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Introduzione
Il presente lavoro ha come oggetto l’indagine delle esperienze vissute da me e dalla mia
famiglia, i continui attraversamenti di confini materiali e simbolici, geografici, culturali
e relazionali che abbiamo dovuto compiere.
Inizialmente ero titubante nell’affrontare questo argomento per me emotivamente
complesso, la ricostruzione del background della mia famiglia, molti di questi emigrati
dal Pakistan verso zone industrializzate dell’Europa, perché avrei sicuramente toccato a
fondo dei tasti dolenti.
Questa esplorazione è stata condotta mediante il metodo etnografico, o meglio, quella
particolare forma di etnografia definita autoetnografia. Questa non è una mera
autobiografia, quindi ho indossato i panni sia della ricercatrice sia del soggetto della
ricerca, mettendomi a confronto con gli altri del mio orizzonte quotidiano, cercando di
esplorare, così, quali siano le difficoltà affrontate dalle cosiddette “seconde generazioni”,
categoria di cui faccio parte. Ho cercato di comprendere meglio cosa significhi
confrontarsi con culture e appartenenze “a metà” o “duplici”, cercando continuamente di
integrarsi il più possibile anche nella società di appartenenza dei genitori. Solitamente le
seconde generazioni tendono a disprezzare le loro origini, il figlio di un migrante nel
corso della propria vita tende a rinnegare una cultura per farsi accettare.
Nel I capitolo il tema principale preso in esame è l’autoetnografia, tecnica di ricerca e di
scrittura che potrebbe essere confuso con l’autobiografia, ma da questa piuttosto
differente. In generale fare etnografia significa recarsi in posti dove si ha intenzione di
studiare i “nativi” per un certo periodo di tempo servendosi di tecniche di ricerca ad hoc
in modo tale da rendere il più possibile la comprensione della cultura in esame. Per la
ricerca etnografica è importante che avvenga l’incontro con l’altro, nella quale durante il
lavoro di indagine sul campo, l’etnografo deve oltrepassare quel confine immaginario
entrando in contatto con la realtà socio-culturale che intende descrivere. Nel caso
particolare dell’autoetnografia il sé e l’altro coincidono, o meglio il sé è analizzato come
altro, attraverso una forma di straniamento che rende visibile il dato per scontato della
vita sociale di un gruppo. L’autoetnografia può essere definita come auto-narrazione, il
ricercatore analizza criticamente le situazioni e i contesti sociali in cui si trova e,
interagendo con gli altri, diventa egli stesso oggetto di ricerca. Dal lavoro autoetnografico
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emerge il punto di vista dello studioso volto a riconoscere e interpretare le tracce, i residui
di una cultura incisi sulla sua pelle, frutto dell’interazione con i membri di uno specifico
aggregato sociale in determinate circostanze. Gli autoetnografi, Ellis e Bochner (2011),
sostengono che questo tipo di lavoro è una critica auto-riflessiva attraverso cui il
ricercatore invita i suoi lettori a riflettere criticamente sulle loro esperienze di vita,
interazioni con gli altri e le loro costruzioni di sé all’interno di contesti storico-sociali
simili.
Nel II capitolo, invece, saranno analizzate le principali categorie giuridiche e sociologiche
della migrazione, le etichette attribuite ai cittadini stranieri nelle società ospitanti
(“rifugiati”, “clandestini”, “migranti”, “seconde generazioni”, e così via). Saranno
brevemente commentate anche, in via generale, le dinamiche delle migrazioni e i fattori
che le condizionano. Saranno riportate tutte le interpretazioni generali del fenomeno
migratorio e i tentativi di categorizzarlo ed etichettarne i protagonisti, con la capacità di
agire di questi ultimi, una dialettica costitutiva tra “pensiero di stato” e traiettorie
individuali e di gruppo che caratterizza la condizione migrante. Il migrante una volta che
lascia il proprio paese di origine lotta assiduamente in cerca della sua identità trovandosi
in un mondo tutto nuovo, lontano dagli affetti. Nel corso della sua permanenza nel paese
ospitante, il migrante auspica di ritornare al più presto nel suo paese natale aspettandosi
di ritrovare tutto, casa, relazioni, luoghi, così come si è lasciato prima della partenza:
l’illusione si mescola con la delusione. Anche Sayad (1998), quando si ritorna a casa si
cerca di recuperare il tempo perso, magari rimediando la propria assenza costruendo una
casa ancora più vuota, non si smette mai di pensare il luogo di origine ma materialmente
si è in un posto dove la permanenza è forzata per ovvie esigenze. Il ritorno a casa fa sì
vedere che il tempo non si è fermato a tutte le cose lasciate così come erano, ma ci si
accorge che sono proprio il tempo e l’assenza ad aver cambiato tutto.
Nel III capitolo affronto la tematica della memoria, fatti realmente accaduti nel corso di
tutti questi anni. Come un bagaglio carico di cianfrusaglie, in ogni angolo della mia mente
circolano tanti ricordi raccontati dai miei parenti/informatori.
Mio padre e i suoi parenti, emigrati dal Pakistan hanno dovuto affrontare dure prove
messe sul loro cammino dalla vita, sono stati in balia delle onde dei sacrifici e degli
ostacoli.
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Il continuo attraversamento di confini non ha mai visto la parola fine, a cominciar dai
nonni che nel secondo dopoguerra durante la guerra indo-pakistana del 1947 hanno
dovuto abbandonare l’India per il Pakistan.
Dopo l’invasione della Gran Bretagna si sono creati nuovi stati indipendenti per la volontà
dei musulmani di vivere in tranquillità avendo una loro indipendenza.
Il punto di incontro tra me e mio padre è paragonabile al confine indo-pakistano, un
confine caldo e doloroso. Scovare nei ricordi, nonostante in veste di ricercatrice, non è
stato facile.
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I - Autoetnografia
Piccola Introduzione al capitolo:
"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!"
Isaac Newton.
“Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è
sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve”.
U. Eco
Il tema di questo capitolo è l’autoetnografia, una particolare tecnica di ricerca e scrittura
che rientra nel più generale metodo etnografico. Questo metodo, però, presenta delle
peculiarità che lo rendono applicabile solo a un certo tipo di situazioni di ricerca, in
particolare laddove il soggetto della ricerca intenda volgere la propria attenzione analitica
alle esperienze che ha vissuto in prima persona e a quelle dei mondi che si è trovato a
vivere. L’autoetnografia non è una semplice biografia ma, avvalendosi anche
dell’autonarrazione, ha l’obiettivo di leggere le traiettorie proprie e della propria rete di
relazioni in maniera analitica nel quadro di ipotesi di ricerca più ampie. Occorre saper
staccarsi dagli schemi tecnici già prestabiliti, tuffarsi nel mondo del racconto, saper
raccontare ciò che si vuole raccontare senza tralasciare nessuna sfaccettatura di quel
mondo, mettendo da parte l’emotività senza farsi troppe domande o cercare di risolvere i
dubbi che si annidano nel labirinto del nostro cervello in cerca di risposte. La mia ricerca
si concentra sull’analisi di due culture praticamente parallele, sia l’una che l’altra mi
appartengono a metà, in genere descrivere una o più culture significa anche raccontare sé
stessi, e viceversa.
Il lavoro etnografico consiste nell’osservazione partecipante: il ricercatore deve
comprendere e cercar di conoscere il soggetto o soggetti di studio narrando tramite
fotografie, registrazioni o video e nel momento dell’osservazione il compito
dell’antropologo è guardare il mondo secondo il punto di vista della persona che si intende
analizzare. L’autoetnografia, invece, implica che il ricercatore osservi la sua esperienza
di vita, è allo stesso tempo attore e regista, partecipante e compartecipante. Mediante la
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descrizione della propria esperienza è possibile scavare nelle emozioni, un qualcosa di
nostro del tutto personale, intimo, riappropriandosi dell’esperienza attraverso la scrittura.
L’autoetnografia permette di osservare fenomeni più ampi, affinando uno sguardo socio-
analitico, pertanto l’autoetnografia non si limita a registrare meri racconti personali o
tramandati da informatori.
1.1 Il metodo etnografico
In un recente libro sull’etnografia delle migrazioni, gli autori propongono la seguente
definizione: “L’etnografia identifica un insieme specifico di tecniche di indagine, ed è
stato spesso utilizzato in forma intercambiabile con i termini osservazione partecipante e
ricerca sul campo” (Cappello, Cingolani, Vietti, 2014, p. 12). Sostanzialmente il termine
etnografia significa “scrittura dell’ethnos”, descrizione di un popolo, si presenta come
una scienza di continue ricerche sul campo di singoli gruppi attraverso il contatto diretto
con la loro cultura; tale contatto avviene grazie all’immersione e alla condivisione della
vita quotidiana. Fare etnografia è cogliere il punto di vista del nativo e la sua visione del
mondo. L’etnografia, come detto prima, è una “scienza” scritta ma oggigiorno l’uso di
video e fotografie rendono il lavoro di ricerca sul campo più ricco. Il linguaggio, poi,
riduce le distanze tra soggetto e oggetto delle narrazioni, questo tipo di studio diventa
come stare sul palco di un teatro nel luogo in cui vi è uno scambio di dialogo tra attori
che in quell’istante condividono la stessa esperienza.
I ricercatori affrontano l’esperienza etnografica in prima persona, entrando
immediatamente in stretto contatto con gruppi di persone, soggetti dei loro studi,
intervistandoli e riportando nei propri elaborati le loro esperienze vissute. In ogni ricerca,
l’etnografo perde una parte di sé perché fare etnografia non significa soltanto limitarsi a
osservare i soggetti-oggetti in questione, l’etnografo si immerge nel raccontare anche
della sua esperienza che non diventa più solamente ricerca di studio bensì un qualcosa
più di una realtà personale. Il ricercatore diventa egli stesso lo strumento attraverso il
quale si esprime per fare etnografia, crea un rapporto con i suoi soggetti di studio al fine
di interpretare e rendere comunicabili al proprio gruppo di appartenenza le loro azioni
sociali e le loro rappresentazioni culturali. Relazionarsi con membri appartenenti a una
cultura praticamente parallela fa in modo che il ricercatore arricchisca la propria
conoscenza non più soltanto teoricamente, mediante i libri dei predecessori, ma diventa
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più che altro una conoscenza sperimentata direttamente su di sé. Per questo motivo non
esiste un vero e proprio metodo etnografico, non vi sono indicazioni prefissate né un iter
da seguire, ci vuole molto tempo, occorrono utilizzare determinati metodi personali di
ricerca come l’osservazione e l’intervista, dopodiché si racimolano una serie di dati che
verranno interpretati al fine di comprendere nel migliore dei modi la cultura in questione.
Non è semplice fare etnografia, essere un ricercatore significa fare sacrifici, partire verso
mete sconosciute ed essere circondati da gruppi di persone di altra cultura; implica
abbandonare temporaneamente le abitudini spesso trovandosi anche in condizioni
sfavorevoli. Pertanto anche dall’altra parte non è semplice, siccome è da considerare il
fatto che molte volte l’arrivo di un ricercatore straniero scombussola i delicati equilibri
sociali del luogo di ricerca; talvolta, in determinate circostanze, l’amicizia o chiamiamole
relazioni sociali sono molto importanti per le intenzioni del ricercatore, perché gli
consentono di ottenere quante più informazioni. Un etnografo può condurre la sua ricerca
in zone di conflitto generatori di violenze considerati spazi devastati, luoghi in cui i diritti
umani e ogni tipo di libertà sono negati; proprio da qui entra in gioco il compito
dell’etnografo di raccogliere quei pezzi di vita, sentimenti e angosce che molte volte sono
destinate a morire in quello scenario cupo e abbandonato. L’etnografo si può trovare,
delle volte, in momenti di difficoltà con i suoi informatori, a causa della mancanza di
dialogo tra gli attori o per l’incompatibilità caratteriale.
L’etnografo, quindi, deve confrontarsi con la cultura che ha di fronte intrattenendo doppie
relazioni tra sé stesso e il soggetto di studio. L’emotività è lo strumento principale per far
etnografia, l’etnografo nel momento in cui instaura “un’amicizia” deve suddividere la
propria persona in spettatore e attore, poi liberandosi poi da ogni sentimento o affetto con
lo scopo di creare un nuovo modo di esprimersi, il così chiamato “sdoppiamento” (A.
Monsutti, 2008). Si tende a restare mentalmente distaccati per studiare accuratamente le
usanze altrui, di gruppi di persone appartenenti ad altre culture e contesti sociali, cercando
di osservare e analizzare le varie sfaccettature di quel popolo senza avanzare alcun tipo
di giudizio personale.
L’obiettivo dell’antropologia non è di limitarsi semplicemente a descrivere i contesti
socio-culturali “diversi” dal nostro per conoscerli, ma è di comprendere come la natura
dell’uomo si conformi all’interno di una cultura e come questa cultura definisca l’uomo
per ciò che è e per ciò che fa. Ogni usanza ha una sua razionalità e può essere intesa; per