estetiche, simbolistiche e mistiche che circolavano per l’Europa durante la seconda metà del
secolo.
1
Conti svolse il compito di elaborare le fondamentali teoriche della rinascente tragedia moderna, di
promuoverla e di sostenerla come un progetto valido a far rinascere il teatro all’alba del nuovo
secolo.
Conti, come D’Annunzio, si scagliava violentemente contro il teatro esistente in Italia sia di prosa
sia di musica ed in particolare contro quello lirico-verista.
Secondo entrambi la rinascita della tragedia italiana poteva avvenire solo sotto gli auspici di quella
che Valentina Valentini
2
ha definito la triade: 1) Grecia, 2) Wagner e 3) Mallarmè. Infatti, solo il
modello elaborato dai Greci, la potenza della tragedia espressa da Wagner e le riflessioni sulla
pittura e sulla poesia elaborate dai simbolisti, (di cui Mallarmè fu un importante punto di
riferimento) potevano costituire gli elementi portanti per un cambiamento radicale.
1) Conti e D’Annunzio sostenevano che il poeta doveva immergersi in un mondo mitico e
primordiale e per farlo non poteva che far riferimento al modello della tragedia greca.
L’obiettivo che si era posto D’Annunzio era quello di resuscitare l’arte del passato che la decadenza
borghese aveva svilito a favore dell’utilità e del guadagno.
“..l’opera drammatica resta tuttavia la sola forma vitale con cui i poeti possano manifestarsi alla
folla e darle la rivelazione della Bellezza, comunicarle i sogni virili ed eroici che trasfigurano
subitamente la vita. Sarà gloria del poeta, risollevare quella forma alla dignità primitiva,
infondendole l’antico spirito religioso”.
3
In una lettera a Conti D’Annunzio riassume così l’esperienza della tragedia greca: “assenza di
azione in scena”, “l’azione è sempre extra, è sempre raccontata, rappresentata dalla parola e dal
ritmo”, “recitativo, declamazione accompagnata alla musica”, “apparizione della danza”,
“sentimento musicale che circola in tutta l’opera, dal primo all’ultimo grido.”
4
Spinto dalla necessità di riprendere il dramma greco, D’Annunzio sentì l’esigenza di visitare la
Grecia: è del 1895 il primo viaggio sul panfilo “Fantasia” dell’amico Scarfoglio.
Entusiasta del viaggio, al ritorno D’Annunzio concluse La città morta, un’opera che rispettava
rigorosamente le tre unità ed era definita dall’autore una ‘tragedia moderna’, nel senso che faceva
riferimento alla tragedia greca adattandola ai tempi moderni.
2) Nel 1893 apparvero sulla “Tribuna”, giornale del periodo, alcuni articoli scritti da D’Annunzio
intitolati “Il caso Wagner”, in cui lo stesso si opponeva alle critiche che Nietzsche aveva rivolto
a Wagner ed alla sua opera.
La difesa di Wagner, alla luce degli sviluppi successivi, si legge innanzitutto come una difesa della
possibilità di comporre un testo che abbia valore autonomo, al di là dell’apparato spettacolare,
D’Annunzio rimarrà un estimatore del lavoro di Wagner e delle sue opere.
D’Annunzio reagì soprattutto contro una delle accuse che Nietzsche aveva rivolto a Wagner e cioè
la necessità di incarnare il carattere decadente del secolo egli evidenziò che la scelta di utilizzare
come strumento espressivo il teatro rispondeva per l’artista moderno all’istanza di rispecchiare il
1
N. LORENZINI, Note al ‘Fuoco’, in G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, Milano, Oscar Mondadori,
1996, pag.341.
2
V. VALENTINI, La tragedia moderna e mediterranea, Milano, Franco Angeli, 1992, pag.39.
3
G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, cit., pag.90.
4
Lettera di D’Annunzio ad Angelo Conti, maggio 1898, in V. VALENTINI, La tragedia moderna e
mediterranea, cit., pag.31.
suo tempo rappresentandone le contraddizioni e le aspirazioni, il che significava in sostanza di non
perdere il contatto con il pubblico.
5
D’Annunzio non provava simpatia per gli spettacoli eccentrici, riservati ad un’élite o ad un gruppo
di intellettuali, amava invece gli allestimenti grandiosi, con un elevato numero di repliche, a
contatto con platee straripanti.
D’Annunzio, però, non prendeva Wagner come esempio da seguire; il suo ruolo era quello di
puntare alla “rinascenza della tragedia mediterranea”, espressione dell’originario carattere della
razza latina, da contrapporre al modello proposto da Wagner da egli definito “barbaro”.
Anche queste teorie sono riprese nel Fuoco, attraverso i dialoghi fra il dottor Mysticus e Stelio
Effrena.
“L’opera di Riccardo Wagner - egli rispose - è fondata sullo spirito germanico è d’essenza
settentrionale. La sua riforma ha qualche analogia con quella tentata da Lutero. Il suo dramma non è
se non il fiore supremo della stirpe, non è se non il compendio straordinariamente efficace delle
aspirazioni che affaticarono i sinfoneti e dei poeti nazionali, dal Bach al Beethoven, dal Wieland al
Goethe. Se voi immaginaste la sua opera sulle rive del Mediterraneo, tra i nostri chiari olivi; tra i
nostri lauri svelti, sotto la gloria del cielo latino, la vedreste impallidire e dissolversi.”
6
L’esempio probante della supremazia dello spirito latino su quello germanico e della continuità
della tradizione classica nella cultura mediterranea è costituito, per D’Annunzio, dai madrigalisti
della camerata fiorentina dei Bardi. Unire nell’azione teatrale la polifonia vocale o strumentale con
la declamazione monodica è la via indicata dai madrigalisti fiorentini, che non sacrificavano la
parola alla musica, ma cercavano l’integrazione.
Nel terzo dei suoi articoli su “Il caso Wagner” nel 1983 D’Annunzio sostiene che “soltanto alla
musica è dato esprimere i sogni che nascono nelle profondità della malinconia moderna, i pensieri
indefiniti, [..] tutti i turbamenti più oscuri e più angosciosi”
7
, ma soli quattro anni dopo egli riteneva
la parola, la sua nuova parola pronta ad esprimere questi turbamenti, i desideri indefiniti, le
disperazioni inconsolabili.
Il difetto del dramma di Wagner, invece, era quello di non saper riconoscere alla parola tutto il suo
valore
8
; Wagner aveva cercando infatti di raccontare il sentimento nella lingua assoluta dei suoni ed
aveva raggiunto il suo limite.
3) Altro riferimento per la fondazione di questa nuova tragedia sia per Conti sia per D’Annunzio
rimase Stephane Mallarmé.
Conti compì un itinerario ideologico analogo a quello della poetica simbolista; nella Beata riva, la
sua opera più importante, Schopenauer viene associato a Walter Pater, a Carlyle e a Wagner, cioè
agli stessi autori che vengono assimilati dai simbolisti francesi.
9
D’Annunzio riprende allora da Mallarmé l’elemento in cui Wagner era manchevole: la nuova
rivalutazione della parole. Aveva sognato di penetrare nelle oscure sublimità del linguaggio sonoro,
di riprendere “tout l’appareil”, senza il tumulto delle sonorità per restituirlo alla poesia, che, così
integrata, sarebbe stata in grado di riassumere, con vigore espressivo, l’originaria virtù lirica.
10
5
V. VALENTINI, La tragedia moderna e mediterranea, cit., pag.29.
6
id., cit., pag.92-93.
7
G. D’ANNUNZIO, Il caso Wagner, in “La Tribuna”, 9 agosto 1893, in V. VALENTINI, La
tragedia moderna e mediterranea, cit., pag.77.
8
V. VALENTINI, La tragedia moderna e mediterranea, cit., pag.36.
9
id., cit., pag.40.
10
L. MAGNANI, D’Annunzio, Mallarmé e la musica, in E. MARIANO (a cura di) D’Annunzio e il
simbolismo europeo, Milano, Saggiatore, 1976, pag.152.
Mallarmé proponeva l’uso del verso libero, per la disponibilità a creare ritmi variati e capaci di
adattarsi alla società moderna e per la possibilità di esprimere la soggettività.
Mallarmé ebbe chiara coscienza (come poi D’Annunzio) di quanto il linguaggio si fosse
impoverito; per lui era necessario vivificare la parola abbassata alla funzione di moneta di scambio,
ridonarle la virtù lirica già a lei consustanziale, trasferitasi nella musica e diventata suo retaggio.
11
Spetta alla parola l’assoluta supremazia tra i linguaggi, ma a patto che si tratti di un verbo poetico
capace di riprendere quell’essenza della musica che è costituita dal mistero del ritmo. Il ritmo
dovrebbe fungere da asse portante della nuova tragedia mediterranea, ritmo che è dato
dall’alternanza del suono con il silenzio.
Il punto di maggiore energia nella rappresentazione non era costituito dall’attimo in cui si realizzava
la presenza simultanea di musica, parola, gesto e movimento, ma dall’attimo del silenzio, silenzio
che sopraggiungeva ad azione conclusa e silenzio che preparava una nuova azione.
“E hai mai pensato che l’essenza della musica non è nei suoni? – domandò il dottor mistico- essa è
nel silenzio che precede i suoni e nel silenzio che li segue. Il ritmo appare e vive in questi intervalli
di silenzio. [..] Il ritmo è il cuore della musica, ma i suoi battiti non sono uditi se non durante le
pause dei suoni. [..] Infatti immagina l’intervallo tra due sinfonie sceniche in cui tutti i motivi
concorrano ad esprimere l’essenza interiore dei caratteri che lottano nel dramma, a rivelare il fondo
intimo dell’azione [..] Quel silenzio musicale, in cui palpita il ritmo, è come l’atmosfera vivente e
misteriosa ove soltanto può apparire la parola della poesia pura. Le persone sembrano quivi
emergere dal mare sinfonico come dalla verità stessa del celato essere che opera in loro.”
12
D’Annunzio, come Mallarmé, aveva evidenziato ne Il Fuoco, attraverso le parole di Stelio Effrena,
com'è nel silenzio che l’opera musicale si spoglia della sua materia sensibile, rinasce nello spirito e
strappa alla morte ciò che nel silenzio si spegne.
13
Sarà in quei vuoti apparenti, tra sinfonia e sinfonia, che Stelio Effrena evocherà alle soglie del
mondo visibile, le immagini della sua fantasia. Sarà in quel silenzio musicale, ove ancora sembra
palpiti il ritmo, che egli inserirà la poesia, incessante anelito alla condizione di musica, al canto in
cui sfocia e si placa alla fine dell’episodio tragico.
14
L’arte moderna, secondo Conti e D’Annunzio (in particolare il teatro) deve contemperare nello
stesso tempo le qualità dell’evidenza e quelle del mistero, quelle del disegno e del colore, la parola
deve possedere le qualità della pittura e della musica.
15
E’ il tentativo di andare oltre il wagneriano Wort-Tondrama, di creare un nuovo dramma in cui la
parola, grazie al “ritmo” e al “silenzio, riesca a farsi portatrice degli stessi valori musicali.
Ciò che D’Annunzio omette decisamente nelle sue teorizzazioni è il dramma borghese che
dominava la scena teatrale di quel periodo. Si tratta di una dichiarazione polemica che investe tutto
il significato del teatro di D’Annunzio.
Egli voleva un teatro mitico, per sfuggire ai condizionamenti della scena quotidiana, per scavare un
abisso tra i propri luoghi privilegiati e il salotto borghese, le cui sole devianze consentite erano le
combinatorie adulterine, nel gusto per il risparmio emotivo interrotto, solo dallo sfogo delle scene
madri, con i crolli, i perdoni, le rotture irreparabili.
In nessuno dei suoi drammi D’Annunzio riuscì a mettere in pratica tutte queste teorizzazioni ma si
deve ammettere che il poeta ricercò ostinatamente il concorso della musica per la parola
11
id., cit., pag.153.
12
G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, cit., pag.165-166.
13
id., cit., pag.61.
14
id., cit., pag.157-158.
15
V. VALENTINI, La tragedia moderna e mediterranea, cit., pag.22.
drammaturgica e la collaborazione dei musicisti per lo spettacolo. La musica non manifesta quel
carattere di necessità che le è attribuito in sede di poetica, bensì sembra contribuire all’intento di
evocare sulla scena un clima drammatico, a cui concorrono in eguale misura tutte le componenti del
linguaggio teatrale.
16
L’influenza di D’Annunzio sul nostro teatro è stata sicuramente più ampia di quanto non faccia
supporre la scarsa fortuna delle sue opere che, nei primi decenni del secolo, avevano calamitato
l’attenzione delle platee nostrane, ma sulle quali grava ancora un pesante retaggio di preconcetti di
varia natura, non escluse le scelte politiche del poeta.
Sicuramente bisogna riuscire a liberare i testi di Gabriele D’Annunzio dall’ipoteca di un
inquadramento nella sola storia italiana e bisogna annetterli decisamente nell’area europea.
Collocare le idee di D’Annunzio sul teatro nell’ambito delle riflessioni sul teatro moderno che
coinvolse i riformatori della scena europea, significa inserirle in un contesto teorico ed estetico
vasto abbastanza da sottrarle a definizioni che annullano la loro ricchezza problematica.
Allo stesso tempo si rende necessario uno studio delle condizioni tipicamente italiane dello
spettacolo con le quali il poeta si trovò ad operare.
Ciò non significa però, l’assimilazione del pensiero teatrale di D’Annunzio all’interno del contesto
fenomenologico delle avanguardie storiche, rispetto alle quali D’Annunzio restò distante ed
estraneo, nonostante vi siano aspetti comuni ed idee precorritrici.
Implica, se mai, una prospettiva necessaria per non semplificare una vicenda che ascrive il suo
interesse storiografico proprio alla sua complessità.
17
16
P. BOSISIO, Gabriele D’Annunzio: la regia teatrale e l’allestimento scenico, in Gabriele
D’Annunzio: grandezza e delirio nell’industria dello spettacolo, Atti del convegno internazionale,
cit., pag.162.
17
id., cit., pag.10.
2. UN TEATRO AL FEMMINILE
2.
Quindici sono le opere teatrali scritte da D’Annunzio: La Città morta, Sogno di un mattino di
primavera, Sogno di un tramonto d’autunno, La Gioconda, La Gloria, Francesca da Rimini, La
Figlia di Iorio, La Fiaccola sotto il moggio, Più che l’amore, La Nave, Fedra, Le martyre de Saint
Sébastien, La Pisanelle, Il Ferro.
Escludendo Le Martyre de Saint Sébastien per l’ambiguità del suo protagonista, che é stato
praticamente sempre interpretato da donne (solamente due i San Sebastiani di sesso maschile:
Bruno Walkowitch nel 1988 e Aldo Reggiani del 1994
18
), troviamo già sei titoli che dichiarano la
donna come protagonista. Nei due Sogni la parte maschile é praticamente assente, per gli altri
basterà cercare l’elenco delle dramatis personae per notare quanto lunga é la lista delle eroine in
D’Annunzio. I personaggi maschili assumono un ruolo rilevante in due soli drammi: Più che
l’amore e La Gloria.
Emilio Mariano ha suddiviso le opere drammaturgiche in base alla definizione che D’Annunzio ha
dato nel Fuoco:
“Il dramma non può essere se non un rito o un messaggio [...] bisogna che la rappresentazione sia
resa nuovamente solenne come una cerimonia, comprendendo ella i due elementi costitutivi di ogni
culto: la persona in cui si incarna sulla scena come dinanzi all’altare il verbo di un Rivelatore: la
presenza della moltitudine muta come nei templi”
19
Emilio Mariano ha suddiviso le opere di D’Annunzio in base a questa definizione, intendendo per:
“Messaggio: la comunicazione di valori che portano ad elencare le ragioni del vivere e l’assoluto
prevalere che assume la necessità di una simile comunicazione.
20
”
Per cui, secondo questo autore, rientrano in questa definizione solamente due drammi: Più che
l’amore e La Gloria.
E, riguardo all’altro termine:
“Rito: la rappresentazione in se stessa dei miti naturali, oppure dei miti al di fuori e al di sopra
dell’uomo, senza che la necessità della comunicazione prevalga sulla interiore necessità di
rappresentare
21
”
Le opere che corrisponderebbero a questa definizione sono: Francesca da Rimini, La fiaccola sotto
il moggio, La figlia di Iorio e Fedra.
Ci sono infine, sempre per Mariano, alcune tragedie che uniscono messaggio e rito: La Gioconda,
La Città morta, Il Ferro e La Nave.
18
G. ANTONUCCI, Introduzione, in G. D’ANNUNZIO, Tutto il teatro, Roma, Newton Compton,
1995, pag.4.
19
G.D’ANNUNZIO, Il Fuoco, cit., pag. 92.
20
E. MARIANO, Il teatro di Gabriele D’Annunzio, in “Quaderni del Vittoriale”, sett.-ott. 1978,
pag.14.
21
id., pag.15.
Il teatro del messaggio, sempre secondo Mariano, agisce nella categoria Storia e si avvicina in
maniera maggiore ai romanzi di D'Annunzio.
Le situazioni del teatro di rito conquistano invece spazi nuovi, il loro orizzonte è costituito dal
Sacro e dalla Natura.
Le situazioni drammatiche che appartengono alla serie del “teatro rito” acquistano degli spazi nuovi
che rendono i gesti “probabili” mentre nelle situazioni del “teatro messaggio” il protagonista non
riesce ad assurgere fino al ruolo dell’eroe perché ha paura della Storia e dell’improbabilità del gesto
tragico.
22
Il personaggio maschile dannunziano, quale lo conosciamo attraverso le sue opere narrative, é
tormentato dal dubbio, concentrato in riflessioni sul proprio io, negato all’azione. E’ insomma un
anti-eroe che non possiede verità assolute e non può quindi proporre soluzioni definitive.
Il protagonista maschile nei drammi non riesce ad assurgere al ruolo di eroe perché ha paura
dell’improbabilità del gesto tragico e lo dimostra nel caso di Più che l’amore e della Gloria.
Il saggio di Barberi Squarotti La tragedia impossibile di Corrado Brando approfondisce questa
tematica sottolineando come la tragedia Più che l’amore è stata interpretata focalizzandosi sulla
celebrazione del mito del super-uomo, in realtà tocca temi molto più complessi che riguardano
l’idea e la possibilità del tragico nell’ambito della società borghese. Barberi Squarotti sottolinea
come:
“E’ destino caratteristico degli eroi delle “tragedie moderne” del D’Annunzio di essere sempre
determinati da moventi umilianti, bassi, che li demoliscono nella loro condizione tragica, li
sviliscono, li dimostrano improbabili ed improponibili come esempi di opposizione radicale alla
negatività del mondo, della società, delle cose.”
23
Il super-uomo dannunziano si trova a combattere con le proprie debolezze, i vizi inconfessati e
mistificati, la propria capacità ad instaurare un rapporto normale con gli altri.
D’Annunzio mantiene in primo piano i personaggi maschili in questi due drammi dove rimane
predominante la Storia mentre, quando sposta il suo interesse sul Sacro e sulla Natura, a dominare
sono le donne.
Sono le donne a diventare veicoli delle sue idee. La donna, concepita come creatura alògica,
totalmente immersa nella vita istintiva, posseduta da fedi ancestrali o da passioni incandescenti, è
l’unica nell’orizzonte dannunziano a poter assumere le caratteristiche dell’eroe mitico.
24
Queste donne possiedono una volontà molto forte anche se non univoca: in alcuni casi è di fermare
e di piegare gli altri, in altri è di affermare se stesse, o di appurare una realtà o di donarsi. Ma è per
tutti una traccia inderogabile che essi percorrono fino in fondo, senza alcuna prudenza o reticenza,
senza temere mai di compromettersi. Si tratta di un’eroicità terribile e spesso suicida, suicido che
può assumere un valore sacrale, di sacrificio massimo o di offerta suprema.
I personaggi che D’Annunzio delinea sono molto chiari, mai mentitori, sia che siano tristi, affranti,
sconfitti, pieni di insoddisfazione sia che rechino le loro gioie, le loro vittorie, le loro conquiste, essi
non cambiano mai le carte in gioco.
25
Alcuni autori si sono limitati a classificare tutte queste eroine in un’unica tipologia definita per
l’appunto Donna dannunziana. Una donna che corrisponde alla descrizione fatta da Mario Praz, che
22
id.
23
G. BARBERI SQUAROTTI, Il gesto improbabile, Palermo, Flaccovio ed., 1971, pag.141.
24
L. E. CHOMEL, Un teatro al femminile, Ravenna, Longo ed., 1997, pag.45.
25
O. BERTANI, L’elemento religioso nel teatro di D’Annunzio, in “Quaderni del Vittoriale”,
novembre-dicembre 1980.
seguirebbe il filone della belle dame sans merci e che avrebbe riferimenti importanti in Gauthier,
Flaubert e Swinburne a cui D’Annunzio si sarebbe variamente ispirato.
26
Sicuramente questa è una delle tipologie, (all’interno del mio lavoro viene rappresentata dalla figura
di Basiliola), ma non é l’unica.
Altri autori hanno diviso i personaggi femminili in due categorie contrapposte e lontanissime, da un
lato c’è Salomé, l’ambigua seduttrice con il suo potere di femmina sensuale, dall’altro c’è la
vergine, immagine di purezza e di spiritualità, devota agli affetti e ai doveri familiari. Elena Muti e
Maria Ferres del Piacere sono le prime di una serie di figurazioni femminili che, pur con le loro
varianti ripropongono lo stesso tema prima nei romanzi e poi nei drammi.
La critica attuale é orientata in tutt’altra direzione, sottolineando come ogni schematizzazione o
divisione di questo tipo risulta riduttiva e che molte delle donne descritte da D’Annunzio sono
personaggi ricchi e sfumati che meritano una lettura attenta ed approfondita.
27
2.1 GLI ELEMENTI NATURALI
Costante nei drammi dannunziani e strettamente collegata ai personaggi che vengono descritti
troviamo la presenza della Natura:
“E’ una Natura mutevole e consolante che il poeta compone minuziosamente e la contempla
estatico come il pittore si allontana dal quadro per cogliere l’assieme, ma non le lascia un ruolo di
mera decoratività, bensì la fa partecipe dei casi, trasecolante a seconda degli eventi. E’ una
scenografia che è anche ambiente per il vivere umano.
Gli uomini sono una realtà naturale ed essa è con loro, respira con loro, si presta a loro. [… In
questa scelta di grandi spazi si verifica una alternativa alle contemporanee e anonime stanze
borghesi. L’eccezionalità delle stanze è spesso anche un distacco, nel tempo, con tutte le possibili
implicazioni del favoloso, del magico, dell’incubo.
Accanto ed oltre a questa simbiosi sentimentale in una notevole parte dell’opera teatrale
dannunziana trova posto un rapporto con la Natura che solo un abruzzese poteva conoscere e
portarci. E’ la natura di una terra conservatrice di miti, sempre in ascolto della propria profondità,
gelosa di pratiche magiche, credente in “virtù trasmissibili”.”
28
Uno dei primi tentativi drammaturgici del D’Annunzio è stato il Sogno di un mattino di primavera
dove la Natura riveste un ruolo determinante ed il paesaggio diviene essenziale presenza. Un valore
psicologico, oltre che cromatico e sensitivo, assume il giardino in cui si muove Isabella che lo
ritiene il suo rifugio e che sostiene di essere diventata a sua volta espressione della Natura:
“Io non sono Isabella. Le cose verdi mi hanno presa per una di loro. Esse non hanno più paura di
me...non vi aspettavano nel bosco. Credevano che voi passaste l’uno a fianco dell’altra, parlando
della vostra felicità....”
29
26
M. PRAZ, La carne. la morte, il diavolo, Firenze, La cultura ed., 1930, cap. IV.
27
Mi riferisco, ad esempio, alle opinioni di E. MARIANO, Il teatro di Gabriele D’Annunzio, cit.;
G. BARBERI SQUAROTTI, Il gesto improbabile, cit.; L. E. CHOMEL, D’Annunzio, un teatro al
femminile, cit.
28
O. BERTANI, L’elemento religioso nel teatro di D’Annunzio, cit.
29
G. D’ANNUNZIO, Sogno di un mattino di primavera, in Tutto il teatro, 5, cit., pag.20.
Isabella viene descritta come de-mente, termine attribuito a chi ha voluto allontanarsi dalla mente
razionale per riuscire a liberare le forze del suo inconscio. Isabella ha voluto allontanarsi dalla
logica umana per rinascere nella vita più vasta della Natura.
Alla visione del sangue del delitto e del verde della Natura, il rosso si associa al verde come il
passato al presente, la rievocazione dell’episodio tragico con la speranza della rinascita grazie alla
forza benefica della natura. Se ne ricava un’armonia fra le due scene e fra i due colori così come i
due stati d’animo non sono in contrapposizione ma sfumano l’uno nell’altro, velati dal senso
d’irrealtà in cui la Demente si muove, fra ricordo e proiezione, al limite del cancello che separa il
giardino dal bosco, il coltivato dal selvaggio.
30
Anche Virginio sembra aver subito la trasformazione che ha subito anche Isabella:
“Egli non aveva l’aspetto di una persona umana, ma sembrava un genio della foresta, una creatura
ferina e dolce nutrita coi succhi di quelle radici che le maghe infondono nei filtri d’amore. Le sue
vesti strappate e i suoi capelli sconvolti erano sparsi di foglie, di bacche, di pruni, come s’egli si
fosse difeso con ira dalla forza allacciante dei rami. Anelava e tremava sotto lo sguardo di Isabella,
e si contraeva come per sprofondarsi nella terra selvaggia.”
31
Commenta Renato Barilli come “..pochi artisti si sono spinti tanto avanti quanto il D’Annunzio, nel
rendere quell’obbiettivo di compenetrazione totale con la vita vegetale che offrì uno dei più
suggestivi traguardi di tutta la stagione simbolista, i cui risultati, soprattutto in materia di arti visive,
furono il fitomorfismo, il florealismo, il culto dell’evergreen, il sempre verde.”
32
Già questo primo esempio ci evidenzia l’importanza attribuita alla natura ed ai fenomeni naturali da
questo autore.
E la presenza della Natura nei suoi drammi è rimasta una costante fino al Ferro, l’ultimo dramma
scritto da D’Annunzio dove tutti i personaggi si muovono nell’ambiente stregato della parola e della
musica, con continui riferimenti alla vita acquatica ed arborea, alle presenze cosmiche invocate a
sinfonizzare anche le più private loro reazioni, interne ed esterne alla scena.
D’Annunzio nel Fuoco afferma:
“E nel mezzo della musica, della danza e del canto lirico creo intorno ai miei eroi un’atmosfera
ideale in cui vibra tutta la vita della Natura, così che in ogni atto sembrino convergere non soltanto
le potenze dei loro destini prefissi ma pur anche le più oscure volontà delle cose circostanti, delle
anime elementari che vivono nel grande cerchio tragico, perché vorrei che, come le creature di
Eschilo portano in loro qualcosa dei miti naturali ond’escirono, le mie creature fossero sentite
palpitare nel torrente delle forze selvagge, dolorare al contatto della terra, accomunarsi con l’aria,
con l’acqua, col fuoco, con le montagne, con le nubi nella lotta patetica contro il Fato che deve
essere vinto, e la Natura fosse intorno a loro quale fu veduta dagli antichissimi padri: l’attrice
appassionata di un eterno dramma.”
33
Questo breve passo risulta fondamentale per l’interpretazione dei drammi dannunziani, già
nell’esempio citato del Sogno la Natura sembra essere diventata veramente l’attrice appassionata del
dramma che Isabella ha attraversato, capace di comprenderla e di aiutarla.
30
V. VALENTINI, La tragedia moderna e mediterranea, cit., pag. 42.
31
G. D’ANNUNZIO, Sogno di un mattino, cit., 2, pag.9.
32
R. BARILLI, D’Annunzio in prosa, Milano, Mursia, 1993, pag.149.
33
G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, cit., pag.167.
D’Annunzio esprime un’intuizione originale, anche se non pienamente chiarita e consapevole, della
persona umana, dei legami che oscuramente la prolungano nella vita della Natura e con essa
misteriosamente la identificano.
34
Isabella non è l’unico caso in cui questo fenomeno si verifica, anche le altre eroine dannunziane
mostrano uno stretto legame con la Natura, un legame doppio, poiché la Natura le circonda ma non
solo, esse infatti possono essere accomunate con l’acqua, il fuoco, l’aria e le montagne, inoltre in
esse troviamo la lotta patetica con il Fato che deve essere vinto.
Questi sono dunque gli elementi a cui D’Annunzio fa costante riferimento; le montagne, l’acqua, il
fuoco ed il cielo.
2.1.1 LA MONTAGNA
Il secondo atto della Figlia di Iorio è ambientato in montagna, ci troviamo infatti nella grotta dove
si sono rifugiati Mila ed Aligi: questo risulta un particolare molto importante. E’ infatti l’unico
momento all’interno della sua drammaturgia in cui D’Annunzio presenta i protagonisti in montagna
anche se altri luoghi avevano in precedenza assunto un significato simile.
Egli presenta nei romanzi, infatti due ambienti: uno dove comincia l’azione e l’altro dove si cerca
rifugio sperando di guarire nell’anima e nel corpo: è così, ad esempio, nel Piacere dove il
protagonista, fiaccato dalla profonda ferita subita nel duello, decide di rifugiarsi in campagna. In
Forse che sì, forse che no la storia si sviluppa fra Marina di Pisa e Volterra, la prima, connotata in
maniera positiva, come rifugio tranquillo e sereno, la seconda, presentata in maniera negativa,
circondata da luoghi primitivi e selvaggi, abitata da folli e carcerati, ben si adatta ai personaggi che
vengono presentati.
35
La montagna ha una connotazione fortemente positiva, viene presentata come via di salvezza, icona
di riscatto e di redenzione. In opere precedenti alla Figlia D’Annunzio l’aveva già fatta vedere
come un riferimento rimirato e vagheggiato da lontano, ma senza raggiungerlo.
Se nella drammaturgia non troviamo altri episodi che si svolgono in montagna questo accade invece
nei romanzi; nelle Vergini delle rocce, appena arrivato in città, Claudio Cantelmo rivolge il suo
sguardo verso la montagna:
“La catena rocciosa con le cime frastagliate e aguzze, piegava a destra, lambita dal Saurgo
serpentino, sollevandosi a grado a grado verso il massimo culmine del monte Corace che scintillava
al sole come un elmetto.”
36
La conclusione del romanzo si svolge proprio sul monte, finalmente lontano dalla casa piena di
disgrazie e di ricordi tristi, ed è proprio sul monte che Claudio decide di rivelare ad Anatolia le sue
intenzioni:
“La cima del Corace insorgeva contro il cielo nuda e acuta come un elmetto, inclinata alquanto
verso austro e il tramite per giungervi correva lungo la costola ripida, angusta quasi come uno
scrimolo, ond’erano spariti nettamente i due pendii.”
37
34
G. GETTO, La città morta, in Tre studi sul teatro, Caltanisetta-Roma, Sciascia ed., 1976,
pag.172.
35
R. CASTAGNOLA, Introduzione, in G.D’ANNUNZIO, Forse che sì, forse che no, Milano,
Mondadori, 1998, pag. XXXVII.
36
G. D’ANNUNZIO, Le vergini delle rocce, Milano, Mondadori, 1991, pag.64.
37
id., cit., pag.173.
Già nella Città morta troviamo un richiamo al significato simbolico che assumono le montagne. Dal
balcone della sua stanza, Alessandro osserva le montagne lontane ed il loro profilo netto e puro gli
ricorda il tempo della serena comunanza con la sorella.
“ALESSANDRO: Guarda il colore ed il lineamento delle montagne sul cielo! Ogni volta che io le
guardo; la sera, faccio un atto spontaneo di adorazione verso la loro divinità. In nessuna terra, come
in questa, si sente quel che v’è di sacro nell’aspetto delle montagne lontane. E’ vero?
LEONARDO: Bisogna pregare le montagne che sono pure.
ALESSANDRO: Come sono pure, stasera!”
38
Questa tematica nella Figlia di Iorio diventerà un tema dominante: la scansione di orizzontale e
verticale che contrappone la pianura fermentante di sangue e di sesso alla montagna come luogo di
salvazione.
39
E’ la stessa anche per Giorgio Aurispa ne Il trionfo della morte che, nella speranza di una
guarigione ad opera dell’amata, si muove alla ricerca di un eremo per rimanere solo con lei. In
queste due situazioni i personaggi sono alla ricerca di un rifugio, ma non si trova in montagna, che
però rimane come sfondo alle vicende:
“Egli aprì le imposte, provando un gran bisogno di respirare l’aria della notte, si appoggiò alla
ringhiera [..]. Un’immensa pace regnava nella valle sottostante; e la Majella, tutta ancora candida di
nevi, pareva ampliare l’azzurro del suo solenne lineamento.”
40
“La Majella era inerte e glaciale come uno di quei promontori solenni che il telescopio avvicina alla
terra.”
41
“..si affacciò a uno di quei balconi . Vide la Majella tutta rosea nel tramonto, enorme e delicata, in
un cielo verdastro.”
42
Giorgio Aurispa, nei momenti di sconforto e di turbamento, si rivolge alla montagna nella ricerca
della pace e della tranquillità.
La natura forte dell’Abruzzo, caratterizzata dalle presenze essenziali del mare e della Majella,
costituisce un elemento salvifico per Giorgio, ma non riesce ad eliminare i tormenti che travagliano
il suo animo. Data l’avversione che ormai prova per Ippolita, ma in contemporanea,
nell’impossibilità di riuscire a staccarsi da lei, Giorgio non trova altra soluzione che la morte.
In questo caso il discorso è collegato direttamente alla Majella e quindi alla stessa montagna
protagonista della Figlia di Iorio.
Anche la Montagna, come i rifugi cercati in precedenza, si rivela un fallimentare locus amenus, non
è sufficiente a risolvere i problemi dei protagonisti perché non viene mantenuta pura.
Nella Figlia di Iorio, dalla scena sesta del secondo atto, troviamo i segni evidenti della sua
contaminazione: l’arrivo di Lazaro, la violenza e il sangue.
38
G. D’ANNUNZIO, La città morta, in Tutto il teatro, cit., II,4, pag. 84.
39
U. ARTIOLI, Il combattimento invisibile, Bari, Laterza, 1995, pag.100-101.
40
G. D’ANNUNZIO, Il trionfo della morte, Milano, Treves, 1921, pag. 53.
41
id., cit., pag.87.
42
id., cit., pag.95.
2.1.2 IL FUOCO
All’inizio del Fuoco Stelio Effrena, pone l’accento su due elementi della natura: il fuoco e l’acqua,
i due elementi primordiali:
“Il fuoco e l’acqua, i due elementi primordiali, passarono su tutte le cose, cancellarono ogni segno,
si diffusero, errarono, lottarono, trionfarono, favellarono, ebbero un verbo, ebbero un linguaggio per
rivelare la loro intima essenza, per raccontare i miti innumerevoli ch’eran nati dalla loro eternità.”
43
Il fuoco indica la trasformazione, la purificazione, il movimento. E’ collegato al potere generativo e
unificante del sole, é rinnovamento della vita, fecondazione, potere ed energia.
44
Elemento di distruzione per eccellenza, ma anche capace di illuminare e di riscaldare.
La prima morte per fuoco negli scritti dannunziani è quella presentata, all’interno delle Novelle
della Pescara, in La morte del duca d’Ofena: la vicenda si conclude infatti con l’incendio della casa
e la morte di tutti i componenti della famiglia.
45
Tutti i mobili, gli oggetti preziosi e raffinati trovano una fine adeguata poiché tutta la bellezza
antica viene distrutta dall’azione miracolosa e spettacolare del fuoco che la salva dal pericolo del
contatto plebeo dei contadini in rivolta. La fiamma che salva dalla degradazione il palazzo, lo
distrugge ma fornisce anche l’ultima occasione di splendore e di incanto.
46
Passando invece ai drammi dannunziani il primo episodio di morte per fuoco è quello contenuto nel
Sogno di un tramonto d’autunno, dove Pantea é avvolta dalle fiamme insieme con il Bucintoro su
cui discende in trionfo il Brenta.
Il fuoco, in questo caso, brucia la meretrice, simbolo dell’ormai decrepita e corrotta Venezia,
insieme con coloro che si sono uccisi davanti a lei.
Anche Francesca viene attratta dalla fiamma ed in particolare modo dalla sua potenza, dal fatto che
non si fermi davanti a niente:
“E’ vero
che arde nel mare?
Anche nei fiumi,
brucia le navi,
brucia le torri,
soffoca, ammorba,
secca repente il sangue
dell’uomo, fa
delle carni e dell’ossa
una cenere nera,
trae dallo strazio
dell’uomo urli di belva
che impazzano i cavalli
e impietrano i più prodi?
E’ vero che calcina
Il macigno, consuma
Il ferro, morde
43
G. D’ANNUNZIO, Il Fuoco, cit., pag.102.
44
CHEVALIER-GHEERBRANT, Dictionnaire des symboles, Robert Laffont, Paris, 1969.
45
E’ di Barberi Squarotti la visione positiva del fuoco nella novella. G. BARBERI SQUAROTTI,
D’Annunzio drammaturgo, in D’Annunzio a cinquanta anni dalla morte., Atti del XI convegno di
studi dannunziani, Pescara, 9-14 maggio 1988, pag. 65.
46
id.
Anco armatura
Di diamante..”
47
Venezia é l’ambientazione de La Nave dove la fiamma che brucia torna ad essere determinante.
Basiliola sceglie la sua morte immergendo il viso sulla fiamma che brucia sull’altare dove si
dovranno recitare le preghiere e le benedizioni per la nave che sta per partire. Basiliola ha avuto la
sua vendetta, il fuoco consacra la lotta che ha dovuto affrontare ed il disegno attuato fino a quando
era possibile.
Anche Mila sceglie la morte e, nel suo caso, le fiamme sono il supremo modo di arrivare alla
purificazione totale, purificazione che diventa trionfo sul popolo di contadini che l’hanno sempre
odiata, maledetta e perseguitata. Mila è rimasta famosa per l’ultima frase da lei pronunciata: “La
fiamma è bella!”.
Gigliola cerca di impugnare la fiamma per dimostrare il suo valore e coraggio contro le tenebre e
l’oscurità, le persecuzioni e le calunnie. Gigliola non potrà assaporare la bellezza della fiamma della
sua fiaccola, non potrà impugnarla contro l’ombra dei vivi per illuminare la verità ed il dolore dei
morti.
C’è un'altra fiamma molto importante oltre a quella della fiaccola, la storia è infatti, ambientata alla
vigilia di Pentecoste, la festa cristiana che celebra la discesa dello Spirito Santo sotto forma di
lingue di fuoco, quello spirito che, detenuto prima dal solo Cristo, riversa i doni sull’intera
comunità. Nella casa dei de Sangro, Gigliola è condannata a perdere perché mette in dubbio il
potere delle lingue di fuoco. Fatta per portare la fiamma, sprofonda alla fine nel buio rinnegando la
sua vera essenza.
48
Tutte e tre le protagoniste del mio lavoro hanno quindi un rapporto stretto con il fuoco, anche se
vengono poi caratterizzate da un secondo elemento naturale che è diverso per tutte e tre.
2.1.3 L’ACQUA
Il significato dell’acqua è ambivalente, dice parole di morte e di vita, piange e ride.
49
E’ una
persuasione di morte, un invito a fare l’ultimo passo e scomparire nell’attrazione verso il profondo
nulla. L’acqua é anche il simbolo delle lacrime ma, dall’altra parte é anche immagine di vita.
Estingue la nostra sete e ci attira per la sua freschezza.
Nella fonte Perseia finisce Bianca Maria, nell’unico luogo d’acqua in mezzo all’estate arsa
dell’Argolide, assassinata dal fratello Leonardo, perché rimanga intatta la purezza che rischia di
perdersi per l’amore di Alessandro, il marito di Anna.
La città morta è una tragedia in cui la presenza o l’assenza dell’acqua divengono determinanti,
molti sono i riferimenti nel testo come ha ampiamente illustrato Getto nel suo saggio.
50
L’acqua che
combatte contro l’arsura, la secchezza ed il calore dell’estate, una stagione caratterizzata dal fuoco.
E, sempre secondo Getto, il fuoco quale elemento primordiale non va disgiunto da quella realtà
metallica dell’oro che tanta parte ha nel mondo delle immagini della tragedia.
51
L’acqua de La città morta é senza dubbio lontana da quella di Più che l’amore e tuttavia é già
incanalata nella direzione che ad essa conduce.
Maria Vesta viene paragonata alla purezza rituale delle acque dal molto discorrere di fiumi e non é
un caso che suo fratello Virginio sia un ingegnere idraulico.
47
G. D’ANNUNZIO, Francesca da Rimini, in Tutto il teatro, cit., II, 2, pag.268.
48
U. ARTIOLI, Il combattimento invisibile, cit., pag.200.
49
G. GETTO, La città morta, cit., pag.193.
50
id.
51
id., pag.215.
Anche il nome di questo personaggio è rilevante, si chiama Maria, nome della Vergine e quindi
puro per definizione, Vesta cioè vestale, custode, ed è in lei che troviamo l’affermazione dell’amore
eroico.
Maria può venire anche associata a Silvia per il suo amore eroico e perché sono le sole protagoniste
della drammaturgia dannunziana ad essere madri
Di fronte al mare si conclude anche la Gioconda. La presenza del mare é il correlativo oggettivo
della condizione di innocenza e dello spirito di sacrificio di Silvia, il rifugio e la sublimazione di
fronte alla situazione che neppure il suo gesto é riuscito a risolvere nel ricostruire la famiglia. Il
paesaggio, in questo dramma, serve come evocazione.
Anche La fiaccola sotto il moggio contiene dei riferimenti all’acqua. Il disfacimento della casata dei
Sangro é correlato con il seccarsi della fontana Gioietta nel giardino del palazzo: non c’è più
l’acqua nella fontana a significare la poca purezza che rimane nella famiglia ormai degradata e
corrotta. La poca acqua che rimane sarà utilizzata per medicare il Serparo ed a Gigliola, che era
l’unica ad essere rimasta pura, non ne rimarrà più.
2.1.4 IL CIELO
Le condizioni atmosferiche sono un fenomeno rilevante negli scritti di d’Annunzio che molto
spesso si è soffermato ad indicare il momento della giornata, la stagione o la condizione
meteorologica del momento che stava descrivendo.
Due di queste indicazioni sono entrate a far parte dei titoli di due drammi e precisamente: Sogno di
un mattino di primavera e Sogno di un tramonto d’autunno. Entrambi cominciano con delle
indicazioni atmosferiche.
Anche nella scena finale di Più che l’amore troviamo un esempio dell’empatia che si può creare fra
il cielo e i personaggi della tragedia. Questo rapporto viene evidenziato attraverso la funzione
drammatica della luce che partecipa della tonalità emotiva del dramma, intensifica con i toni del
rosso e del grigio delle nuvole, il pathos tragico della sconfitta di Corrado Brando che sceglie la
morte. E allora quella città che lo aveva ostacolato ed intrappolato sembra animarsi di un
sentimento di partecipazione per le sorti dell’eroe: “Roma è come una flotta naufragata in un mare
grigio”, dove la luce agonizza.
52
Nel Ferro troviamo due passaggi: la tragedia inizia con uno sprazzo di sole in un pomeriggio
torbido alla fine d’aprile, ma nel primo atto il tempo peggiora fino alla tempesta che si scatena nel
momento in cui Mortella rivela i suoi pensieri e le sue accuse:
“Una nuvola color piombo pende in mezzo al cielo, gravida di pioggia. L’ombra invade a poco a
poco la sala, occupa a poco a poco la sala, occupa l’un e l’altra abside, riempie le nicchie.”
53
Anche nella Gioconda troviamo una correlazione fra i mutamenti del cielo e Silvia, i cambiamenti
repentini del tempo e la sua instabilità sembrano fatti apposta per accrescere l’irrequietezza delle
persone e lo stato di attesa costante.
54
La Nave è una tragedia che viene costellata dalla presenza delle nubi come è stato sottolineato da
Artioli
55
.
52
V. VALENTINI, La tragedia moderna e mediterranea, cit., pag.43.
53
G. D’ANNUNZIO, Il Ferro, in Tutto il teatro, cit., I, pag. 478.
54
Il collegamento fra i cambiamenti del tempo e la Gioconda è contenuto in F. TREBBI,
Figurazioni del femminile sulla scena della ‘Gioconda’, Atti del convegno internazionale, Torino,
Costa & Nolan, 1996, pag.68-72.
55
U.ARTIOLI, Il combattimento invisibile, cit., pag. 209-214.
Il nembo sembra seguire tutti i movimenti di Basiliola. La prima volta lo troviamo quando Basiliola
si sta avvicinando alla Fossa Fuia, indica il potere della malvagità e delle tenebre come aveva
indicato il monaco Traba.
Non appena Basiliola si uccide rispunta il sole.
2.2 I GIARDINI
Oltre che la natura nella sua forma primaria ed originale nelle opere di d’Annunzio appaiono molto
frequentemente i giardini come vere e proprie opere architettoniche in cui la Natura si manifesta in
maniera mediata grazie alle mani dell’uomo. D’Annunzio era molto attento ai tipi di giardini e alle
diverse forme che questi assumevano ed era anche molto preciso nell’indicazione delle tipologie
della vegetazione presenti nei giardini sia pubblici sia privati.
Parchi, giardini o labirinti arborei costituiscono uno dei temi più frequenti dell’opera dannunziana.
Il rapporto fra giardino e personaggio che lo visita e anche tra giardino e l'io poetico che lo inventa,
sono talmente insistenti ed insistiti che l’immagine si fa spesso simbolo di una determinata
situazione psicologica o di certe vicende esistenziali, per lo più amorose - si pensi allora al famoso
episodio di Strà contenuto nel Fuoco o ai luoghi altamente emblematici contenuti nelle Vergini
delle rocce.
L’arte, che è presente all’interno del giardino non contrasta con la natura, ma la arricchisce e la
continua. Il giardino che D’Annunzio descrive non è mai un luogo dove tutto è perfetto e
risistemato ma si tratta di un giardino decadentistico, un accumulo di elementi tristemente decrepiti.
Il linguaggio poetico dannunziano non pretende più di creare l’illusione di un paradiso intatto, bensì
cerca di propagare l’incanto di un giardino abbandonato, disfatto, cui non siano estranee né la storia
né le passioni umane.
56
I giardini che vengono descritti sono sempre delimitati in maniera molto chiara, questa chiusura ha
due funzioni; impedire a chi è dentro di fuggire e vietare l’accesso a chi è fuori. Ma ogni giardino
ha un cancello, attraverso il cancello si può intravedere il giardino e chi lo abita.
Il primo giardino presente nella sua drammaturgia è quello del Sogno di un mattino di primavera, il
giardino dell’Armiranda, “…intercluso da siepi di cipresso e di bossolo, donde si levano a distanze
eguali densi alaterni tagliati a foggia di urne rotonde”
57
, “E tutte le grazie della primavera novella si
diffondono su l’aspetto austero e triste che creano le forme simmetriche della cupa verdura
perenne”
58
.
C’è un giardino anche nel Sogno di un tramonto d’autunno, che viene delineato come “…immenso
giardino di pompa e di delizia, un pesante corpo di foglie trascolorite, di fiori sfiorenti, di frutti
strafatti, inclinato verso il Brenta con l’abbandono di una creatura voluttuosa e stanca che si inclini
verso uno specchio per rimirare l’ultimo splendore della bellezza caduca”.
59
D’Annunzio, quale profondo conoscitore della storia dell’arte, contrappone i giardini fiorentini a
quelli veneziani; i primi sempre verdi si caratterizzano per la precisione del disegno e della forma, i
secondi, diversi a seconda della stagione, si caratterizzano per le varianti dei colori.
60
Un giardino è presente anche nella Francesca da Rimini e nella Pisanella ed è un giardino pieno di
rose.
56
K. MAIER-TROXLER, “Voi, signora siete per me un giardino chiuso”. Una poetica
dannunziana tra sensualismo ed estetismo, in Natura ed arte nel paesaggio dannunziano, Atti del
convegno di studi dannunziani, Pescara, 29-30 dicembre 1980, pag.116.
57
G. D’ANNUNZIO, Sogno di un mattino di primavera, in Tutto il teatro, cit., pag. 4.
58
id.
59
G. D’ANNUNZIO, Sogno di un tramonto d’autunno, in Tutto il teatro, cit., pag.29.
60
R. ASSUNTO, D’Annunzio, critico di giardini, in Natura ed arte nel paesaggio dannunziano,
Atti del convegno, cit., pag.35.
Un giardino decadente ed abbandonato come la villa di famiglia viene anche descritto nella
Fiaccola sotto il moggio e nel Ferro:
“Dietro gli allori che tonduti a forma di palla sorgono dai grandi orci invetriati fra pilastro e
colonna, il giardino si mostra coi suoi spartimenti orlati di bossolo, senza screzii di fiori, esatto
come un’opera di tarsia, chiuso intorno da altissime siepi di carpini.
61
Tutte le descrizioni dei giardini non sono un elemento solo decorativo per D’Annunzio ma vengono
posti in stretta connessione con i personaggi delle vicende e con le loro sensazioni.
Ad esempio nel momento di crisi Lucio Settala immagina di diventare il giardiniere di un piccolo
giardino:
“Potare i rosai, annaffiarli, liberarli dai bruchi, agguagliare il bossolo con le cesoie, guidare l’edera
su per i muriccioli, in un giardinetto inclinato verso il fiume dell’Oblio; e non più rammaricarmi di
aver lasciato su l’altra riva un glorioso parco popolato di lauri, di cipressi , di mirti, di marmi e di
sogni..Tu mi vedi là, felice con le cesoie lucenti, vestito di bordatino!”
62
La Sirenetta immagina che le mani di Silvia siano state seppellite in un bel giardino.
63
L’analisi fatta fino a questo momento sugli elementi naturali per porli in relazione con i testi
dannunziani non vuole essere una indagine puramente narrativa ma è volta ad analizzare alcuni
punti, che nelle rappresentazioni fatte fino a questo momento non sono stati tenuti in adeguata
considerazione.
Di questi elementi teorici bisogna tenere conto nel momento in cui ci si appresta a mettere in scena i
drammi di D’Annunzio. Per le sue opere D’Annunzio prevedeva i l’impiego di una variegata
partitura plastico-cromatica-coreografica e di un complesso dispositivo scenotecnico.
Per rendere visibile il suo sogno di poesia, nel momento in cui fu lui stesso collaborare alla
realizzazione dei suoi drammi, D’Annunzio concertò i suoi allestimenti muovendo dall’elementare
quanto insopprimibile bisogno del vedere, che è lo specifico dello spettacolo. Questa esigenza lo
aveva già guidato nell’elaborazione della sua drammaturgia –le numerose e analitiche didascalie
rivelano infatti l’assillante preoccupazione della resa scenica. In esse troviamo vere e proprie note
di illuminotecnica, di scenografia e di costumistica.
Per le sue messe in scena D’Annunzio si rivolse anche a nomi noti sia per le scenografie che per i
costumi, collaboratori che diventarono indispensabili per la resa delle sue opere, come Caramba,
Michetti, De Carolis, Marussig, etc.
Per quanto D’Annunzio aborrisse il “finto teatrale”, tuttavia la sua idea di messa in scena era agli
antipodi di quanto teorizzavano Rolland e gli artisti di Darmstandt, che pretendevano un
palcoscenico vuoto, senza macchinario scenico allo scopo di rendere il pubblico sensibile
all’emozione dell’arte.
D’Annunzio amava gli spettacoli in grande stile, con un pubblico numeroso che bisognava stupire
ogni volta con novità ed effetti scenici esaltanti.
61
G. D’ANNUNZIO, Il Ferro, in Tutto il teatro , cit., pag. 464.
62
G. D’ANNUNZIO, La Gioconda, cit., II, 2, pag.137.
63
id., cit., II, 2, pag.161.