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non piccola differenza: il dispendio energetico era mediamente di 5.000 K/cal
contro le circa 50.000 attuali. Si, proprio così, il dispendio energetico è
decuplicato a parità di efficienza. E’ evidente che se tutta l’umanità
proseguisse seguendo queste modalità di sviluppo, le future generazioni
avrebbero vita breve. Come ci ricorda Manghi (2000) non a caso ambiente ed
ecosistema sono parole (ed idee) coniate dal pensiero, anzi dalla tribù
occidentale e spetta quindi a noi, a mio avviso, che ne abbiamo la possibilità e
la consapevolezza, elaborare strategie che consentano una crescita corretta,
uno sviluppo sostenibile, facendo tesoro degli errori, senza perpetrarli o
ripeterli. Da ciò dipende cosa consegneremo in eredità alle generazioni che ci
seguiranno. Con questo lavoro cercheremo di dimostrare come e perché sia
utile e vantaggioso l’utilizzo di questo mezzo di trasporto per gli spostamenti
urbani, prendendo in esame varie prospettive di analisi del fenomeno e come
questo utilizzo sia stato in gran parte, fino ad oggi, “intelligentemente
spontaneo” (cosa abbastanza inusuale nei comportamenti umani), cioè poco o
per nulla favorito/regolamentato; tenteremo di far luce su percorsi e le scelte
razionali che potrebbero essere intrapresi per favorirlo. Il vasto campo dei
rapporti tra uomini e ambienti, e sappiamo quanto i temi ambientali oggi sono
drammaticamente attuali, ci porta ad una consapevolezza di un problema
diffusa solamente in quella ristretta parte di umanità privilegiata che gode dei
benefici dello sviluppo. Quindi innanzi tutto affronteremo una panoramica per
quanto possibile esaustiva dei vari approcci al problema. Affrontare questi
argomenti con un approccio critico-scientifico, è cosa non solo opportuna, ma
noi riteniamo indispensabile, perché è proprio dall’ambito sociologico che
potranno scaturire spunti nuovi e preziosi di conoscenza dei problemi in
campo, una visione “olistica” dell’uomo e dell’ambiente. La specializzazione
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del sapere ha portato grandi progressi, ma anche, come corollario, la
parcellizzazione della conoscenza. La psicologia ha studiato l’uomo in quanto
entità psichica, ha preso in esame il suo comportamento, le sue motivazioni;
l’economia lo ha studiato in quanto entità economica, produttore e/o
consumatore, e via di questo passo, l’antropologia, l’ecologia, la biologia, la
medicina, la chimica, l’etologia, financo la sociologia (perlomeno una certa
sociologia); ognuna dalla sua prospettiva, tralasciando un’ottica più ampia, e
perdendo, come si suol dire, sempre qualcosa strada facendo.
Dato però che la realtà è composita ma non frazionata, e le persone
non sono di volta in volta una cosa o l’altra, fortunatamente in parte la ricerca
ha assecondato negli ultimi anni le esigenze che venivano dalla società civile,
di strumenti operativi concreti e fruibili, e finalmente, dopo tante analisi, un
percorso di sintesi, è iniziato. Perché tutto cambia, sempre più velocemente e
il futuro é sempre più vicino, e chi ha la conoscenza è responsabile anche per
chi non la possiede.
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1 Qualità della vita, trasporto urbano e
sviluppo sostenibile
1.1 L’uomo, l’ambiente, la città, vari approcci al problema.
Negli anni ’40 i tecnici dell’Assessorato all’Urbanistica di Boston presero
in esame un campione statistico di popolazione (Ceri, 1994), alle persone
veniva chiesto di disegnare uno schizzo della mappa della città, così come la
ricordavano. I risultati furono del tutto inaspettati, in quanto gli stessi luoghi, le
medesime distanze, la rete viaria etc etc venivano rappresentati in dimensioni
e con rapporti proporzionali assai diversi, con alcune ricorrenze significative.
Si scoprì che la percezione soggettiva dipendeva da molti fattori, come il
percorso abituale, la lunghezza dello stesso, il mezzo di trasporto usato
prevalentemente, il sesso e l’età del soggetto, finanche il ceto sociale di
appartenenza.
Questo esempio ci fa riflettere sull’importanza della percezione
soggettiva pur di fronte ad una oggettività di fenomeni; da ciò ne consegue
direttamente il fatto che tra i vari approcci con i quali possiamo analizzare gli
argomenti qui oggetto di analisi, quelli sociologico e psicosociale sono tra i più
“auspicabili”, ma non i soli, con i quali ci possiamo avvicinare a questi
fenomeni, che riguardano anche la salute psico-fisica, che rientrano a pieno
merito nel dibattito, apertissimo in questa fase politica, sul welfare (e su quale
welfare), che insomma creano un connubio inscindibile tra politica, scienze
umane e discipline scientifiche tout court.
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Se vogliamo dare vita ad un ragionamento scevro da preconcetti errati,
da stereotipi limitanti, dobbiamo sfatare i luoghi comuni, e l’approccio
sociologico ci è assai utile in questo. Un classico stereotipo è il concetto di
natura. Qualsiasi sistema vivente trasforma l’ambiente, ma una concezione
“egoistica”, non è necessariamente dannosa, anzi può essere implicitamente
altruistica per altre specie viventi. Gli abitanti di un alveare non si preoccupano
delle alterazioni che con il loro operato potrebbero produrre nell’ambiente, né
del fatto che possano essere dannose per l’ambiente o per altre specie. Ma
un’ape, a parte il tentare di garantirsi la sopravvivenza e il produrre miele, non
ha il potere, se lo desiderasse, di sterminare tutti i suoi potenziali nemici o
predatori, cosa che ad esempio l’uomo potrebbe fare (e che a volte fa). Il
dibattito sul rapporto uomo-natura è tutt’altro che nuovo, nuovi semmai sono i
termini dello stesso. Come ci ricorda Di Giovanni (2000) citando Prigogine (1)
“…capire la natura non significa controllarla, ma al contrario, immettersi nei
suoi processi nei quali l’instabilità diviene la costante …”. I rischi nelle
trasformazioni ambientali riguardano la natura (non la nostra proiezione di
natura); e il problema maggiore sta nell’intensità e nella velocità delle
trasformazioni, che a partire dalla rivoluzione industriale, ha causato
l’immissione incontrollata in atmosfera di molecole di sintesi, sia in senso
qualitativo che quantitativo. Del resto nessuna specie vivente rinuncerebbe
volontariamente ad una forma di adattamento che ha consentito in un lasso di
tempo irrisorio di triplicare la speranza di vita (75 anni, mortalità infantile
attorno al 6-8% 1.000). Ma i rischi connessi al modello di sviluppo che
abbiamo creato potrebbero rimettere in discussione le conquiste fatte e il
futuro dei nostri figli. Di Giovanni focalizza l’attenzione sulla tesi di Catton e
Dunlap (2) che ci propongono un nuovo paradigma ecologico, caratterizzato
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dall’abbandono della visione antropocentrica, e ritengono necessario che la
sociologia desista dalla pretesa di porre la società umana fuori dal mondo
della natura e dalle sue leggi.
Un altro luogo comune è il problema dell’ambiente e del rapporto con la
società umana, che erroneamente è generalmente sentito come problema di
inquinamento e di strategie di disinquinamento. Spesso si tratta di pie illusioni,
come ha dimostrato la politica per l’ambiente degli USA negli ultimi venti anni.
In America s’investono risorse incredibili per il risanamento dell’ambiente (1/3
in più di quelle militari). Nel primo decennio in cui sono state applicate le
politiche per il controllo della qualità dell’aria (1973-82) si è registrato un
miglioramento, anche se modesto (- 14% di inquinanti per m/3 d’aria). Nel
secondo decennio, nonostante un incremento degli investimenti, il
miglioramento è stato nullo, pari a zero, annullato dall’aumento dei mezzi
circolanti. E non dobbiamo dimenticare che l’inquinamento è la punta
dell’iceberg, ma che vi sono altri problemi drammatici: l’esaurimento delle
risorse e la riduzione della biodiversità. Numerose specie vegetali, per
esempio, contengono principi anticancerogeni, e solo il 10% delle specie
conosciute è stato sperimentato; ¾ della popolazione mondiale si cura con
farmaci i cui principi attivi sono di origine vegetale. Le città crescono, ed anche
laddove non cresce la città si espande. Nella seconda metà del XX secolo la
popolazione urbana a livello mondiale è triplicata, ed è quasi raddoppiata in
rapporto percentuale alla popolazione totale. In previsione oltre il 50% della
popolazione vivrà presto in una città. White e Whitney (1992) sostengono che
una città sostenibile non dovrebbe eccedere la capacità di carico del suo
hinterland, e oggi nessuna città è in grado di sostenersi contando sulle risorse
nei confini del suo hinterland. Si calcola inoltre che nelle grandi città europee
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la superficie degli insediamenti per abitante sia decuplicata negli ultimi cento
anni e l’espansione urbana comporta la scomparsa delle aree di transizione
tra ambiente urbano e ambiente naturale dentro e ai confini della città.
Suburbanizzazione e declino dei centri urbani hanno prodotto un fenomeno di
dispersione sul territorio i cui costi in termini ambientali e sociali sono rilevanti,
infatti la fuga dalla città congestionata senza cambiamenti di stili di vita ha
prodotto la richiesta di servizi e comportamenti urbani in aree ancora poco
contaminate dalla presenza della città. La specializzazione ed il cosiddetto
zoning operato dagli urbanisti hanno portato lo spopolamento dei centri urbani;
un nuovo termine è stato coniato per rappresentare questo fenomeno, i
cosiddetti non luoghi (su cui torneremo). Lo studio elaborato dal progetto
dell’ICLEI (International Council for Local Environmental Initiatives) l’Agenzia
ambientale internazionale per le autorità locali, chiamato Urban CO2
Reduction Project, al quale partecipano varie città nel mondo tra cui in Italia
Bologna, ha evidenziato la relazione inversa tra densità urbana e usi finali
dell’energia, Newman e Kenworthy hanno dimostrato che la densità urbana è
inversamente correlata con il consumo pro capite di benzina. Le nostre città
sono state trasformate, anzi trasfigurate dalle auto e per le auto, in un modo
che per noi, ormai abituati a viverci, risulta difficile da afferrare rispetto ad un
abitante di un secolo fa. Il rapporto della Commissione della Comunità
Europea su trasporto e ambiente Green Paper on Sustainable Mobility (1994)
prevede che nel 2010 i viaggi in auto aumenteranno del 45% e che le auto
acquistate raggiungeranno il record di due auto per abitante comunitario,
mentre di contro i chilometri di viaggio aumenteranno del 25%, fatto che
suggerisce l’aumento di spostamenti brevi, interni alle città. Il settore trasporti
è responsabile per il 20% delle emissioni di CO2, per il 40% delle emissioni di
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Nox e per il 75% di quelle di CO. Anche il riscaldamento e raffreddamento
degli edifici sono fonte di dispersione energetica, e questo settore assorbe un
consumo pari a circa un terzo del totale. La Sears Tower di Chicago consuma
quotidianamente l’energia di una città americana di 150.000 abitanti e di una
città indiana di un milione di abitanti.
Ne consegue secondo Milanaccio (1994) la necessità di ragionare con
mente “copernicana”, secondo i principi elementari della termodinamica. Da
sempre la sociologia si è interrogata sul rapporto (autonomo o dipendente?)
tra il bioma prevalente in un territorio e la direzione dell’evoluzione sociale.
Nell’ambito di queste considerazioni egli giunge ad una definizione
interessante e foriera di sviluppi del concetto di “ecosistema”, ovvero: “..il
territorio è lo spazio dell’azione, per l’azione, e di più, è un luogo vivente
d'interazioni fra differenti sistemi…”. Quest’autore, nel chiedersi se e quali
siano le relazioni tra geografia e struttura sociale, afferma che la risposta
dipende fondamentalmente dall’orientamento dell’osservatore, che egli
ricomprende essenzialmente in due categorie:
™ il “tolemaico” che vede nell’ambiente un insieme di risorse, uno dei fattori
della produzione, per il quale la terra è “LAND”, un mezzo di sostentamento;
™ il “ copernicano” per cui la terra è “SOIL”, non solo un mezzo, ma un sistema
vivo del quale l’osservatore è parte integrante.
Sostanzialmente l’individuo con atteggiamento “tolemaico” si pone al centro,
anzi al vertice di una catena socio-alimentare, moderno superpredatore, con
l’assurda pretesa che il sistema oggetto di dissennata predazione si debba e
possa perpetrarsi all’infinito. Il “copernicano”, con atteggiamento responsabile,
(l’autore quasi sembra voler dire adulto) abbandona il sogno d'onnipotenza e
comincia a relazionarsi con un approccio sistemico agli altri esseri viventi e
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all’ambiente, intrattenendo scambi utilitaristici a lungo termine. L’individuo
viene definito attore sociale in quanto prodotto dell’interazione tra biologia,
cultura e società, e le sue rappresentazioni mentali sono al tempo stesso
fisico-spaziali, culturali e sociali. Tradizionalmente queste tre forme d’azione
sono prese in considerazione separatamente, invece un territorio diviene
ambiente proprio quando si prendono in considerazione tutte e tre le
rappresentazioni mentali dello spazio d’azione dell’attore sociale. Secondo
Milanaccio la divisione del lavoro tipicamente della nostra era ha portato
risultati impensabili, ma come corollario ha creato un rapporto mediato,
oscuro, con le risorse di base per la sopravvivenza, e quest’oscurità
percettiva, cognitiva e affettiva ha prodotto nella nostra rappresentazione
mentale separatezza fra territorio e ambiente, e ci ha fatto perdere quasi
completamente la possibilità di percepire il nostro essere inseriti in un nodo di
una rete ecosistemica. Ripercorrendo i quattro principali paradigmi della
ricerca, dal più analitico al più olistico e copernicano, individuiamo il percorso
da seguire per intrattenere scambi utilitaristici razionali a lungo termine con gli
altri sistemi viventi secondo l’autore:
1. paradigma dei veleni: è attento all’inquinamento, chiede norme che
regolamentino i comportamenti e limiti nelle concentrazioni di sostanze;
2. paradigma della protezione: vuol tutelare l’equilibrio naturale e le azioni
proposte tendono alla conservazione degli equilibri generali.
3. paradigma dell’entropia (leggi della termodinamica): tende alla ricerca di
tecnologie che riducano l’uso d'energia al fine di vivere senza intaccare le
risorse naturali;
4. paradigma della convivialità (relazioni interspecifiche): ogni essere vivente ha
dignità e diritto all’esistenza.
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Applicando questi paradigmi ad un unico problema, come ad esempio
rimediare e limitare i danni causati dal traffico veicolare, abbiamo quattro
diverse proposte di soluzione:
1. marmitta catalitica
2. le marmitte catalitiche incidono comunque sulle alterazioni climatiche dovute
all’effetto serra, in quanto non riducono il biossido di carbonio in atmosfera;
3. le marmitte sono fatte con il platino, e non eliminano il problema del consumo
di petrolio entrambe sostanze non rinnovabili;
4. non usare l’auto come mezzo di trasporto.
Zani (1995) sottolinea che altre discipline si occupano di ambiti tra l’individuale
e il collettivo, ma la psicologia sociale sembra trovare la sua identità proprio
nei punti in cui tali ambiti si intersecano; ed è nell’interfaccia tra il soggetto,
che vive i problemi sociali in prima persona e la comunità in cui i problemi si
manifestano e incidono, che si colloca la dimensione psicosociale. Parlando di
psicologia sociale non si deve dimenticare che essa è nata da preoccupazioni
concrete per ciò che si verificava nel mondo sociale e che furono alcune
grandi questioni sociali del ‘900 ad attirare l’interesse degli studiosi
(immigrazione, emarginazione, devianza ecc). E parlando di p. s. non si può
non citare Kurt Lewin, pioniere di questa disciplina e a cui va attribuito il
merito della impostazione applicativa che l’ha fin dai suoi inizi contraddistinta.
Il suo contributo fu determinante, e in particolare di questo grande ricercatore
ricordiamo:
™ il concetto di ricerca-azione
™ il laboratorio di dinamica di gruppo.
Il concetto di ricerca-azione è inteso come ricerca comparata sulle
condizioni e gli effetti delle varie forme di azione sociale, che tendono a
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premiare l’azione sociale stessa, quindi l’elaborazione teorica va strettamente
collegata alla pratica e questo richiede fra l’altro la cooperazione tra operatori
e ricercatori. Lewin inoltre sostiene che il gruppo va studiato come fenomeno
psicosociale, essendo un soggetto sociale, al pari dell’individuo, organizzato,
in grado di esprimere comportamenti, valori propri e diversi da quelli dei singoli
membri. In effetti, il dibattito sulla p.s. ha evidenziato come l’intreccio fra
teoria, ricerca e pratica sia connaturato a questa disciplina. Gergen e Gergen
sostengono che la p.s. intesa come studio dell’interazione umana e delle sue
basi psicologiche comprende tre componenti principali:
™ sviluppo della teoria;
™ verifica della teoria;
™ incoraggiamento dell’azione sociale;
Secondo questi autori le teorie hanno lo scopo di:
™ far progredire la conoscenza
™ sensibilizzare le persone e richiamare la loro attenzione sulle possibili
conseguenze delle loro azioni;
™ individuare nuovi modelli di comportamento, cercando di mettere in
discussione ciò che è dato per scontato e di proporre nuove linee d’azione.
La p.s. è stata soggetta a crisi ricorrenti, ma la tendenza attuale sembra
essere (fortunatamente) quella di un “ritorno alle origini”, quella di ricalcare il
filone indicato da Lewin, che cercò di misurarsi con i problemi della vita reale,
mettendo a punto tecniche per analizzare fenomeni e problemi e ricavare dalla
pratica suggerimenti per ulteriori elaborazioni concettuali della teoria.
Si sta diffondendo inoltre quella che alcuni autori definiscono
“psicologia ambientale”, una disciplina il cui ambito di ricerca tende a far luce
sui processi attraverso i quali le persone stabiliscono, mantengono o mutano i
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rapporti con i vari tipi di ambiente (Secchiaroli, 1998), con un’attenzione
peculiare ai quei processi di cognizione e rappresentazione simbolica
dell’ambiente, con particolare riferimento ai “luoghi della città”. Le origini della
p.a. si collocano prevalentemente nel contesto culturale dei primi anni ’60 in
USA, e il suo approccio era fortemente applicativo. Spesso si è auto definita, o
tale è stata da altri, come disciplina “problem oriented”, orientata su problemi.
Recentemente è stata enfatizzata la necessità di procedere allo studio dei
processi psicologici connessi all’ambiente, con un approccio che non
prescinde dalla complessità dei contesti di vita degli individui. Questo ambito
di studi è inoltre stato visto da molti psicologi come un’occasione per uscire
dallo stato di malessere che la ricerca psicologica spesso avverte, per una
sorta di “irrilevanza sociale” del suo lavoro. Uno dei temi che maggiormente ha
contribuito a specificare le competenze della ricerca psicologica ambientale è
quello della percezione ambientale, ovvero partendo dal presupposto che la
componente fisico-spaziale influenza in modo determinante i processi
psicologici (motivazionali, percettivo cognitivi, comportamentali) connessi
all’ambiente, ha tentato di compiere un’integrazione tra le teorie classiche
della percezione e i più recenti modelli di analisi proposti dalla psicologia dei
processi cognitivi. Il programma MAB (man and biosphere) dell’UNESCO ha
assunto proprio la percezione ambientale come componente costitutiva del
sistema, unitamente a quella spaziale-temporale (vi sono due riviste
fondamentalmente, che trattano questi temi, entrambe in lingua inglese:
“Environment and Behavior” e il “Journal of Environmental Psycology”). In
Italia la p.a. è stata scarsamente valorizzata sia operativamente che dal
mondo accademico. I principali paradigmi attraverso cui la p.a. ha affrontato la
lettura delle relazioni tra le persone e l’ambiente sono:
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1. il paradigma adattivo-determinista, secondo cui l’individuo è animato dalla
motivazione biologica della sopravvivenza/benessere, che reagisce
all’ambiente attraverso risposte di adattamento; l’ambiente è un aggregato di
stimoli e condizioni che facilitano/ostacolano l’adattamento, e nella relazione
tra individuo e ambiente quest’ultimo determina le risposte del primo;
2. il paradigma trasformativo- interattivo, secondo cui l’individuo è un essere
razionale motivato da scopi, che ottimizza attivamente i propri rapporti con
l’ambiente, ora accettando delle condizioni (adattamento), ora agendo per
modificarle (trasformazione) in conseguenza di scelte e decisioni; tende quindi
a controllare l’ambiente, che è una struttura complessa le cui caratteristiche
facilitano/ostacolano il raggiungimento degli scopi.
3. il paradigma ecologico che vede l’individuo come un sistema di motivazioni e
aspettative e come tale agisce e l’ambiente come un insieme complesso di
caratteristiche fisiche e sociali “molare”, le cui caratteristiche contribuiscono a
determinare l’ambiente psicologico.
Una delle principali finalità che la p.a. persegue è quella di evidenziare
le caratteristiche dell’ambiente che ostacolano o facilitano i comportamenti,
soprattutto in riferimento agli ambienti lavorativi e scolastici, focalizzato sulle
incidenze riscontrabili per quanto concerne produttività ed efficienza. La
componente spaziale come riferimento privilegiato nella descrizione del
comportamento umano nell’ambiente va fatta risalire a importanti ricerche
avviate nei primi anni ’50 sull’organizzazione dello spazio e sulla conseguente
capacità di influenzare i comportamenti in ambito ospedaliero-psichiatrico. Le
interessanti osservazioni che permisero di confrontare le fasi pre e post
interventi programmati sull’organizzazione degli spazi, diedero dati importanti
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in vari ambiti, quali ad esempio la socializzazione e l’autonomia,
significativamente aumentate da gestioni dello spazio favorevoli in tal senso.
La psicologia ambientale ha assunto fin dai suoi esordi la componente
spaziale come punto di riferimento privilegiato nella descrizione e nella
previsione del comportamento umano nell’ambiente. L’importanza della
disposizione fisico spaziale nel facilitare ad esempio comportamenti
interpersonali è stata evidenziata da molte altre ricerche. Di Giovanni (2000) ci
ricorda che a mutamenti spaziali corrispondono inevitabilmente mutamenti del
comportamento e del movimento nelle persone, e che ridisegnare gli spazi
causa la perdita d’identità di un luogo, e dei punti di riferimento, che sono i
simboli delle mappe mentali del soggetto. Da questa perdita nascono i non
luoghi, periferie fisiche e mentali all’insegna dell’omologazione, zone
suburbane di degrado, tangenziali al nulla. Ed è uno dei settori d’indagine più
praticati quello del “cognitive mapping” (lo studio delle mappe cognitive), un
esempio molto rappresentativo dell’integrazione che la p.a. ha compiuto tra le
teorie classiche della percezione e i modelli di analisi proposti dalla psicologia
dei processi cognitivi. Determinanti furono in questo campo i lavori
dell’urbanista Kevin Lynch negli anni sessanta. Partendo dal presupposto che
per un efficace orientamento e locomozione nell’ambiente è necessario
disporre di adeguati schemi di riferimento, chiamati mappe mentali o cognitive,
gli studi sul cognitive mapping, hanno valorizzato l’ipotesi di una stretta
connessione tra cognizione spaziale e scopi che guidano l’azione delle
persone. Vi sono studi, rispetto a questa proposito, che posso essere
considerati esemplificativi, come una ricerca di Lee del 1968 (Lee, 1968,
1976) sul vicinato urbano, nella quale l’autore studiando le cognizioni spaziali
degli abitanti di Cambridge (GB) ha riscontrato correlazioni positive tra
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l’ampiezza dell’area entro la quale le persone delimitano il proprio vicinato e la
maggior partecipazione attiva che caratterizza il loro rapporto con l’ambiente di
vita.
Il concetto di stress ambientale (Evans, Cohen, 1987) è diventato
rappresentativo dell’orientamento generale che la disciplina è andata via via
privilegiando, richiamando esso la centralità attribuita ai processi cognitivo-
valutativi dei soggetti alle prese con fattori disturbanti. Evans (1982) lo
definisce in senso lato “ogni situazione in cui le richieste ambientali nei
confronti degli individui eccedono le rispettive capacità di risposta”. Gli effetti
del rumore e di altri elementi stressanti dell’ambiente urbano (definiti stressori
urbani) come inquinamento e densità abitativa sono sicuramente quelli
maggiormente esplorati in termini quantitativi, e per quanto concerne
l’orientamento della ricerca, l’accento è stato posto sulla “fatica cognitiva” a cui
sono sottoposti i soggetti in ambienti di vita sfavorevoli come quello urbano e
sulla necessità di studiare le conseguenze che derivano dall’adattamento a tali
condizioni. Gli effetti dei vari fattori ambientali “stressanti” sono stati definiti
come funzione dei processi della mediazione cognitiva individuale. La ricerca
ha prodotto in questi anni nuovi paradigmi e nuovi rapporti tra uomini e
ambiente ed ha favorito l’interdisciplinarietà. Ha prodotto altresì nuovi campi di
ricerca e in campo sociale, la necessità di monitorare i mutamenti che si
verificavano e genericamente di misurare la qualità e non solo (o non più) la
quantità, come vedremo nel capitolo II.