III
Introduzione
Summum ius, summa iniuria. (Cicerone, De officiis I, 10).
L’annosa questione degli errori giudiziari nel processo penale,
verte, il più delle volte, sui problemi che sorgono dalla comminazione
di un’ingiusta sanzione e restrizione della libertà personale nei confronti
di colui che viene erroneamente dichiarato colpevole di un reato. Tale
fenomeno ha radici antichissime e da sempre ha destato forte interesse
da parte della pubblica opinione a causa dell’impatto negativo che
suscita su di un sentimento comune all’intero genere umano, come il
senso di giustizia. Esso rappresenta la percezione di essere trattati, o che
altri siano trattati, in maniera giusta e cioè rispettosa dei propri diritti,
e si fonda sulla valutazione, da parte di un individuo, delle condizioni
oggettive nelle quali si trova e sui criteri soggettivi che utilizza per
effettuare questa valutazione
1
.
La giustizia, pertanto, è il principio che garantisce la possibilità di
instaurare qualsiasi forma di coesistenza sociale e in quanto tale coincide
con il diritto, ossia con l’insieme di pratiche sociali giuste, capaci di
promuovere la coesistenza, garantendo la simmetria tra le parti sociali;
1 “ Justice is about distributions: according persons their fair shares and treatment” cfr. W ALKER &
STARMER, Miscarriages of Justice: A Review of Justice in Error, London 1999, p.31
IV
Introduzione
esiste pertanto un nesso inscindibile con il diritto.
2
Al di là dell’azione giudiziaria istituzionalizzata, che opera
con una giustizia impositiva e codificata, esiste un “sentimento di
giustizia”
3
, definito come naturale in quanto innato, che impegna ogni
singolo individuo a tenere nei confronti dei propri simili, in situazioni
ordinarie o straordinarie, un certo comportamento e ad usare criteri di
giudizio rispondenti a giustizia e al senso di onestà, correttezza e non
lesività del prossimo. È in questo senso che la giustizia diventa una virtù
morale, quindi non codificata ed istituzionalizzata, che riveste però una
enorme portata assiologica ed etica, in base alla quale si osservano
regole comportamentali che riguardano sé e gli altri nei doveri e nelle
aspettative
4
.
In una delle Lettere (VII, 344), Platone afferma che, astrattamente,
è impossibile definire la giustizia: lo può fare solo, in concreto, l’uomo
giusto poiché egli ha una “natura conforme alla giustizia”. L’intera
storia dell’umanità è una lotta per affermare diverse e perfino antitetiche
concezioni della giustizia, “vere” solo per coloro che le professano.
2 Voce dell’Enciclopedia Treccani Online http://www.treccani.it/enciclopedia/giustizia/.
Inoltre, come rimarca BARBERIS «Al termine ‘giustizia’ vengono talvolta attribuiti due significati
principali: il significato ‘sociale’, relativo alla distribuzione dei beni in una società (come
nell’enunciato “la giustizia di uno Stato non si misura sulla base del suo prodotto interno lordo”),
e il significato ‘legale’, relativo, direttamente, alla distribuzione di quei beni particolari che sono
risarcimenti e pene, e, indirettamente, all’apparato giudiziale che gestisce quest’ultima distribuzione
(come nell’ enunciato “nel nostro paese, la crisi della giustizia sembra senza fine”)». Tale distinzione
fra giustizia sociale e giustizia legale, risalente ad Aristotele, è comunque abbastanza consolidata
da spiegare perché anche l’Enciclopedia del Novecento abbia dedicato al termine ‘giustizia’ due
diversi articoli: rispettivamente, giustizia (nel secondo senso del termine), nel vol. III, e teorie della
giustizia (nel primo senso del termine), nel vol. X. in Enciclopedia del Novecento III supplemento
(2004) http://www.treccani.it/enciclopedia/giustizia_res-a85007ac-87f0-11dc-8e9d-0016357eee51_
(Enciclopedia-Novecento)
3 Per citare un celebre aforisma di VOLTAIRE “Il sentimento di giustizia è così universalmente
connaturato all’umanità da sembrare indipendente da ogni legge, partito o religione. ”
4 ZAGREBELSKY, Definire la giustizia? in Utet – Diritti Umani, 2007 http://dirittiumani.utet.it/
dirittiumani/
V
Introduzione
Manca, come anzidetto, una definizione riconosciuta di ciò che è giusto
e di ciò che è ingiusto. Per lo più, si è pervenuti a questo: che giusto
è ciò che corrisponde alla propria visione della vita in società – la
giustizia, si dice, sta necessariamente in una relazione; ingiusto è ciò
che la contraddice. Così, però, la giustizia rinuncia alla sua autonomia
e si perde negli ideali o nelle ideologie sociali, fornendo solo delle
definizioni relative, storicamente determinate e persino politicamente
orientate.
Analoga difficoltà incontrano anche le moderne concezioni
utilitaristiche della giustizia, la cui sintesi è nella formula di Beccaria:
“la massima felicità divisa nel maggior numero
5
”, la cui veridicità è
solo apparente, non tenendo conto di quel “minor numero” che è pur
sempre meritevole di essa.
La giustizia è la costante volontà e aspirazione, tradotta in azione,
di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto; la negazione di essa,
ovvero la mancata applicazione di questi criteri è l’ingiustizia, con
diversi gradi di gravità della sua realizzazione a danno di una o più
persone. Forse, a questo punto, possiamo dire che la giustizia è per lo
più un’esigenza che proviene da un’esperienza personale: l’esperienza,
per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione ad essa che
nasce dall’esperienza dell’ingiustizia, e dal dolore che ne è suscitato
6
.
La storia del processo, purtroppo, è piena di fatti ingiusti e crudeli:
ricerche di prove attraverso le ordalie e confessioni estorte con la tortura
erano all’ordine del giorno e, purtroppo, in qualche parte del mondo,
ancora oggi si può essere sottoposti ad atroci punizioni come la pena di
morte.
5 BECCARIA, Dei delitti e delle pene, Firenze, 1764 (1965), p.9
6 ZAGREBELSKY, Definire la giustizia? Cit.
VI
Introduzione
In nome della giustizia, abbiamo arrestato, condannato e
“giustiziato” filosofi, scienziati, rivoluzionari, re, regine, streghe e
comuni cittadini. Per quanto fossero atroci le punizioni che venivano
inflitte ai condannati, l’obiettivo era lo stesso dell’odierno diritto
quando pone sanzioni alla violazione delle norme: riparare un torto. Alla
giustizia retributiva, però, oggigiorno può accostarsi una concezione
di giustizia di tipo riparativo, in cui la vittima ha un ruolo attivo: la
giustizia riparativa, infatti, prevede che si ristabilizzi l’ordine sociale
non più attraverso la vendetta bensì attraverso la mediazione ed una
serie di incontri tra il reo e la vittima.
Riprendendo Aristotele nella sua Etica Nicomachea possiamo
operare una distinzione tra i concetti di giustizia distributiva e giustizia
retributiva
7
.
La prima promuove un’equa distribuzione delle risorse comuni,
mentre la seconda distribuisce sanzioni o ricompense, in proporzione
al male o al bene che è stato compiuto. Come che sia, questi modi di
intendere la giustizia, che hanno prodotto ideologie, movimenti e lotte
politiche, indicano una tensione verso una qualche realizzazione di
giustizia sociale, differenziandosi così dalla giustizia retributiva.
Secondo quest’ultima, invece, il male richiama il male, il bene, il
bene; il delitto merita una pena equivalente, la buona azione, il premio
corrispondente. È una trasposizione dell’idea del contrappasso: la
giustizia come vendetta o come riconoscenza. È una virtù reattiva che
ha come fine la soddisfazione del torto subito o il riconoscimento del
bene ricevuto, perché tutto torni come prima. Non è detto però che cosa
sia bene e che cosa male; che cosa sia pena e premio. Per questo, siamo
ancora una volta solo di fronte a una formula.
A queste due classiche distinzioni concettuali si deve aggiungere
7 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, Roma, 2005 pp. 113-118.
VII
Introduzione
una diversa concezione, quella della giustizia riconciliativa, in cui
lo scopo non è la punizione del colpevole ma il componimento della
controversia attraverso il riconoscimento del torto compiuto, il perdono
e quindi la riconciliazione e la pace, in cui l’eventuale risarcimento non
è propriamente una pena ma l’ovvia conseguenza dell’ammissione di
colpa.
Le più recenti concezioni formali hanno assunto caratteri
procedurali. Esse mirano a stabilire non “che cosa sia” la giustizia ma
“come sia possibile” che i singoli giungano a definirla senza cadere
in errore. Il compito di queste teorie della giustizia è di fare in modo
di determinare le condizioni che consentono di fare un uso retto della
propria facoltà di giudizio: per esempio, che sia garantita l’uguaglianza
delle posizioni iniziali di ciascuno e tutti valutino i problemi di giustizia
ignorando quelli che possono essere i vantaggi e gli svantaggi immediati
che per gli uni e per gli altri derivino da questa o quella decisione: il
principio di uguaglianza, in definitiva, dovrebbe garantire valutazioni
non distorte dall’egoismo.
Rappresentazione di questo ragionamento è il maestoso sistema
della giustizia come equità elaborato da J. Rawls, autore dello studio:
A Theory of iustice del 1971, il cui senso teorico è stato di recente
così sintetizzato: «La giustizia come equità congettura che [i] principi
che appariranno ragionevoli [...] siano, a conti fatti, gli stessi che
rappresentanti, razionali e soggetti a vincoli ragionevoli, dei cittadini
adotterebbero per regolare le loro istituzioni di base. Ma quali vincoli sono
ragionevoli? Secondo noi, quelli che nascono dal porre i rappresentanti
dei cittadini in una posizione simmetrica per il fatto di rappresentarli
solo in quanto liberi e uguali e non in quanto appartenenti a questa o
quella classe sociale o dotati di questa o quella dotazione naturale o
seguaci di questa o quella concezione (comprensiva) del bene
8
».
8 RAWLS, Giustizia come equità, Milano, 2002, p.93
VIII
Introduzione
Ripercorrendo le concezioni di giustizia che si sono susseguite nel
corso della storia – individuando dapprima quella greca come conformità
alla necessità e alla misura naturali; poi la giustizia come fedeltà al
patto da cui discende la pia osservanza delle leggi date da Dio al popolo
eletto; la giustizia romana come insieme di leggi ordinatrici, garantite
dalla spada; giungendo infine alla giustizia dell’epoca moderna che, di
fronte al disfacimento della legalità imperiale in Europa, ha preteso di
ridurre la giustizia al diritto, il diritto alla legge e la legge alla sovrana
volontà dello Stato – in ognuno di questi casi, la giustizia è intesa come
conformità alla legge; al singolo è richiesto, perché giustizia sia fatta,
di rispettare la legge. La giustizia, pertanto, si riconduce al concetto di
legalità.
Non ci si può tuttavia accontentare di questa riduzione, in nessuna
delle sue forme. Innanzitutto, identificare la giustizia con la legalità
trasferisce i nostri interrogativi di giustizia sulla legge. La legalità,
a volte, ha poco o nulla a che fare con la giustizia. La natura non è
affatto detto che sia giusta e giuste né che lo siano le leggi. In ogni caso,
nell’identificazione della giustizia con la legalità c’è comunque una
forzatura: giungeremmo a designare l’essere umano giusto come colui
che soltanto sa obbedire, esente da libertà e responsabilità. La giustizia
si ricollega sì all’osservanza della legge, ma sempre in nome di ciò che
supera la legge e di cui essa è espressione. «Sopra la legge posta, c’è
qualcosa di presupposto ed è là che dobbiamo cercare la giustizia e la
fonte della sua cogenza.» Che fine fa in questo modo la certezza del
diritto ?
Da ultimo, possiamo prendere in considerazione il campo in
cui la sovrapposizione della giustizia alla legalità può apparire più
naturale, ossia quello dell’amministrazione della giustizia che viene
IX
Introduzione
esercitata nei tribunali. La soggezione del giudice alla legge, e solo alla
legge, è uno dei principi fondatori della gran parte delle costituzioni
vigenti, tra le quali la nostra (art.101 Cost.), un principio che esprime
sinteticamente il tentativo di separare la sfera giuridica dalla sfera della
giustizia, rendendo la prima totalmente autonoma dalla seconda. Tale
assetto rispecchia a pieno le teorie del “positivismo giuridico”, uno dei
principali frutti dell’affermazione della sovranità nazionale e volto al
conseguimento dell’obiettivo di espungere ogni valutazione di giustizia
dall’operato non solo dei giudici ma anche, e prima ancora, dei singoli
individui, riservando al legislatore il potere sovrano di distinguere ciò
che è giusto da ciò che non lo è, tramite le norme.
“La legge può avere qualunque contenuto”, questo si può
considerare il motto dei positivisti. Ma noi saremmo disposti, allora,
ad accettare qualunque aberrazione provenga da una disposizione di
legge basandoci sul solo presupposto che essa provenga da un potere
sovrano e quindi considerato pienamente legittimato? Oppure, saremmo
disposti a considerare come diritto l’ordinamento che, paradossalmente,
proclamasse espressamente di fondarsi sull’ingiustizia? Se sì, allora
saremmo pronti a ridurre la giustizia a pura e semplice legalità ed a
considerare “stati di diritto” quelli in cui i giudici applicano leggi,
anche se emanate apposta per “legittimare” l’arbitrio dei potenti. Per
esempio come avvenne nel regime nazionalsocialista, considerato “stato
di diritto” là dove le sue vittime avrebbero probabilmente ritenuto più
adeguata la qualifica di “stato di delitto” (G. Radbruch).
Nella realtà dell’amministrazione della giustizia, anche là dove
è stabilito che il giudice è soggetto solo alla legge, la quotidiana
interpretazione della legge si raccorda alle sempre mutevoli esigenze
regolative della società. Questa interpretazione evolutiva può essere
intesa come la manifestazione di quella inestirpabile connessione tra
ciò che è posto e il suo presupposto. Se non fosse così, l’interpretazione