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3 
allorché gli oli sono venduti ad un eliminatore o rigeneratore autorizzato di un 
altro Stato membro come quando vengono eliminati nello Stato membro di 
origine»,  intendendo affermare che una regolamentazione nazionale fondata su 
considerazioni ambientali non può comportare delle limitazioni 
sull'esportazione di oli usati verso gli altri Stati membri della Comunità
2
. In 
quali termini è allora possibile configurare delle eccezioni al principio della 
libera circolazione delle merci?  
Sia il Trattato che la giurisprudenza della Corte ammettono delle 
eccezioni alla libera circolazione delle merci. Si tratta dunque di stabilire in che 
modo vengono interpretati i divieti degli artt. 30 e 34 e in quali casi i 
provvedimenti nazionali restrittivi degli scambi e ispirati da motivazioni 
ambientali siano considerati compatibili con tali disposizioni. 
In questa prima sezione si cercherà, dopo aver illustrato appunto il 
contenuto delle suddette disposizioni, di commentare il caso delle «bottiglie 
danesi» e il caso dei «rifiuti valloni» relativi alla introduzione di normative 
nazionali che, in assenza di regole comunitarie, erano finalizzate alla 
protezione dell'ambiente. In entrambi i casi si cercherà di analizzare 
l'applicazione del principio di proporzionalità e di verificare il peso relativo che 
è stato riconosciuto rispettivamente alla libera circolazione delle merci ed alla 
protezione dell'ambiente. 
 
 
                                                 
2
 Sentenza «Inter-huiles», del 10 marzo 1983, 172/82 ,Raccolta, 1983, p. 555; sentenza 
«Rhône-Alpes huiles» del 9 febbraio 1984, 295/82, Raccolta 1984, p. 575; sentenza 
«Association de defense des brûleurs d'huiles usagées» del 7 febbraio 1985, 24/83,cit.. 
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4 
1.2. Contenuto e obiettivi degli artt. 30 e 34. La Giurisprudenza 
«Dassonville» e le normative «distintamente applicabili» 
 
Gli artt. da 30 a 34 introducono nel Trattato le clausole di stand-still (art. 
31-32-33) e di roll-back (artt. 30 e 34) che prevedono il congelamento delle 
restrizioni commerciali esistenti al momento dell'entrata in vigore dell'accordo 
e la loro graduale eliminazione. Gli artt. 31-32 e 33 hanno esaurito la loro 
efficacia nel corso del periodo transitorio. Di conseguenza il divieto generale di 
restrizioni all'importazione e all'esportazione è stato assorbito dagli artt. 30 e 34 
sin dal 1° gennaio 1970. 
Destinatari dei divieti relativi a «restrizioni quantitative» e «misure di 
effetto equivalente» sono, come espressamente confermato dalla Corte
3
, gli 
Stati membri. Ma cosa si intende per «restrizioni quantitative» e «misure di 
effetto equivalente»? 
La definizione degli ostacoli previsti dall'art. 30 (e simmetricamente 
dall'art. 34 per le esportazioni) ha sollevato numerosi problemi. 
Il termine restrizioni quantitative è infatti usato dal Trattato come 
sinonimo di contingente
4
 e parrebbe riferito (come confermato dalla stessa 
dizione del cap. 2, Titolo I della Parte II) esclusivamente all'impedimento di 
accedere al mercato indipendentemente dalla minore competitività indotta dalle 
misure protettive. 
Coerentemente, le misure di effetto equivalente dovrebbero quindi essere 
solo quelle che si traducono in restrizione quantitativa impedendo l'accesso 
                                                 
3
 Secondo la Corte le norme degli artt. 30 e 34 non sono applicabili ai comportamenti privati 
che ricadrebbero invece nella disciplina comunitaria relativa alla concorrenza. Sul punto, la 
sentenza «Iannelli e Volpi» del 22 marzo 1977, 74/76, Raccolta, 1977, p. 577. I privati peraltro  
sono comunque interessati dalle norme degli artt. 30 e 34 in quanto danno origine a 
conseguenze giuridiche per loro favorevoli attribuendo la facoltà «per ogni interessato di far 
valere l'inadempimento dinanzi all'autorità giudiziaria nazionale al fine di ottenere la tutela dei 
propri diritti» (E. Cortese Pinto, Ostacoli non tariffari agli scambi nel diritto comunitario, 
Angeli, Milano, 1985, p. 61). Sul punto, la sentenza «Ratti» del 5 aprile 1979, 148/78, 
Raccolta, 1979, p. 1629. 
4
 Qualsiasi tipo di limitazione quantitativa all'importazione o all'esportazione. 
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5 
qualunque siano le condizioni competitive della merce: divieti, quote, licenze e 
restrizioni volontarie all'importazione, per citarne alcune. Questa 
interpretazione  limitativa delle misure di effetto equivalente contrasterebbe 
tuttavia con l'obiettivo ad esse assegnato dal Trattato. Occorre infatti 
considerare la nozione di misura di effetto equivalente come una espressione  
originale e precipua del Trattato, non figurante in alcun accordo internazionale 
precedente in materia di commercio. Ad essa, in virtù delle caratteristiche di 
funzionalità testuale, i redattori del Trattato intesero affidare il compito di 
garantire una libertà degli  scambi ampia ed efficace. Tra l'altro una definizione 
generica delle suddette misure, favorendo l'interpretazione dinamica da parte 
della Corte, permetteva, da un lato, di adeguare la portata del divieto al mutare 
delle circostanze e, da un altro lato, di evitare gli inconvenienti derivanti dalla 
subordinazione di ogni passo ulteriore al consenso degli Stati membri. 
La prima definizione di misura di effetto equivalente è contenuta nella 
Direttiva 70/50 del 22 dicembre 1969. 
Ai sensi dei primi due «considerandi» e dell'art. 2 della precitata direttiva 
sono misure di effetto equivalente «(...) le disposizioni legislative, 
regolamentari ed amministrative, le prassi amministrative, nonché ogni atto 
posto in essere da un'autorità pubblica, ivi compresi gli incitamenti» (...) «che 
ostacolano delle importazioni che potrebbero  aver luogo ove tali misure non 
esistessero, ivi comprese quelle che rendono le importazioni più difficili od 
onerose dello smercio dei prodotti nazionali»
5
.  
Già questa definizione della Commissione  sembra dimostrare con 
chiarezza quanto la nozione di misura di effetto equivalente sia più ampia 
rispetto a quella di restrizione quantitativa. Seguendo lo schema tracciato dalla 
Direttiva 70/50 la Corte, nella ormai celebre sentenza «Dassonville», definì le 
misure di effetto equivalente come: «(...) ogni normativa commerciale degli 
                                                 
5
 Direttiva 70/50 del 22 dicembre 1969 sulla soppressione delle misure di effetto equivalente, 
GUCE, L 13/19, 1970. 
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6 
Stati membri atta ad ostacolare, direttamente o indirettamente, attualmente o 
potenzialmente, gli scambi intracomunitari»
6
. 
Tale definizione è stata in seguito costantemente riaffermata dalla Corte 
nella sua giurisprudenza. Va notato che le definizioni della Commissione e 
della Corte, pur se diverse nella terminologia, sono largamente simili per 
portata e contenuto. 
Entrambe contemplano unicamente le misure poste in essere dagli Stati 
membri
7
; si basano, ai fini della qualificazione del provvedimento come misura 
di effetto equivalente, sugli effetti restrittivi del provvedimento contestato
8
; 
considerano sufficiente ai fini dell'applicazione dell'art. 30 la circostanza che 
una misura comporti effetti restrittivi potenziali  sugli scambi
9
; si riferiscono 
unicamente alle misure «distintamente applicabili» ossia a tutte le misure che 
hanno effetti restrittivi sugli scambi, vale a dire sulle importazioni e sulle 
esportazioni e non contemplano quindi le misure interne aventi effetti restrittivi 
sulla vendita dei prodotti sia nazionali che importati sul mercato nazionale
10
. 
Quest'ultimo caso riguarda le normative interne c.d. indistintamente 
applicabili ai prodotti nazionali ed a quelli importati sulle quali la Corte non 
aveva avuto modo di pronunciarsi nella precitata sentenza «Dassonville» 
poiché la disposizione belga in causa era applicabile alle sole importazioni. 
Deriva da ciò che la precitata giurisprudenza prende in considerazione 
                                                 
6
 Sentenza «Dassonville» dell'11 luglio 1974, 8/74, cit.. 
7
 «(...) le disposizioni legislative, regolamentari ed amministrative, le prassi amministrative, 
nonché ogni atto posto in essere da un'autorità pubblica, ivi compresi gli incitamenti (...)» 
definizione della Commissione; «(...) ogni normativa commerciale degli Stati membri (...)» 
definizione della Corte. 
8
 «(...) che ostacolano (...)» definizione della Commissione; «(...) atta ad ostacolare (...)» 
definizione della Corte. 
9
 «(...) che ostacolano delle importazioni che potrebbero aver luogo ove tali misure non 
esistessero (...)» definizione della Commissione; «(...) atta ad ostacolare (...) attualmente o 
potenzialmente (...)» definizione della Corte. 
10
 «(...) che ostacolano delle importazioni (...) che rendono le importazioni più difficili od 
onerose (...)» definizione della Commissione; «(...) atta ad ostacolare (...) il commercio 
intracomunitario (...)» definizione della Corte. 
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7 
esclusivamente le misure distintamente applicabili, ovvero tutti i 
provvedimenti relativi alle importazioni o alle esportazioni. 
Quando si parla di «normative indistintamente applicabili ai prodotti 
nazionali ed importati» (d'ora in poi «normative indistintamente applicabili») ci 
si riferisce all'insieme delle regole nazionali applicabili  con le stesse modalità 
e senza alcuna differenza, de jure o de facto, sia ai prodotti nazionali che ai 
prodotti importati e che perseguono obiettivi che rientrano nell'ambito delle 
competenze interne degli Stati, quali la protezione del consumatore, la lealtà 
dei negozi commerciali, l'efficacia dei controlli fiscali e molti altri casi tra i 
quali anche la protezione dell'ambiente. Tra queste normative  quelle che 
riguardano più direttamente la libera circolazione delle merci sono 
comunemente designate  con le espressioni «barriere tecniche», 
«regolamentazioni tecniche» e «discipline di vendita» e  possono riguardare, 
anche nel caso della protezione dell'ambiente, la fissazione di requisiti di 
produzione, di imballaggio, di trasporto, di vendita dei  prodotti e così via.  
La problematica sollevata dalle normative indistintamente applicabili è se 
e a quali condizioni esse sono configurabili quali ostacoli agli scambi che 
implichino effetti restrittivi equivalenti a quelli delle restrizioni quantitative 
all'importazione o all'esportazione lesive del disposto degli artt. 30 e 34. In 
particolare quando ed a quali condizioni una misura nazionale indistintamente 
applicabile, in osservanza di regole comunitarie, possa limitare la libera 
circolazione delle merci per perseguire l'obiettivo della protezione 
dell'ambiente. 
 
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8 
1.3. La giurisprudenza «Cassis de Dijon». Le «normative indistintamente 
applicabili», la tutela delle «esigenze imperative» e il principio del «mutuo 
riconoscimento» 
Già intorno agli anni '60 la Commissione aveva potuto rilevare, 
soprattutto alla luce dei primi ricorsi, che la compartimentazione dei mercati 
era spesso dovuta all'esistenza di normative nazionali applicabili allo stesso 
modo e senza alcuna differenza sia ai  prodotti nazionali che ai prodotti 
importati. Tali normative, anche  se non discriminatorie e apparentemente 
legittime quanto a scopo perseguito, avevano l'effetto di vietare la 
commercializzazione dei  prodotti non conformi ai requisiti prescritti e si 
traducevano in un ostacolo alla vendita dei prodotti. Ad ogni modo occorreva, 
da un lato, dotarsi degli strumenti idonei a combattere la crescita indiscriminata 
del ricorso a tali misure e, da un altro lato, stabilire fino a che punto le  
normative indistintamente applicabili potessero limitare la libera circolazione 
delle merci per il perseguimento di altri obiettivi. Un primo tentativo in questa 
direzione era stato compiuto dalla Commissione con la Direttiva 70/50
11
. La 
giurisprudenza «Cassis de Dijon» conferma l'orientamento seguito dalla 
Commissione nella precitata direttiva e fornisce uno strumento appropriato per 
lo smantellamento delle barrire tecniche. Inoltre, questa giurisprudenza ha 
apportato elementi di riflessione che hanno favorito un riesame degli approcci 
legislativi comunitari seguiti fino a quel momento  attraverso l'elaborazione del 
principio del «mutuo riconoscimento». 
Nella sentenza «Rewe-Zentral AG c. Bundesmonopolverwolting für 
Branentwein» del 20 febbraio 1979 denominata appunto «Cassis de Dijon»
12
, 
                                                 
11
 La direttiva 70/50 riconosce agli Stati membri il potere di adottare normative indistintamente 
applicabili nell'esercizio delle rispettive competenze residue per il perseguimento di «obiettivi 
legittimi e meritevoli di tutela». Essa peraltro stabilisce che tali provvedimenti possono essere 
adottati soltanto quando: non esiste una regolamentazione comune in materia; non costituiscono 
degli ostacoli alla libera circolazione delle merci., perseguono un obiettivo che rientri 
nell'ambito dei poteri degli Stati di disciplinare il commercio; sono proporzionati rispetto allo 
scopo perseguito. 
12
 Sentenza «Cassis de Dijon» del 20 febbraio 1979, 120/78, Raccolta, 1979, p. 649. 
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9 
una regolamentazione tedesca disponeva che potevano  essere 
commercializzate sul mercato nazionale unicamente le bevande alcooliche, di 
qualsiasi provenienza, che avessero una gradazione minima di alcool di 32°. Di 
conseguenza, il liquore «Cassis de Dijon», fabbricato e legalmente 
commercializzato in Francia, non poteva essere venduto in Germania in quanto 
la sua gradazione alcoolica oscillava tra i 15° e i 20°.  
Il governo tedesco giustificò tale misura con la necessità di tutelare la 
salute pubblica attraverso un'argomentazione per certi versi paradossale: la 
proliferazione di bevande a basso tenore alcoolico avrebbe favorito 
l'assuefazione a bevande a più forte gradazione! Le autorità tedesche sostennero 
inoltre che la regolamentazione in causa mirava a proteggere i consumatori in 
quanto la fissazione di un grado minimo di alcool costituiva una garanzia 
essenziale per la lealtà dei negozi commerciali. 
La regolamentazione tedesca pur stabilendo identiche condizioni di 
accesso sul mercato nazionale sia per i prodotti nazionali che per quelli 
importati e senza provocare apparenti effetti  discriminatori o protezionistici, 
comportava l'effetto pratico di vietare la commercializzazione di prodotti 
legalmente fabbricati e venduti in altri Stati membri. 
La Corte, nel rispondere al governo tedesco, riconobbe che «in mancanza 
di una normativa comune in materia di produzione e commercio dell'alcool (...) 
spetta agli Stati membri disciplinare, ciascuno nel suo territorio, tutto ciò che 
riguarda la produzione e il commercio dell'alcool e delle bevande alcooliche; 
gli ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti da disparità delle 
legislazioni nazionali relative al commercio dei prodotti di cui trattasi vanno 
accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per 
rispondere ad esigenze imperative».  
Secondo la Corte quindi, in assenza di regole comunitarie gli Stati 
membri conservano, in via di principio, la facoltà di disciplinare il consumo dei 
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10 
prodotti purché le normative nazionali non ostacolino il commercio 
intracomunitario. Gli Stati membri sono dunque liberi di perseguire attraverso 
questo tipo di normative gli obiettivi meritevoli di tutela qualificabili come 
«esigenze imperative». Nel caso in questione tuttavia, la regolamentazione  
nazionale, pur se indistintamente applicabile, costituiva un ostacolo al 
commercio intracomunitario e risultava contraria al disposto dell'art. 30. Infatti, 
intralciava le importazioni di un prodotto legalmente fabbricato in un altro 
Stato membro senza che tale ostacolo potesse essere  giustificato da 
un'esigenza imperativa. 
La sentenza «Cassis de Dijon» va peraltro tenuta distinta dalla 
definizione delle misure di effetto equivalente emersa nella sentenza 
«Dassonville». Mentre, infatti, la prima prende in considerazione le misure 
interne degli Stati membri relative alla vendita dei prodotti che possono avere 
effetti sulle importazioni o sulle esportazioni (normative indistintamente 
applicabili), la seconda, si riferisce esclusivamente alle misure che provocano 
differenze di trattamento  tra i flussi commerciali in entrata o in uscita da uno 
Stato membro (normative distintamente applicabili). 
Nella sentenza in cause riunite «Cineteca» dell'11 luglio 1985 la Corte, 
infatti, giudicando la validità di una normativa francese che vietava la vendita 
di videocassette che riproducono films durante il primo anno di proiezione  
nelle sale cinematografiche in modo da  incentivare la creatività artistica in 
questo campo e garantire un giusto reddito alla produzione cinematografica, 
sostenne che «(...) un regime del genere, anche se si applica indistintamente ai 
prodotti nazionali o importati non ha lo scopo di disciplinare le correnti di 
scambio (...) Tuttavia, la applicazione di un siffatto regime può intralciare gli 
scambi intracomunitari (...) a causa della diversità dei sistemi normativi vigenti 
nei vari Stati membri (...). Di conseguenza, il divieto è compatibile col 
principio della libertà di circolazione delle merci sancito dal Trattato solo 
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11 
purché gli eventuali ostacoli derivanti per gli scambi intracomunitari non 
vadano al di là di quanto necessario per garantire il raggiungimento dello scopo 
perseguito e purché questo scopo sia  legittimo con riguardo al diritto 
comunitario»
13
.  
Da questa sentenza emerge che la definizione «Dassonville» non è 
riferibile alle normative indistintamente applicabili come punto di partenza per 
la loro qualifica. Gli effetti restrittivi inerenti a qualsivoglia disciplina giuridica 
indistintamente applicabile non possono  essere considerati equivalenti a quelli 
delle restrizioni quantitative e cioè atte ad «ostacolare direttamente o 
indirettamente, in atto o in potenza il commercio intracomunitario». Tale 
assimilazione potrà avvenire unicamente una volta che tali effetti si siano 
rivelati, dopo essere passati al vaglio delle esigenze imperative, equivalenti a 
quelli delle restrizioni quantitative e quindi contrari all'art. 30: è soltanto allora 
che essi saranno atti ad «ostacolare direttamente o indirettamente...» gli scambi 
intracomunitari ai sensi della definizione «Dassonville» e che quest'ultima 
potrà applicarsi alle normative indistintamente applicabili
14
. 
In una serie di sentenze successive la Corte, nell'applicare la 
giurisprudenza «Cassis de Dijon», si è preoccupata di valutare la eventuale 
prevalenza delle esigenze imperative alla luce  di due importanti principi che 
completano lo schema sin qui delineato. 
In un caso riguardante la legittimità di una normativa belga che imponeva 
il confezionamento della margarina in forma cubica e giustificava tale 
provvedimento in base ad esigenze di tutela del consumatore la Corte, 
nell'applicare la giurisprudenza «Cassis de Dijon», dopo avere ribadito 
l'ammissibilità di una normativa nazionale che, in assenza di regole 
comunitarie, tende al perseguimento di esigenze imperative, aggiunse che la 
predetta disciplina doveva «essere proporzionata al fine perseguito. Uno Stato 
                                                 
13
 Sentenza «Cineteca» dell'11 luglio 1985,  in cause riunite 60-61/84, Raccolta, 1985, p. 2605. 
14
 A. Mattera Ricigliano, Il mercato unico europeo, UTET, Torino, 1990, p. 267. 
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12 
membro, se può scegliere fra i vari provvedimenti idonei a raggiungere lo 
stesso scopo, è tenuto ad optare per il mezzo che implica meno ostacoli per la 
libertà degli scambi»
15
.  
Dal caso 261/81 e dalla giurisprudenza successiva emerge l'applicazione 
del principio di proporzionalità e di quello di sostituibilità. La Corte ritiene 
pertanto che  le normative indistintamente applicabili oltre ad essere finalizzate 
al raggiungimento di uno scopo devono essere appropriate e non eccessive e 
devono costituire il minore intralcio possibile alla libera circolazione delle 
merci.  
Riepilogando, si può concludere che, secondo la Corte, gli ostacoli che 
discendono dalla diversità di normative commerciali e tecniche sono 
ammissibili unicamente se tali regolamentazioni sono necessarie, vale a dire 
appropriate e non eccessive per rispondere ad esigenze imperative, perseguono 
uno scopo di interesse generale meritevole di tutela in sede comunitaria; sono 
indispensabili per raggiungere tale scopo, vale a dire  costituiscono nel 
contempo il mezzo più appropriato e che intralcia in minor misura gli scambi. 
Ne consegue che una  regolamentazione nazionale può essere considerata 
«giustificata» da un'esigenza imperativa soltanto quando trovino applicazione i 
seguenti principi: il principio di causalità, ovvero esiste un rapporto di causa ed 
effetto tra la regolamentazione nazionale e l'esigenza imperativa perseguita; il 
principio di proporzionalità, ossia tale regolamentazione è appropriata e non 
eccessiva rispetto allo scopo cui tende; il principio di sostituibilità, cioè non 
esistono soluzioni alternative che, nel consentire allo Stato membro di 
raggiungere l'obiettivo ricercato, siano tuttavia tali da creare minori turbative 
per gli scambi.  
La giurisprudenza «Cassis de Dijon» oltre a chiarire i limiti 
dell'intervento statale in assenza di norme comuni per il perseguimento di 
                                                 
15
 Sentenza «Rau» del 10 novembre 1982, 261/81, Raccolta, 1982, p. 4575. 
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13 
obiettivi diversi dalla libera circolazione delle merci, ha introdotto nel sistema 
comunitario il principio del mutuo riconoscimento. Questo principio postula 
l'accettazione da parte di ogni Stato membro dei prodotti legalmente fabbricati 
in qualsiasi altro  Stato membro, anche se tali prodotti sono fabbricati secondo 
prescrizioni tecniche diverse da quelle imposte dalle vigenti regolamentazioni 
nazionali, allorquando i prodotti di cui si tratta corrispondono in modo 
opportuno e soddisfacente alle legittime esigenze normative dello Stato 
importatore. La Commissione ha affermato l'importanza di tale principio quale 
strumento principe per la realizzazione del mercato comune sin  dall'indomani 
della pubblicazione della citata sentenza ricomprendendolo inoltre fra le misure 
consigliate dal  Libro Bianco sull'eliminazione delle barriere commerciali. Il 
principio del mutuo riconoscimento è stato ribadito dalla Corte nel corso di 
numerose sentenze
16
. 
Secondo la Corte tale principio va accettato e giustificato sulla base della 
«reciproca fiducia»
17
 che costituisce l'anello di congiunzione tra Stati che, pur 
avendo costumi e legislazioni diverse, attingono a fonti culturali e scientifiche 
comuni e convivono in una Comunità legati da vincoli sempre più stretti e 
tutelati da un comune diritto, da comuni istituzioni e da una giurisdizione 
sovranazionale le cui pronunce si impongono a tutti gli Stati. Ne consegue che 
le garanzie offerte sono tali da giustificare l'esigenza di tale «reciproca fiducia», 
anche in mancanza di una specifica normativa comune, nei confronti di ogni 
altro Stato membro, della sua legislazione, delle sue strutture amministrative, 
dei suoi organi e delle sue procedure di controllo. 
La questione fondamentale che  sollevano il principio del mutuo 
riconoscimento  e la giurisprudenza relativa alle normative indistintamente 
                                                 
16
 Sentenza «Sandoz» del 14 luglio 1983, 174/82, Raccolta, 1983, p. 2445; sentenza «Legge di 
purezza della birra» del 12 marzo 1987, 178/84, Raccolta 1987, p. 1227; sentenza «Biologische 
producten» del 17 dicembre 1981, 272/80, Raccolta, 1981, p. 3277; sentenza «Commissione c. 
Repubblica Francese» del 18 gennaio 1986, 188/84, Raccolta , 1986, p. 419. 
17
 Sentenza «Bouchara» dell'11 maggio 1989, 25/88, Raccolta, 1989, p. 1124. 
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14 
applicabili giustificate da esigenze imperative è se uno Stato membro possa 
imporre ai prodotti importati un certo livello di tutela nazionale, per esempio, 
per motivi di protezione dell'ambiente. Come già sottolineato, in mancanza di 
normative comunitarie, gli Stati membri, possono imporre ai prodotti importati 
l'osservanza delle regolamentazioni nazionali vigenti in materia; tuttavia essi 
devono collocarsi nei limiti tracciati dalla Corte e dianzi richiamati. Ciò 
significa in particolare che uno Stato membro non potrebbe imporre né un 
livello di protezione dell'ambiente che non fosse basato su risultati 
scientificamente comprovati o attendibili né in loro mancanza, l'esigenza di un 
livello di tutela eccessivo rispetto all'obiettivo da raggiungere. Il rispetto del 
principio di proporzionalità che è a fondamento della filosofia seguita in 
materia, richiede che gli strumenti predisposti tengano conto delle due esigenze 
in causa allo scopo di conciliare nel nostro caso, la libera circolazione delle 
merci, da un canto, e la protezione dell'ambiente, dall'altro. Non vi sarebbe 
infatti congruità fra mezzi e obiettivi se uno Stato membro privilegiasse uno 
strumento che consente di raggiungere un livello eccessivamente elevato di 
protezione dell'ambiente a danno dell'esigenza della libera circolazione delle 
merci. Pertanto, l'applicazione  dei precitati principi implica che gli Stati 
membri non possono imporre ai prodotti importati il rispetto di un livello di 
tutela equivalente a quello richiesto ai prodotti nazionali, qualora quest'ultimo 
sia eccessivo rispetto all'obiettivo perseguito o privilegi, senza necessità, 
un'esigenza (la protezione dell'ambiente) a svantaggio di un'altra (la libera 
circolazione delle merci).  
Il caso delle «bottiglie danesi» pone in termini  significativi la questione 
dei limiti imposti dal diritto comunitario all'esercizio delle competenze statali 
in materia di ambiente, in particolare quando si tratta dell'adozione di 
provvedimenti nazionali che mirano ad un elevato livello di protezione.