto “caro in modo imbarazzante”.
Se il marchio di moda, alta o bassa che sia, sartoria o prêt-à.porter, multinazionale o
artigianale di lusso, ha immagine stabile sul mercato, è anche vero che necessariamente esso
dovrà rivolgersi non ad un pubblico indifferenziato, ma a nicchie di pubblico e che la sua
operazione di branding
10
consisterà nel tentativo di accollare ai propri beni quanti più segni di
particolari stili di vita. Nicchie, tribù di consumatori, accomunati da analoghi impulsi,
analoghe abitudini e culture: il sistema del brand marchia il suo pubblico mentre
smaterializza i suoi prodotti. L’accumularsi di dispositivi pubblicitari dentro nicchie affini o
confluenti di pubblico finisce per produrre quel “rumore di fondo”, quel disturbo della
comunicazione entro cui il consumatore è sospinto verso una nuova creatività singolare, oltre
ogni nicchia ed oltre ogni brand, nella quale le differenze coesistono. Questa è la più recente
tendenza d’indirizzo dei consumatori. Se la novità del prodotto non basta a produrre evento,
della campagna Diesel (Fig.7) o Benetton, al consumatore resteranno impressi il sogno,
l’illusione, il mondo-Diesel, ma non la necessità dell’acquisto di una specifica t-shirt Diesel
per sentirsene parte. Questa è la novità nell’approccio ai brand.
9
Tratto da: Valeriani L.; Senza confini? Strategie comunicative e di consumo nel rapporto Arte/Moda; in
Communifashion®, sulla moda, della comunicazione; a cura di Abruzzese A. e Barile N.; Luca Sassella editore;
Roma; 2001
10
Spiegazione del concetto di branding: La griffe, se è affermata, esercita un valore psicologico di grande
influenza sul prodotto assicurandogli un maggiore peso sul mercato ed un miglior rapporto con i consumatori.
Per stabilirne l’importanza e la forza, basti pensare che in presenza di più prodotti tra loro in concorrenza e che
rispondano più o meno in eguale misura a motivazioni di carattere psicologico, viene premiato dal consumatore
quel prodotto che può vantare una marca affermata, visto che il suo valore simbolico ha una grande influenza ed
è in grado di ridurre i rischi pur sempre collegati all’acquisto di un prodotto-moda. Concretamente la marca
rappresenta, l’idea, il concetto soggettivo che il consumatore si è fatto in maniera sintetica di un’azienda; una
buona marca sarà sinonimo di sicurezza e stabilità, favorirà la gamma dei prodotti, troverà più facile il lancio di
collezioni. La marca dovrà pertanto tenere conto dei posizionamenti in cui si trovano i suoi prodotti, in caso
contrario non solo non sarà accetta, ma anzi completamente ignorata. La marca diventa determinante
nell’identificazione di un prodotto proprio perché rappresenta il mezzo più efficace della sua personalizzazione.
Tratto da: Foglio A.; Il marketing della moda; Franco Angeli; Milano; 2001
15
Figura 7: campagna pubblicitaria stampa di Diesel: i capi della collezione primavera/estate 2004 hanno un
risalto minimo all’interno dell’immagine rispetto allo scenario. Si vuole trasmettere un’atmosfera,
un’idea, piuttosto che un vestito. ( in Vogue Italia n°645, Maggio 2004, edizioni Condé Nast)
Consapevole ormai della propria maturità di consumatore, il cliente estrofletterà da sé i propri
bisogni per riappropriarsi “pubblicamente” dei marchi che usa ma che non lo rappresentano
come vorrebbe: esiste dunque un nuovo feed-back della relazione comunicativa marchio-
consumatore, nella quale il consumatore gioca ormai un ruolo attivo. È dunque in atto un
processo nuovo, un’esperienza che ciascuno di noi già fa senza rendersene conto. Le ragazze
amano scegliere di accostare la maglietta apparentemente senza marchio (magari comprata da
H&M) con un paio di jeans Replay, una ciabattina del Marocco comprata ad un mercatino di
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quartiere con una borsetta Gucci, un bracciale di plastica recuperato in casa dalla scatola della
mamma con un orologio Guess ultimo modello. È il fenomeno del mix and match, scegli ed
unisci, che dimostra che il consumatore è smaliziato, che sceglie di farsi rappresentare da certi
brand, ma di “gestirli” nel proprio guardaroba, con nuova e accorta creatività. In altri termini,
si tratta del cross dressing, uno stile trasversale, stravagante ed incrociato che nasce dalla
contaminazione di altri stili attraverso la destrutturazione dei codici semantici e funzionali
pensati in origine (Fig.8).
Figura 8: “Cross Dressing” in Los Angeles.