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Questo approccio fa risalire le basi del comportamento individuale umano – come di tutte le
altre specie viventi – a componenti genetiche principalmente finalizzate alla sopravvivenza e
alla replicazione della specie; la cultura è considerata un epifenomeno di origine genetica che
si sviluppa in conformità con le necessità e leggi dell’evoluzione biologica (Lumsden e
Wilson, 1981, 1982). Tuttavia, tale paradigma risulta riduzionistico nel suo tentativo di
spiegare in modo esauriente la complessità del comportamento umano.
In realtà il comportamento umano è influenzato sia dal patrimonio genetico e che dalla
quotidiana interazione con la cultura di appartenenza, poiché è l’ambiente culturale a fornire
istruzioni comportamentali che l’individuo traduce in azioni quotidiane. Secondo tale
prospettiva l’individuo è portatore di una doppia eredità (genetica e culturale). Questa
riflessione ha dato origine alle teorie bioculturali (Ruyle, 1973; Cloak, 1975; Durham, 1976,
1982; Richerson e Boyd, 1978; Boyd e Richerson, 1985; Csikszentmihalyi e Massimini,
1985; Massimini, Inghilleri e Delle Fave, 1996).
In questa cornice teorica cultura e biologia, pur mantenendo una reciproca autonomia,
agiscono in modo complementare nel plasmare il comportamento umano. Tutto ciò ha
numerose ed inevitabili implicazioni dal punto di vista sperimentale; in particolare, il
comportamento non può essere osservato e studiato senza considerare la cultura di
provenienza dei soggetti, ma nemmeno senza prendere in esame le funzioni più estesamente
indagate dalla psicologia sperimentale - caratteristiche universali e biologicamente
determinate - quali ad esempio la percezione o lo sviluppo delle funzioni cognitive.
Il sistema nervoso centrale opera secondo modalità comuni a tutti i membri della specie
umana; tutti gli individui elaborano le informazioni provenienti dall’esterno nello stesso
modo. Ciononostante, si osserva un’ampia variabilità nel comportamento secondo la cultura
di appartenenza. In sostanza, il processo di acquisizione ed elaborazione delle informazioni
sono comuni ad ogni sistema nervoso, mentre il peso e il significato attribuiti alle
informazioni acquisite dall’ambiente variano da cultura a cultura (Triandis, 1976).
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In alcune culture orientali, per esempio, la tendenza ad essere taciturni è segno di saggezza e
di una spiccata attitudine all’introspezione e al rispetto dell’altro; in altri contesti culturali
invece lo stesso comportamento viene considerato un segno patologico. In sostanza, uno
stesso comportamento può assumere un significato differente secondo il contesto culturale di
appartenenza e al mondo di significati socialmente costruiti.
Il comportamento umano pertanto non può essere ricondotto alla sola eredità genetica: un
bambino nato e cresciuto in uno stato di isolamento, quindi privato di relazioni umane, non
avrà modo di sviluppare tutte le competenze sociali necessarie a coltivare relazioni con i
membri della sua specie. Il corredo genetico senza eredità culturale non permette all’individuo
di accedere alle competenze fondamentali per vivere in una comunità umana. L’individuo
inserito in un contesto sociale deve essere in grado di acquisire istruzioni normative e
culturali. Dawkins (1976), ispirandosi al sistema di replicazione dei geni in biologia, ha
utilizzato il termine meme per definire l’unità di base di replicazione della cultura. La
complessità biologica dell’essere umano è arrivata a produrre nel corso dell’evoluzione un
sistema sociale costituito da relazioni e significati culturalmente trasmessi.
Nel sistema ereditario culturale – contrariamente a quanto accade per quello biologico - la
trasmissione di istruzioni può avvenire attraverso gli individui (deposito intrasomatico) ma
anche attraverso gli artefatti (depositi extrasomatici), veicoli inanimati creati e prodotti
dall’individuo quali libri, mass-media, oggetti.
I processi di apprendimento relativi all’eredità culturale si articolano attraverso una costante
trasmissione inter-generazionale di istruzioni. Pertanto, ogni individuo può essere portatore di
un messaggio culturale antichissimo. Basti pensare alle comunità tribali che ancora oggi
trasmettono istruzioni comportamentali, normative e sociali solo per via orale; in questi casi
l’individuo è il principale depositario degli insegnamenti tramandati per millenni risultando
l’unico garante della sopravvivenza della cultura. In culture più complesse le istruzioni
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possono essere veicolate e trasmesse attraverso la parola scritta o codici audiovisivi, strumenti
che ne permettono una sopravvivenza prolungata.
Di conseguenza, per prevedere il comportamento di un essere vivente dotato di cultura è
necessario conoscere il suo genotipo, il suo ambiente ed il suo culturotipo, ovvero il
messaggio culturale che l’individuo ha ereditato da altri individui della stessa specie
(Richerson e Boyd, 1978).
Tale prospettiva di analisi ha evidenziato inoltre come lo sviluppo e l’evoluzione della cultura
siano in gran parte indipendenti dalla biologia, ed abbiano un ruolo specifico nell’influenzare
il comportamento dell’individuo, potendo essere in relazione di cooperazione o, al contrario,
di competizione con le leggi dell’evoluzione biologica. Ad esempio, la scelta di consacrare la
propria vita al sacerdozio ed alla castità è guidata da un’istruzione culturale che si
contrappone alla sopravvivenza e riproduzione della specie; le guerre di religione portano allo
sterminio e alla morte biologica di intere popolazioni per motivi culturali.
La selezione dei memi e l’organizzazione in sistemi culturali è stata analizzata attraverso lo
studio dei testi costituzionali in quanto insiemi di istruzioni culturali che regolano il
comportamento degli individui e dei gruppi (Calegari e Massimini, 1976; Massimini e
Calegari, 1979). Queste analisi hanno evidenziato ricorrenti gruppi di norme che sono stati
sistematizzati in 11 unità. Ognuna di esse riguarda un problema che la società deve risolvere
per poter sopravvivere e riprodursi nel tempo. Le undici unità possono essere raggruppate in
quattro categorie: a) riproduzione bio-culturale (lavoro, proprietà, reddito); b) riproduzione
culturale (educazione, circolarità d’informazione, decisionalità, partecipazione); c)
prescrizione (giustizia e status); d) valutazione e giustificazione (valori individuali e valori
sociali). Tutte le popolazioni umane hanno dei problemi comuni da risolvere, mentre variano
le soluzioni, la gerarchia dei problemi stessi e il loro grado di interazione. Questo schema
permette di analizzare le caratteristiche e i cambiamenti di una cultura nel tempo, nonché le
differenze tra culture.
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Nelle relazioni interculturali le società possono esportare e scambiare i propri memi. D’altra
parte, il processo di evoluzione culturale è un processo di cambiamento da considerarsi
neutrale: esso non implica necessariamente un progressivo miglioramento, ma un maggiore
adattamento. Alcune società possono dominarne altre grazie alla loro capacità di sopravvivere
e riprodursi utilizzando i propri memi, (ad esempio, armi e tecnologie), e non perché portatrici
di valori più desiderabili. Tale forma di selezione culturale impedisce il processo di
differenziazione, che rappresenta una caratteristica fondamentale per tutti i sistemi viventi,
siano essi specie o culture.
Nel tentativo di integrare le varie posizioni teoriche relative alla relazione individuo-cultura-
ambiente Massimini (1996) ha formalizzato l’equazione adattativa estesa così descritta:
A = f (g, ic, n) + f (an, mc, n) + i (g + ic + mc)
Con “A” si vuole indicare l’insieme totale delle costrizioni adattative che determinano il
comportamento. “f (g, ic, n)” si riferisce al pacchetto di costrizioni individuali, in cui “ic”
rappresenta la cultura intrasomatica, in relazione con “g” che rappresenta la componente
genetica, in base all’entità della penetranza “n” o al grado di acculturazione dell’individuo
nel gruppo sociale. “f (an, mc, n)” rappresenta il pacchetto di costrizioni ambientali naturali
“an” e artificiali “mc” in relazione tra loro secondo il livello di penetranza “n” della cultura
materiale sull’ambiente naturale. Infine “i (g + ic + mc)” si riferisce all’inerzia, ovvero alla
resistenza al cambiamento delle informazioni genetiche, intrasomatiche ed extrasomatiche.
Essa rappresenta un’ulteriore costrizione sul comportamento individuale. L’equazione
proposta formalizza le complesse interazioni tra costrizioni individuali, ambientali e culturali
secondo una relazione di tipo circolare applicabile a tutti i sistemi sociali. Gli elementi citati
nell’equazione sono infatti comuni a tutte le culture; ciò che cambia è il grado di influenza
che ciascun pacchetto di costrizioni esercita nel ciclo interattivo. L’analisi di una cultura
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attraverso questa griglia interpretativa permette di approfondire in modo esaustivo la struttura
della società osservata tenendo conto di tutti i fattori coinvolti: componenti individuali
(genotipo e culturotipo); componenti ambientali e culturali (ambiente naturale e artificiale) e
tutti i fattori relativi all’inerzia.
1.2 La Selezione Psicologica Umana e l’Esperienza Ottimale
L’individuo, oltre ad essere veicolo e riproduttore dell’informazione bio-culturale, influenza
attivamente il processo di sopravvivenza e trasmissione dell’eredità biologica e culturale
(Richerson e Boyd, 1978) attraverso la replicazione differenziale dell’informazione, o
selezione psicologica umana (Csikszentmihalyi, 1975, 1978; Csikszentmihalyi e Massimini,
1985). La consapevolezza oggettiva e soggettiva, e le risorse attentive a capacità limitata
(Csikszentmihalyi, 1978) inducono l’individuo a selezionare gli stimoli ambientali, in termini
di attività quotidiane, interessi e obiettivi. Numerosi studi hanno dimostrato che il fattore
principale che modula e orienta la selezione psicologica si basa sulla qualità dell’esperienza
percepita. In particolare, nell’ambito dei vari stati di coscienza, si distingue un tipo particolare
di esperienza positiva e complessa: l’Esperienza Ottimale, caratterizzata dalla percezione di
un bilanciamento tra elevate opportunità d’azione reperite nell’ambiente (challenge) ed
adeguate capacità personali (skill) nel farvi fronte, da concentrazione, coinvolgimento,
assenza di auto-osservazione, controllo della situazione, chiara percezione dell’andamento
dell’attività, positività dello stato affettivo (Csikszentmihalyi e Csikszentmihalyi, 1988;
Csikszentmihalyi e Massimini, 1985; Massimini, Inghilleri, Delle Fave, 1996; Massimini e
Delle Fave, 2000) e motivazione intrinseca (Deci e Ryan, 1985).
In virtù della tendenza a replicare tale tipo di esperienza, l’individuo seleziona e riproduce
preferibilmente le attività e le situazioni della vita quotidiana ad essa associate, influenzando
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in tal modo la riproduzione differenziale delle informazioni/istruzioni culturali. La qualità
dell’esperienza associata alle attività, situazioni e contesti sociali quotidiani guida pertanto il
comportamento e orienta il processo della selezione psicologica.
Le numerose ricerche transculturali finora condotte sull’esperienza ottimale, che hanno
portato alla campionatura di più di 4.000 soggetti, ne hanno dimostrato la stabilità nelle
caratteristiche indipendentemente dal contesto culturale di appartenenza degli intervistati e
l’associazione con le più varie attività, a condizione che esse rappresentino per il soggetto
opportunità d’azione sufficientemente complesse da richiedere impegno ed applicazione delle
capacità individuali a livelli elevati (Csikszentmihalyi e Massimini, 1985; Massimini et al.,
1996; Massimini e Delle Fave, 2000). La percezione di challenge ambientali elevati comporta
un graduale incremento delle capacità personali per far fronte alla situazione. Se si considera
l’individuo come sistema psichico aperto, tendente ad una sempre maggiore organizzazione e
complessità, l’esperienza ottimale favorisce lo sviluppo individuale in quanto, ai fini di poter
essere mantenuta e replicata nell’ambito di una stessa attività, induce il soggetto alla ricerca di
opportunità d’azione sempre più complesse, cui contrapporre capacità progressivamente
maggiori. In virtù di questi elementi, e della tendenza alla ‘coltivazione’ delle capacità
individuali, l’esperienza ottimale si configura come il fulcro del processo di selezione
psicologica, il criterio selettivo di base su cui viene costruito il percorso di sviluppo
individuale. Tale percorso si identifica con il tema di vita (Csikszentmihalyi e Beattie, 1979),
ovvero con l’insieme delle attività, interessi, e relazioni sociali che l’individuo coltiva
preferenzialmente, e degli scopi fondamentali che si prefigge di perseguire. Essendo basata su
una valutazione soggettiva delle opportunità ambientali, la selezione psicologica conduce alla
differenziazione dei percorsi di sviluppo degli individui all’interno del gruppo sociale.
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1.3 La Psicologia Transculturale
La pubblicazione nel 1970 del Journal of Cross-cultural Psychology, e la fondazione nel 1972
della IACCP (International Association of Cross-Cultural Psychology) hanno sancito la
nascita della Psicologia Transculturale. I primi studiosi che si interessarono alla disciplina
provenivano da Paesi colonizzatori con alle spalle una storia di continue interazioni con altre
culture. L’Italia, non essendo un paese con una significativa esperienza in ambito coloniale,
non ha annoverato finora contributi significativi nell’ambito della Psicologia Transculturale.
Solo negli ultimi decenni, in concomitanza con gli ingenti flussi migratori provenienti da
Africa (Marocco e Senegal), Sud America (Perù ed Ecuador) ed Europa dell’Est (Ucraina,
Romania, Moldavia e Albania) si è assistito ad un’intensificazione del contatto interculturale,
con un conseguente incremento di ricerche e studi centrati sulla relazione con i nuovi arrivati
nei processi di accoglienza e integrazione. Prima di approfondire e descrivere il fenomeno
italiano, tema che verrà ampiamente discusso nel prossimo capitolo, si ritiene opportuno
ripercorrere le tappe che hanno condotto allo sviluppo della disciplina a partire dalla
definizione della stessa.
La Psicologia Transculturale non trova una definizione univoca: per Eckesenberger (1972)
fare ricerca in psicologia transculturale significava confrontare in modo puntuale e sistematico
le varianti psicologiche nelle diverse culture da cui hanno origine, in un rapporto di causa-
effetto, i diversi comportamenti; altri studiosi invece riconoscevano nella disciplina la
possibilità di generalizzare le conoscenze psicologiche vigenti (Triandis, Malpass e Davidson,
1972); altri ancora si focalizzavano sui fattori implicati nel favorire una diversificazione del
comportamento umano nelle diverse tipologie di esperienza culturale (Brislin, Lonner e
Thorndike, 1973). Triandis (1980) definiva Psicologia Transculturale lo studio del
comportamento e dell’esperienza nelle diverse culture orientato ad indagare come la cultura
produca cambiamenti e influenzi il comportamento umano. Più recentemente, Berry,
9
Poortinga, Segal e Dasen, (1994) hanno definito la psicologia transculturale come “lo studio
scientifico del comportamento umano e della sua trasmissione, tenuto conto dei modi in cui i
comportamenti sono plasmati e influenzati dalle forze sociali e culturali”. In tutte le
definizioni sopra citate emerge il tentativo di individuare elementi di diversità psicologica tra
le culture. Al contrario, altri ricercatori si sono interessati a ciò che è universale nella specie
umana (Lonner, 1980), a variabili biologiche (Dawson, 1971) come l’alimentazione, l’eredità
genetica o variabili ecologiche quali le attività economiche e la densità della popolazione
(Berry, 1976).
Si vengono a delineare così due linee di pensiero. Da un lato si cerca di individuare differenze
interculturali nel comportamento umano, dall’altro si indaga ciò che accomuna i diversi
contesti culturali e le diverse strategie comportamentali messe in atto dall’uomo per adattarsi
al proprio ambiente. Ed è proprio nel trattare queste tematiche che emerge un nuovo
approccio, la Psicologia Culturale, che si differenzia dalla Psicologia Transculturale in quanto
considera il comportamento indissolubilmente legato al contesto culturale, tanto da non poter
assumere significato al di fuori di esso, fondandosi su sistemi di significazione e su
“interpretazioni totalmente contingenti a livello di tempo, luogo e persona” (Shweder, 1990).
La Psicologia Transculturale, invece, sostiene che il comportamento si distingue dalla cultura
in quanto avrebbe una base biologica, legata ad esigenze di sopravvivenza condivise dalle
diverse popolazioni; pertanto è possibile comparare popolazioni che si sono differenziate solo
in seguito a fattori di tipo ambientale e storico. Ognuno dei due approcci presenta punti di
criticità: in particolare la Psicologia Transculturale tende ad omologare sul piano scientifico e
metodologico l’approccio allo studio delle diverse culture; la Psicologia Culturale, che adotta
prevalentemente metodologie qualitative, mostra una mancanza di rigore scientifico che
impedisce procedure di controllo attendibili. Inevitabilmente, l’impronta teorica dei due
approcci ha prodotto diverse metodologie di studio. In particolare la Psicologia Transculturale
si serve di metodologie comparative, ovvero applica il metodo scientifico, focalizzandosi sulle
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variazioni sistematiche dei contesti culturali, utilizzando strumenti standard (psicometrici) e
metodologie quasi sperimentali (Berry et al., 1994).
La Psicologia Culturale, invece, proprio perché non crede nella comparabilità tra culture,
adotta una metodologia descrittiva e osservativa di tipo qualitativo, per non intaccare l’unicità
del contesto culturale entro cui si inserisce l’indagine.
Alcuni autori, al fine di superare l’acceso dibattito fra le due prospettive teoriche, hanno
avanzato l’ipotesi che, in realtà, esiste un rapporto di complementarietà tra Psicologia
Transculturale e Psicologia Culturale (Poortinga e van de Vijver, 1987): la prima intende
massimizzare la possibilità di generalizzare le osservazioni e le spiegazioni dei fenomeni
indagati; la seconda si focalizza principalmente sulla comprensione e l’approfondimento degli
aspetti unici di un fenomeno. Il ricercatore può pertanto scegliere di avvicinarsi ad un
fenomeno optando per una delle due prospettive, entrambe valide se coerenti alle ipotesi di
partenza e al paradigma di riferimento.
Le precedenti riflessioni aprono la strada ad un’ulteriore definizione della disciplina che tenta
di integrare le varie posizioni: “La Psicologia Transculturale è lo studio delle differenze e
delle similitudini nel meccanismo psicologico individuale, in gruppi etnici e culturali diversi;
dei rapporti tra le variabili psicologiche e quelle socio-culturali, ecologiche e biologiche; e
delle modifiche in corso di queste variabili” (Berry, Poortinga, Segall e Dasen, 1994).
Un ulteriore confronto disciplinare e metodologico ha portato alla distinzione tra approccio
emico e approccio etico. Questi termini sono stati coniati da Pike (1967) in analogia con
fonemica, che studia i suoni usati in uno specifico linguaggio, e con fonetica, che studia le
leggi generali della lingua. L’approccio emico studia il comportamento dall’interno di un
sistema culturale specifico, usando criteri di analisi e categorie esplicative proprie di quella
cultura; l’approccio etico esamina più culture, comparandole secondo criteri e categorie
interpretative universali (Berry, 1969).
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In linea con quanto detto precedentemente l’approccio emico può essere ricondotto alla
Psicologia Culturale, mentre quello etico alla Psicologia Transculturale.
Alcuni autori, al fine di individuare una complementarità tra i due approcci, hanno tentato di
integrare i due metodi. Attraverso il metodo “emico combinato”, il ricercatore muove da un
costrutto teorico generale (etico) e cerca di elaborare metodologie emiche per verificare la
teoria (Triandis, 1978). Secondo l’approccio “etico imposto” i costrutti e le procedure non
sono definiti come universali (etici) ma connotati dalla cultura in cui nascono e vengono
pertanto imposti alla cultura nel quale vengono esportati. E’ compito del ricercatore, quindi,
individuare in un primo momento le componenti legate alla propria cultura e solo in un
secondo momento effettuare indagini relative all’altra cultura così da elaborare costrutti
teorici “etici derivati” (Berry, 1989).
Successivamente si sono fatti strada ulteriori orientamenti teorici come l’assolutismo, il
relativismo e l’universalismo. La posizione relativista evita di categorizzare e valutare il
comportamento umano dall’esterno di una cultura, sostenendo che le variazioni psicologiche
interindividuali siano spiegabili in termini di differenze dei contesti culturali che influenzano
lo sviluppo dell’individuo. Si evitano studi comparativi perché considerati etnocentrici
(approccio emico).
In netto contrasto si pone la posizione assolutista, che considera i fenomeni psicologici (ad
esempio l’intelligenza) come costanti a livello transculturale. Essa utilizza strumenti standard
quantitativi e ignora le influenze culturali, controllando al massimo l’equivalenza linguistica
(approccio etico imposto).
La posizione universalista infine ritiene che i processi psicologici di base siano panumani, e
che i fattori culturali influenzino il loro sviluppo e utilizzo, cioè la loro manifestazione. Le
comparazioni si utilizzano con cautela, le interpretazioni quantitative sono ritenute valide solo
per dimensioni di fenomeni analoghi e le procedure di valutazione sono modificate e adattate
(approccio etico derivato).
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In generale, per evitare riduzionismi risulta utile un atteggiamento volto alla ricerca della
complessità e della multifattorialità. A questo proposito la Psicologia Transculturale prende in
considerazione diverse classi di variabili che risultano importanti per la comprensione di
analogie e differenze nello studio del comportamento e dell’esperienza in culture diverse.
Sono esempi il contesto ecologico, cioè la situazione in cui interagiscono gli organismi, e
l’ambiente fisico, che determinano la gamma di possibilità di vita di una popolazione, nonché
il contesto sociopolitico, che si modifica in funzione dei contatti culturali quali invasioni,
migrazioni e scambi commerciali.
Nell’ambito degli studi transculturali il problema di stabilire concetti e metodi equivalenti ha
una lunga storia di errori e distorsioni etnocentriche, che hanno influenzato il tentativo di
comprendere il comportamento umano (Berry et al., 1997). Basti pensare ai numerosi
psicologi occidentali che hanno ripetutamente utilizzato test e strumenti di valutazione
“culture bound”, cioè fortemente influenzati dalla cultura nella quale sono stati sviluppati, per
misurare variabili psicologiche in altre culture e attribuire giudizi di valore alle differenze
riscontrate. La Psicologia Transculturale dovrebbe in realtà promuovere studi che abbassino
drasticamente il rischio di etnocentrismo e dovrebbe soprattutto offrire maggiori opportunità
alle psicologie indigene di svilupparsi secondo modelli e paradigmi propri così da rendere le
differenze un patrimonio di ricchezza preziosissimo per l’evoluzione teorica e pratica della
disciplina.
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1.4 Aree di indagine
Gli ambiti di studio della Psicologia Transculturale sono molteplici e interessano un’ampia
gamma di discipline che vanno dall’ecologia, l’antropologia, la biologia e la sociologia fino
ad arrivare ai vari settori della psicologia generale. Si tratta di una disciplina che, come
abbiamo visto, deve considerare sia aspetti generali della popolazione sia aspetti individuali.
Pertanto le aree di indagine e le tematiche affrontate sono innumerevoli.
Una delle tematiche centrali su cui si sono focalizzati molti studi riguarda la trasmissione
culturale, cioè il processo grazie al quale i membri di un gruppo culturale trasmettono
istruzioni comportamentali ad altri membri. Il passaggio di istruzioni può avvenire
verticalmente, cioè dai genitori ai figli, orizzontalmente, cioè tra pari; oppure in modo
obliquo, ovvero da altri adulti e istituzioni (Cavalli-Sforza e Feldmann, 1981). Col processo di
modernizzazione, con lo sviluppo della tecnologia e dei mezzi di comunicazione di massa la
trasmissione culturale obliqua si verifica anche attraverso i mass-media (televisione, internet).
Con il termine inculturazione si definisce il processo attraverso il quale un bambino riceve e
apprende le istruzioni comportamentali e i valori dalla famiglia e dal contesto socio-culturale
di appartenenza. Il mondo normativo e valoriale di una cultura scaturisce da un susseguirsi di
relazioni intergenerazionali di tipo multidimensionale (famiglia, scuola, TV, pari, lavoro,
ecc.) attraverso cui si veicolano esperienze, istruzioni e credenze che si stratificano nel tempo.
L’eterogeneità delle pratiche di educazione infantile è documentata nell’archivio noto come
Human Relations Area Files (HRAF), composto principalmente da rapporti e studi etnografici
e da ricerche psicologiche realizzate sul campo (Minturn e Lambert, 1964; Whiting, 1963;
Whiting e Whiting, 1975).
Nell’ultimi decenni gli psicologi transculturali si sono proposti di capire quale sia il rapporto
tra psicologia e cultura attraverso l’analisi di concetti e sistemi di categorizzazione differenti
da quelli occidentali comunemente studiati. Ad esempio, per quanto riguarda la costruzione
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del sé e l’identità sociale, è stata studiata la doppia struttura della coscienza (omote e ura)
caratteristica della cultura giapponese (Doi, 1984). Omote, ciò che si vuole mostrare e ura, ciò
che si vuole nascondere, implicano due strategie di comportamento contrapposte, ma non in
conflitto: quando una è presente, l’altra è assente. La capacità di passare in modo flessibile e
adeguato da uno stato all’altro è valutata positivamente come indice di maturità sociale. La
costruzione del sé è stata studiata anche da Markus e Kitayama (1991), che hanno evidenziato
come in culture collettivistiche il concetto del sé sia interdipendente, piuttosto che
indipendente. Esso cioè include anche il contesto sociale circostante, influenzando
l’esperienza ed il comportamento individuale.
Anche per lo studio del comportamento sociale si è sviluppato negli Stati Uniti, ovviamente
focalizzandosi su aspetti e contenuti propri di questa società. Il tentativo di replicare alcune
ricerche statunitensi in altre culture è risultato fallimentare (Amir e Sharon, 1987), e ha messo
in evidenza i limiti culturali della Psicologia Sociale. Lo sviluppo delle Psicologie Sociali
Indigene (Berry, 1978; Doise, 1982; Jahoda, 1986 ), ciascuna costruita all’interno di uno
specifico contesto, ha rappresentato una valida alternativa.
Un argomento cruciale nell’ambito degli studi sul comportamento sociale riguarda i “ruoli”,
cioè le posizioni che gli individui occupano in un determinato sistema, e per le quali sono
attesi determinati comportamenti. Alcune culture, come quelle occidentali, sono caratterizzate
da una molteplicità di ruoli, altre prevedono un numero costante e limitato di ruoli nell’ambito
familiare, sociale ed economico (genitore/figlio; cacciatore/raccoglitore).
Un acceso dibattito transculturale caratterizza un altro argomento di studio: l’espressione delle
emozioni. Le prime ricerche, che risalgono a Darwin, sostenevano l’eredità biologica delle
emozioni. Al contrario, altri autori (Klineberg, 1940; Birdwhistell, 1970) hanno condotto
ricerche per sostenere la specificità culturale. Gli studi più noti che hanno indagato in modo
sistematico l’argomento sono quelli condotti da Ekman (1980), che ha individuato alcune
espressioni emotive universali.
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Oltre ad indagare il comportamento sociale e affettivo, la Psicologia Transculturale si occupa
anche di aspetti cognitivi, quali l’intelligenza, il linguaggio, il pensiero e la percezione.
L’analogia universale nell’anatomia e fisiologia degli organi di senso e del sistema nervoso
rende poco probabile che vi siano rilevanti differenze transculturali nella percezione. Le
funzioni sensoriali fondamentali, quali le costanti percettive e la discriminazione dello
stimolo, non presentano pressoché differenze. Tuttavia, aumentando la complessità dello
stimolo aumentano anche le differenze nei gruppi, le convenzioni specifiche di una cultura, ad
esempio, possono influenzare la percezione della profondità in semplici disegni geometrici.
Ovviamente, l’abilità di interpretare materiali pittorici elaborati in altre culture aumenta in
funzione dell’acculturazione e dell’istruzione scolastica (Duncan, Gourlay e Hudson, 1973).
In passato, e purtroppo anche in tempi più recenti, tali differenze sono state interpretate quale
indice di funzioni più complesse, ad esempio l’intelligenza, ed utilizzate per discriminare
individui e popolazioni in termini di minore evoluzione.
In realtà, le differenze transculturali nella reazione a stimoli sensoriali possono essere
ricondotte a diverse spiegazioni. L’ambiente fisico può influire direttamente sull’apparato
sensoriale: ad esempio un basso livello di rumore ambientale può essere responsabile di una
migliore acutezza uditiva (Reuning e Wortley, 1973). Le condizioni ambientali possono
influire indirettamente su un apparato; ad esempio, carenze alimentari possono essere la causa
delle differenze culturali nelle performance sensoriali. Inoltre, determinanti sono anche i
fattori genetici, come la minore frequenza dell’incidenza del daltonismo rosso-verde in alcuni
gruppi non caucasici di cacciatori-raccoglitori (Post, 1962, 1971).
In generale, tali differenze si ritrovano e vengono amplificate negli insiemi di più individui
organizzati in sistemi sociali complessi, cioè le società e le rispettive culture.