____________________________________________________________Introduzione
2
Le varie teorie che sono state proposte si riferiscono a singoli aspetti del problema della
distribuzione del reddito, ad esempio la determinazione dei salari sul mercato del
lavoro, la formazione ed accumulazione della ricchezza, ecc.. La disuguaglianza è
infatti un fenomeno complesso di cui non sempre è semplice dare una definizione
univoca dal momento che essa può differire in relazione alla variabile assunta come
termine di riferimento (reddito, ricchezza, tenore di vita, utilità, felicità, opportunità). La
variabile principale è generalmente individuata nel reddito e/o ricchezza perché
facilmente quantificabili.
È certo che i processi attraverso i quali i redditi individuali e/o familiari si determinano
sono molto articolati. La disuguaglianza accertata nella distribuzione personale è la
risultante delle disuguaglianze che si instaurano nel momento della formazione delle
diverse componenti del reddito. Queste disuguaglianze sono riconducibili all’esistenza
di percettori di soli redditi da lavoro in contrapposizione ai percettori di redditi derivanti
dalla proprietà di beni capitali e/o di risorse naturali.
All’ interno di ciascun gruppo di percettori si creano differenze in seguito alla
posizione nella professione, all’esercizio di determinate mansioni, al livello
d’istruzione, all’area geografica di residenza e ad altre caratteristiche. Secondo alcuni
autori, inoltre, si deve risolvere il problema dell’interdipendenza fra i diversi gruppi
(Sen 1997).
Esiste un altro importante fenomeno legato alla distribuzione dei redditi che verrà
esaminato in questo studio: la povertà. Il tema della povertà, contrariamente a quanto si
è soliti pensare, riguarda una realtà molto diffusa nei paesi industrializzati, nonostante
gli elevati tassi di sviluppo e di benessere raggiunti. Anche l’Italia non sfugge a tale
affermazione, registrando un’elevata percentuale di famiglie povere al suo interno.
Molteplici sono i criteri per definire una famiglia povera, nella presente analisi si farà
riferimento ad un criterio relativo: la soglia di povertà verrà fatta coincidere con il 60%
del valore mediano del reddito familiare equivalente1.
Obiettivo del lavoro è descrivere l’andamento della distribuzione dei redditi delle le
famiglie italiane in un determinato arco temporale utilizzando, come fonte relativamente
omogenea nel tempo, l’indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia. La
definizione del reddito adottata è data dal reddito disponibile familiare, una grandezza
1
La nozione di reddito equivalente sarà ampiamente trattata nel secondo capitolo.
____________________________________________________________Introduzione
3
che comprende tutte le entrate monetarie dei membri della famiglia, al netto delle
imposte pagate.
L’unità di analisi che è stata scelta in tutte le elaborazioni che seguiranno è la famiglia,
intesa secondo la definizione accolta nell’indagine della Banca d’Italia, ovvero
sostanzialmente la famiglia in senso anagrafico, che ha come riferimento centrale la
convivenza e non necessariamente il matrimonio. Si assume quindi che tutti gli
individui che appartengono alla stessa famiglia godano del medesimo livello di reddito.
Il riferimento alla famiglia rende necessario trovare una unità di misura dei redditi
familiari in quanto indicatori di benessere. Per rendere comparabili i redditi di famiglie
di diverse struttura, è necessario adottare una scala di equivalenza: si tratta di un indice
che standardizza le eterogeneità demografiche associando a ciascuna tipologia familiare
un numero di “adulti equivalenti” (Bosi, 2000). La divisione del reddito monetario per
la scala produce il reddito equivalente, una misura che non dipende dalle caratteristiche
demografiche della famiglia. Il reddito disponibile familiare equivalente costituisce
l’indicatore di benessere utilizzato in questo lavoro per la valutazione delle misure di
disuguaglianza e povertà2. I pesi campionari forniti dall’Archivio Storico della Banca
d’Italia, necessari per rendere rappresentativi i risultati, sono sempre stati applicati.
In questo studio sarà trattata, in primo luogo, la distinzione tra distribuzione primaria e
distribuzione secondaria e verranno presentate le principali teorie relative ai due tipi di
distribuzione. Una specifica attenzione verrà rivolta agli aspetti metodologici della
comparabilità nel tempo dei dati storici, alla costruzione delle diverse misure di
disuguaglianza e povertà e alle loro più comuni rappresentazioni grafiche. Sia la povertà
che la disuguaglianza vengono esaminate nella loro fondamentale dimensione
economica, tramite l’uso di adeguati strumenti statistici.
Largo spazio sarà dedicato all’analisi critica dei dati empirici circa la distribuzione dei
redditi delle famiglie italiane, ed al commento degli indici di disuguaglianza e povertà
calcolati per un campione di famiglie in un arco di tempo che va dal 1987 al 2004.
Molti sono i fattori che concorrono a creare i diversi livelli di disuguaglianza e povertà
all’interno di un paese, uno tra i più importanti, che verrà ampiamente discusso, è il
divario tra Nord, Centro e Sud.
A questo proposito vengono calcolati gli indici di Gini e di Atkinson prendendo come
variabili di riferimento alcune caratteristiche socio-demografiche tra cui: il livello
2
In tutte le elaborazioni e tabelle successive saranno quindi riportati valori equivalenti, salvo che non
venga specificato diversamente.
____________________________________________________________Introduzione
4
d’istruzione del capofamiglia, l’area di residenza, l’attività lavorativa del capofamiglia
ed altre ancora.
Per comprendere meglio quali siano le possibili cause alla base di una disuguale
distribuzione dei redditi, gli indici sintetici (in particolare l’indice di Atkinson) sono
stati poi scomposti sulla base di diversi gruppi.
Il presente lavoro è organizzato come segue: nel primo capitolo verranno presentate le
teorie sulla distribuzione del reddito, nel secondo capitolo saranno trattate alcune
questioni metodologiche necessarie per effettuare uno studio sulla distribuzione del
reddito. Il terzo capitolo sarà, invece, dedicato alla descrizione delle principali misure di
disuguaglianza e povertà, alcune delle quali saranno poi usate per determinare il grado
di concentrazione del reddito; nel quarto capitolo, infine, saranno presentati i risultati
della nostra analisi circa il livello di disuguaglianza e povertà esistente in Italia negli
ultimi venti anni.
______________________________________________________________Capitolo1
5
CAPITOLO 1
ASPETTI CONCETTUALI
1.1 LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO
Il modo in cui il prodotto netto di un’economia viene ripartito tra gli agenti economici
costituisce il campo d’indagine della teoria della distribuzione. Poiché il problema viene
affrontato con ottiche diverse da diverse teorie, non è possibile darne una definizione
generale valida per tutti i punti di vista.
Non esiste quindi alcuna teoria unificata ed esaustiva della distribuzione del reddito.
Questo campo d’indagine è infatti quello in cui più marcata è la contrapposizione tra
teorie alternative. La ragione è semplice: l’individuazione delle forze e delle circostanze
che concorrono a determinare la distribuzione del reddito costituisce il punto essenziale
di ogni teoria economica generale e su questo specifico problema si concentrano le
principali ragioni di contrapposizione di una scuola di pensiero e l’altra (Screpanti
1990).
Facendo uno sforzo di sintesi, tuttavia, si possono raggruppare e assimilare varie teorie:
un primo gruppo che si occupa della distribuzione funzionale o primaria, e un secondo
che si occupa della distribuzione personale o secondaria.
In primo luogo è necessario descrivere le caratteristiche principali dei due tipi di
distribuzione per poi passare a mostrarne le differenze.
La distribuzione primaria ( o dei fattori o funzionale) riguarda la ripartizione del
prodotto tra i fattori produttivi che contribuiscono alla sua realizzazione . Gli individui
vengono considerati in quanto fornitori di specifici fattori produttivi, ad esempio il
lavoro o il capitale; le componenti della distribuzione primaria sono pertanto i redditi da
lavoro dipendente, i profitti, le rendite e gli interessi.
Fino ad anni recenti, la teoria economica si è occupata principalmente dell’analisi della
distribuzione funzionale perché il modello di produzione, fondato sulla grande impresa
industriale, portava ad associare ad ogni classe sociale uno specifico fattore produttivo
(i salari ai dipendenti, la rendita ai proprietari terrieri, i profitti agli imprenditori). Nel
tempo la struttura sociale delle economie industriali si è modificata complicandosi e
arricchendosi di figure nuove che rendono la divisione tra capitalisti, lavoratori e
______________________________________________________________Capitolo1
6
proprietari terrieri non più rappresentativa della effettiva struttura di una società
moderna.
L’attenzione è stata spostata sulla domanda e l’offerta dei beni nell’ottica del principio
della scarsità e della massimizzazione di obiettivi (il massimo dell’utilità o del
profitto)in presenza di vincoli nella disponibilità delle risorse (dotazioni iniziali di beni
e fattori produttivi).
Applicando tali principi alla distribuzione primaria si mette in luce la scarsità dei fattori
lavoro e capitale come aspetto fondamentale nella determinazione del loro prezzo (tasso
di salario e di profitto).
La distribuzione secondaria (o personale) riguarda invece la ripartizione dei redditi
tra le persone che fanno parte di una società. Il centro dell’attenzione non è costituito
dai fattori della produzione ma dagli individui o dalla famiglia.
La distribuzione personale dei redditi è stata per molto tempo considerata come un
processo stocastico di cui debbono essere determinate le leggi statistiche che lo
governano, avendo come obiettivi principali la formulazione di leggi generali per
descrivere la “forma” della distribuzione e, sulla base di queste leggi, la misura del
relativo grado di disuguaglianza analizzata. Sono stati quindi privilegiati gli aspetti
statistici rispetto a quelli economici. In particolare Pareto (1896), aveva individuato una
relazione tra redditi individuali e numero di percettori, a partire da un valore del reddito
minimo, così significativa da potersi ritenere una vera e propria legge.
Questa impostazione statistico-descrittiva ha portato ad una separazione tra lo sviluppo
di una teoria della distribuzione personale del reddito ed il “corpus” delle teorie della
distribuzione funzionale. Nel corso del tempo, tuttavia, la distribuzione personale dei
redditi è venuta acquistando sempre più importanza per l’analisi economica non solo
con riferimento ai concetti di equità e benessere ma anche in relazione allo studio dei
comportamenti individuali e collettivi (riguardanti il consumo, l’accumulazione in
capitale fisico ed umano), alle caratteristiche dell’organizzazione produttiva e del
mercato del lavoro.
Vi sono molte ragioni per cui distribuzione funzionale e personale non coincidono, ma
prima di elencarle è necessario approfondire lo studio della distribuzione primaria che,
malgrado sia insufficiente per comprendere la distribuzione del benessere in una
società, conserva ancora un ruolo fondamentale nel determinarla. Il nostro sistema
economico è infatti oggi, come due secoli fa, una economia di mercato in cui il reddito
nazionale viene prodotto utilizzando fattori produttivi.
______________________________________________________________Capitolo1
7
Sono quattro gli approcci allo studio della disuguaglianza primaria che verranno
illustrati qui di seguito: la teoria classica, quella marxiana, l’approccio marginalista e
infine la scuola keynesiana. Tutti si pongono, in estrema sintesi, l’obiettivo di studiare
come il prodotto nazionale si ripartisce tra profitti, rendite e salari.
La distribuzione del reddito secondo la teoria classica
La teoria classica ha segnato la nascita dell’economia come scienza sociale, con i
contributi di economisti come Smith, Malthus e Ricardo.
Ricardo (1772-1823) ha messo il problema della distribuzione del reddito tra le classi
sociali al centro della riflessione teorica dell’economia politica.
Secondo Ricardo, il prodotto totale dell’economia si suddivide tra tre tipi di reddito: i
salari, che remunerano i lavoratori, i profitti, che vanno ai capitalisti, e le rendite dei
proprietari terrieri. I salari nel lungo periodo non possono discostarsi dal livello di
sussistenza, cioè da quel livello che permette la semplice riproduzione della forza
lavoro. Secondo il meccanismo proposto per primo da Malthus, un aumento del livello
dei salari, infatti, provoca, assieme al miglioramento delle condizioni di vita, un
incremento del tasso di natalità, con conseguente aumento dell’offerta di lavoro. Ciò
spinge in basso il salario, che torna così al livello di sussistenza. Il salario viene quindi
fissato esogenamente. Resta da determinare come si possono distinguere le quote dei
profitti e delle rendite.
Ricardo assegna all’agricoltura un ruolo analitico fondamentale, per ben due ragioni:
nell’agricoltura lo stesso bene può essere pensato sia come input che come output (ad
esempio il grano), quindi le quote che vanno ai diversi fattori della produzione possono
essere calcolati in termini fisici; inoltre, i prodotti agricoli, in quanto generi alimentari,
sono fondamentali per determinare il livello di sussistenza dei salari.
Per risolvere il problema della separazione tra rendite dei proprietari terrieri e profitti
dei capitalisti, l’idea di fondo è che i terreni possiedono capacità produttive diverse, e
che i proprietari sono disposti a mettere a produzione tutti i terreni che garantiscono loro
una rendita positiva, a partire da quelli più fertili, fino ad arrivare al terreno con minor
produttività rispetto agli altri, che presenta una rendita marginale nulla.
Se, infatti, la rendita su quest’ultimo terreno fosse positiva, ai proprietari terrieri
converrebbe mettere a coltura altre terre ancor meno produttive, fino ad arrivare di
nuovo al terreno con rendita nulla. Tutte le terre con rendita maggiore o uguale a zero
______________________________________________________________Capitolo1
8
vengono quindi inserite nel ciclo produttivo. Il problema dell’assorbimento della
produzione non sussiste perché vale la legge di Say3.
E’ sul terreno meno fertile messo in produzione che si può isolare il valore del profitto
poiché per definizione la rendita su di esso è uguale a zero.
Visto che sull’ultima unità di lavoro (impiegata nel terreno meno produttivo) non c’è
rendita, tutta la differenza tra profitto marginale del lavoro e salario, in corrispondenza
dell’ultimo lavoratore impiegato, è il profitto marginale. Per l’ipotesi di perfetta
concorrenza tra imprenditori, lo stesso profitto marginare si deve ricavare anche su
tutte le altre unità di lavoro.
Questo ragionamento non vale solo per le attività agricole, ma per il sistema economico
nel suo complesso, nell’ipotesi che il meccanismo concorrenziale produca saggi di
profitto uniformi in tutta l’economia. In altre parole, il saggio di profitto prevalente è
dato dalla differenza tra la produttività marginale del lavoratore meno produttivo ed il
suo salario. Mentre la rendita è sempre decrescente passando sai terreni più fertili a
quelli più aridi, il profitto marginale è costante.
Nel lungo periodo, la concorrenza tra capitalisti provocherà, secondo Ricardo, la messa
in produzione di terre sempre meno fertili ed un incremento della rendita. In assenza di
miglioramenti tecnologici, l’economia tenderebbe così verso uno stato stazionario con
profitti sempre più bassi, e salari vincolati al livello di sussistenza.
Si sono così ottenuti semplici risultati: il salario pro-capite è fissato al livello di
sussistenza, ed il profitto, costante in tutti i settori dell’economia, dipende dalla
differenza tra la produttività del lavoratore impiegato sul terreno meno fertile ed il
salario.
La distribuzione del reddito secondo la teoria marxista
L’opera di K. Marx (1813-1883) rappresenta una sorta di continuazione dell’approccio
analitico tipico della scuola classica. Di essa, infatti, accetta pienamente almeno tre
concetti: la teoria del valore- lavoro, il carattere esogeno del livello dei salari e l’ipotesi
della caduta tendenziale del saggio di profitto.
Marx ritiene che la società sia composta da classi, ma non accetta la tripartizione tra
lavoratori, capitalisti e proprietari terrieri. Esiste solo una semplice bipartizione, fondata
3
La legge di Say afferma che l’offerta crea la domanda; a livello aggregato tutta la produzione trova
quindi una corrispondente domanda.
______________________________________________________________Capitolo1
9
sul possesso dei mezzi di produzione: da una parte i proprietari dei mezzi di produzione,
i capitalisti, e dall’altra i lavoratori, che non li possiedono.
Per capire quali regole stiano alla base del processo di distribuzione del reddito tra le
due classi è necessario partire dalla teoria del valore, che Marx riprende da Ricardo.
Marx considera il lavoro come il solo fattore di produzione, e quindi il valore di un bene
è pari alla quantità di lavoro che si deve impiegare nella produzione. Solo i lavoratori
possono, con il loro lavoro, creare valore, ma i capitalisti, che possiedono i mezzi di
produzione, obbligano i lavoratori a produrre beni caratterizzati da un valore superiore a
quanto richiesto per il semplice mantenimento della forza- lavoro. La differenza tra il
valore dei beni prodotti e il salario del lavoratore costituisce il plusvalore, interamente
di proprietà del capitalista. L’esistenza del plusva lore è in effetti l’unica ragione che
spinge il capitalista ad assumere manodopera. Si viene così a determinare una situazione
di sfruttamento di una classe nei confronti dell’altra. La classe dei salariati, non
possedendo dei mezzi di produzione, non ha la possibilità di sfuggire a tale
sfruttamento, messo in atto dalla classe dei capitalisti, se vuole sopravvivere.
Il meccanismo concorrenziale, inoltre, costringe i capitalisti ad investire in macchinari
sempre più produttivi, con lo scopo di aumentare il plusvalore. Riescono infatti a
sopravvivere solo quei capitalisti che, diventando più produttivi degli altri, possono
vendere beni a prezzi sempre più bassi (perché prodotti con minore uso di lavoro); la
continua accumulazione del capitale investito in macchinari sempre più produttivi
provoca l’espulsione dalle fabbriche di una numero crescente di lavoratori.
L’esistenza di questa massa di disoccupati spiega perché il salario si mantenga al
semplice livello di sussistenza, senza possibilità di aumento in termini reali nel lungo
periodo.
La motivazione che Marx fornisce del perdurare dei salari al livello di sussistenza è
completamente diversa da quella fornita dai classici, basata sul meccanismo maltusiano
di crescita della popolazione in conseguenza di ogni miglioramento delle condizioni di
vita delle classi lavoratrici.
Per quanto riguarda il saggio di profitto, anche per Marx, come per Ricardo, esso tende
a decrescere nel lungo periodo, anche se per una ragione diversa.
Il punto debole principale di questa argomentazione sta nell’ipotesi di costanza del
saggio di sfruttamento, da Marx non spiegata. Se essa viene meno, non è detto che il
saggio di profitto debba per forza diminuire.
______________________________________________________________Capitolo1
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La distribuzione del reddito secondo la teoria marginalista
L’approccio dominante nello studio della distribuzione primaria del reddito è
conosciuto con il nome di teoria marginalista (o neoclassica) della distribuzione: essa
studia come vengono determinate le remunerazioni dei vari fattori utilizzati nel processo
produttivo. Questa teoria è stata elaborata da numerosi economisti, tra i quali dobbiamo
citare Jevons, Walras, Edgeworth e Pareto alla fine del XIX secolo, fino ad Arrow e
Samuelson, ai nostri giorni.
Il marginalismo rivoluziona il concetto di valore: mentre per i classici e per Marx i beni
sono dotati di un valore “oggettivo”, per i marginalista il valore di un bene è un concetto
“soggettivo”, e corrisponde al grado di utilità ricevuta da chi lo consuma. Un’altra
innovazione importante di questo approccio sta nell’assoluta irrilevanza della
suddivisione della società in classi: si riceve un reddito solo a seguito della fornitura di
un fattore produttivo, non ha importanza a quale classe si appartiene.
Una delle ipotesi fondamentali del modello neoclassico prevede che tutti i mercati siano
perfettamente concorrenziali, sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta. Gli
agenti sono quindi dei price-takers.
L’obiettivo di ogni impresa è la massimizzazione del profitto, dati i vincoli dei costi e
della tecnologia prevalente, e quello di ciascun individuo è la massimizzazione della
propria utilità, dato il vincolo di bilancio.
Vediamo come si determina la remunerazione di un fattore produttivo. Per semplicità
facciamo riferimento al fattore lavoro: il salario viene fissato sul mercato del lavoro,
quando si raggiunge l’equilibrio tra offerta e domanda di lavoro. La domanda di lavoro
è la somma delle domande di lavoro delle singole imprese, mentre l’offerta di lavoro è
data dal numero degli individui che, per ogni livello di salario, sono disposti a lavorare.
Consideriamo il caso di un’unica impresa che ha un certo stock di capitale e che ha già
assunto un certo numero di lavoratori. Supponiamo voglia assumere un nuovo
lavoratore: sarà conveniente farlo se il ricavo aggiuntivo del prodotto di questo
lavoratore in più è maggiore del costo del lavoratore stesso.
In economia, infatti, per decidere se una azione è conveniente bisogna confrontare il
beneficio marginale con il costo marginale dell’azione stessa; in questo caso il beneficio
marginale è rappresentato dalla produttività marginale del lavoratore. Il prodotto
marginale del lavoro è decrescente perché vale la legge dei rendimenti decrescenti. Fino
a che il valore del prodotto marginale del lavoro è superiore al salario, all’impresa
______________________________________________________________Capitolo1
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conviene assumere nuovi lavoratori, e continuerà a farlo fino al punto in cui il valore del
prodotto marginale di una unità di lavoro è uguale al salario unitario. Questa relazione
di eguaglianza rappresenta la condizione di massimo profitto; andare oltre non conviene
altrimenti l’impresa dovrebbe pagare un salario superiore alla produttività dei lavoratori.
Quindi, nel caso del fattore lavoro, la sua remunerazione è pari, in equilibrio, al valore
della sua produttività marginale; lo stesso va le per qualsiasi altro fattore della
produzione.
Non esiste dunque un “problema” distributivo dal momento che la distribuzione dei
redditi viene automaticamente determinata dall’operare delle forze della domanda e
dell’offerta. Ogni fattore produttivo viene remunerato dal valore del proprio prodotto
marginale, e tutto l’output viene distribuito tra i fattori, in ragione delle diverse
produttività marginali. Gli interessi delle diverse classi non sono dunque conflittuali,
anzi non sarebbe neppure corretto parlare di classi sociali, perché per comprendere la
distribuzione del reddito non è rilevante il conflitto tra classi diverse, ma solo come i
diversi fattori produttivi suddividono tra gli agenti economici.
La distribuzione del reddito secondo la teoria keynesiana
Riassumere il pensiero keynesiana in poche righe è praticamente impossibile; ci
limiteremo ad enunciare i punti essenziali della sua teoria.
Keynes ritiene che non esista nel sistema economico un equilibrio di pieno impiego dei
fattori. Il livello di attività economica non dipende dal volume dell’offerta, ma dalla
domanda aggregata, in particolare da quelle voci che sono indipendenti dal reddito
disponibile, ovvero gli investimenti e la spesa pubblica in beni e servizi.
Posto che la produzione si fissa ad un livello che può essere anche molto inferiore alla
piena occupazione, ci si chiede come si determina la sua ripartizione tra i fattori. I salari
sono determinati esogenamente dalla contrattazione tra sindacati e imprese; il potere
negoziale dei sindacati varia col ciclo economico, ma una riduzione dei salari in
recessione, a differenza di quanto ritenevano i marginalista, avrebbe l’effetto di ridurre
il livello di attività produttiva, a causa del calo della domanda aggregata. Una volta
fissata in questo modo la quota del prodotto nazionale che va ai lavoratori, il volume dei
profitti dipende dal livello della produzione totale, aumentando in espansione e
riducendosi in recessione.