2
(to cure), si può, però, curare (to care).
3
La cura è l’ultimo polo della
medicina, tanto importante quanto la terapia per guarire della quale,
spesso, usa gli stessi strumenti, ma con obiettivi diversi che hanno al
centro del loro interesse la qualità di vita e la dignità di morte dei malati.
Curare vuol dire prendersi cura del malato e della sua famiglia dal punto
di vista fisico, psichico, sociale e spirituale. La storia clinica della malattia
terminale, infatti, interferisce con la quotidianità della vita a causa della
durata e delle manifestazioni (psicofisiche, sociali e spirituali) del
processo patologico. Il ventaglio di questi problemi e la loro commistione
consigliano un approccio globale, olistico,
4
così come la complessità e
fragilità del malato, richiedono un approccio multidimensionale,
esplorando anche le aree dei bisogni spesso sommersi e di quelli
plausibilmente potenziali, ed evidenziando le capacità funzionali
residue.
5
Tutto ciò comporta un approccio di intervento transdisciplinare, con
l’impiego di operatori sanitari e non sanitari, debitamente educati e
formati alla Medicina ed alle Cure Palliative.
3
La parola care (assistenza) deriva dal gotico kara che significa “lamento”, “cordoglio”, “dolore sofferto”,
“pianto”. In A.C. Garfield, Assistenza psicosociale al malato in fase terminale, Milano, McGraw-Hill, 1997.
4
Olistico, dal greco hçlos (tutto intero), è un termine coniato nel 1926 da Jan Christiaan Smuts, politico
sudafricano, tra i fondatori dell’ONU, “…per esprimere il concetto di un tutto coerente di parti integrate…di
una complessità non riducibile”. Si veda G. Bon, Fra scienza e credenza. L’approccio solistico al nursing,
“Nursing oggi”, n. 4, 1999.
5
Bozza del Piano Oncologico Nazionale, Le cure extraospedaliere alle persone affette da patologia neoplastica,
Commissione Oncologica Nazionale, Gruppo 2, Ministero della Sanità, Roma, 1999.
3
CAPITOLO PRIMO
LE CURE PALLIATIVE
Il medico deve palliare, ove guarir non ha luogo.
Giuseppe del Chiappa, 1852.
1 – LA MORTE E IL MORIRE
La morte in sé non è un problema perché non è modificabile; è il
processo del morire che è una parte molto importante della vita.
6
Nella
gran parte della storia dell’uomo, la morte è stata considerata la
componente di un processo naturale della vita. Ma con il recente
progresso tecnologico, che si prefigge di procrastinare il momento della
fine, la morte è stata “medicalizzata”. E non essendo più vista come
evento personale e spirituale profondo, insito nella condizione umana, è
spesso vissuta dalla scienza medica come un insuccesso. La
medicalizzazione della morte ha fatto sì che nasca o aumenti il senso di
colpa ogniqualvolta non si sia in grado di evitarla.
Sia la società sia la classe medica sono complici nel negare la morte, la
quale è vista come un nemico da combattere anziché conclusione
inevitabile del vivere. Il luogo, il suono, l’odore della morte sono stati
allontanati dalle nostre case, dalle nostre coscienze.
7
Per Toscani “la morte non è una malattia. Il morire, così come il nascere,
non è un fatto patologico, ma un evento assolutamente naturale e
fisiologico, e, se della morte ormai si occupa la Medicina, ciò è dovuto
6
E.M, Pattison, in A.C. Garfield, op. cit.
7
M.W. Rabow, in E. Riva (a cura di), Il malato terminale oncologico, questo sconosciuto. Esperienze dall’Hospice,
Roma, Il Pensiero Scientifico, 2001, pp. 11-12.
4
alla progressiva medicalizzazione della nostra cultura. Si può
ragionevolmente affermare che, nei casi limite di nascita e di morte,
l’intervento del medico non serve per “curare” la morte, così come non
serve per “guarire” la nascita, ma ha l’unico scopo di permettere ad
entrambe di compiersi senza complicazioni né ritardi, operando una vera
e propria prevenzione – questo sì – delle “patologie” dell’una e
dell’altra”.
8
In questi ultimi anni molti Autori, rappresentanti di diverse correnti di
pensiero, hanno evidenziato come, in un’epoca in cui l’ideale dominante
è quello di prolungare la propria giovinezza e la propria vita in una
condizione di piacere e benessere, la malattia, la vecchiaia, ma
soprattutto il dolore e la morte, siano fonte di orrore poiché sembrano
non avere alcun senso.
9
Non è d’accordo la psicologa francese Marie de Hennezel per la quale
“morire non è…un evento assurdo, privo di senso…Il tempo che
precede la morte può anche essere utile al compiersi di una persona, a
una trasformazione di chi le sta accanto. Molte cose possono essere
ancora vissute. Su un terreno più interiore, più sottile, sul terreno delle
relazioni con gli altri. Quando non si può più fare nulla, si può ancora
amare e sentirsi amati…Invece di guardare in faccia la realtà
dell’approssimarsi della morte, ci comportiamo come se non dovesse
arrivare, mentiamo all’altro, a noi stessi e, invece di dirci l’essenziale,
invece di scambiare parole d’amore, di perdono, di gratitudine, invece di
appoggiarci gli uni agli altri per attraversare quel momento…ecco che
quel momento unico ed essenziale della vita è contrassegnato dal
silenzio e dalla solitudine”.
10
8
F. Toscani, Il malato terminale, 1997.
9
G. Zapparoli, E. Adler Segre, Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali, Milano, Feltrinelli,
1997, p. 7.
10
M. De Hennezel, La morte amica, Milano, Rizzoli, 1996, pp. 17-18.
5
1.1 - CENNI STORICI
Ariès
11
ha ricostruito gli sviluppi del sentimento della morte in Occidente
nell’ultimo millennio. Egli ipotizza una correlazione tra l’atteggiamento
davanti alla morte, le variazioni della coscienza di sé e dell’altro, e il
senso del destino individuale e collettivo, in cui un’importante influenza
ha la credenza nella sopravvivenza individuale e nell’esistenza del male.
Cambiando questi elementi, dal Medioevo ad oggi, si trasforma anche
l’atteggiamento verso la morte. Guardando al passato dell’Occidente si
trovano diversi modelli:
ξ la morte “addomesticata”, che riguarda l’atteggiamento
patriarcale in cui la morte è prossima, familiare, collettiva e accettata
come ovvia;
ξ la morte “propria” che si ha quando il senso del destino si è
spostato dalla comunità all’individuo, e la morte è vista come distruzione
della propria identità, staccata dal destino comune (“tutti moriamo”);
ξ la morte “dell’altro” in cui l’affettività, prima diffusa, è ora
concentrata su pochi esseri eletti dai quali non si sopporta di separarsi: è
l’epoca delle “belle morti” e del culto dei morti;
ξ la morte “capovolta”, modello del nostro tempo, caratterizzato
dal fatto che la morte si cancella, è nascosta allo stesso morente.
Il disinteresse sociale della morte, atto a cancellarne l’idea, provoca la
solitudine del morente che vive la morte come un fatto privato.
Più che paura, la morte, oggi, suscita vergogna, ripugnanza, disgusto.
Secondo Ariès non è l’uomo che rifiuta la morte ma è la società che gli
nega il suo aiuto e la sua partecipazione, lasciandolo solo e
costringendolo a comportarsi come se la morte non esistesse. L’uomo
11
Ph. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo ad oggi, Bari, Laterza, 1992.
6
sembra rassegnato al proprio destino, e, questa accettazione o ricerca
della solitudine, richiede, invece, molto coraggio.
Nella “formazione” dei comportamenti degli ultimi cinquant’anni, sembra
abbia giocato un ruolo importante il rifiuto di esprimere i propri
sentimenti. E ciò, Ariès, lo mette in relazione con una trasformazione
della coscienza di sé e con un’intensificazione del dominio del privato.
La conseguenza è che oggi si muore soli perché non si sa parlare; il
linguaggio del sentimento è stato dimenticato. Ma non si creda che
l’uomo rifiuti la morte perché non ne parla e la rimanda all’ultimo
momento della sua vita. Rimandare non è rifiutare o rimuovere. L’uomo
l’accetta solo quando la morte è già in casa e allora tutti fanno il
possibile per nascondergliela; ma egli la vede e l’accoglie isolandosi,
perché si trova in un mondo che, non avendo strumenti per
occuparsene, nega la morte. Questo dipende dalla nostra cultura, dai
nostri modi di vivere e di pensare poiché la nostra società, caratterizzata
dal dominio della scienza e della tecnica, vede la morte non come un
esito naturale della vita, ma come il risultato di un incidente, di un
guasto, di un’aggressione esterna. Con questo approccio esteriore ed
oggettivo, la morte viene generalmente vissuta come morte del corpo,
sentito non come luogo simbolico di senso, di legami e di storie, ma
come macchina potenzialmente riparabile.
1.2 – ASSISTENZA AI MORENTI
Una volta si sapeva morire perché si imparava guardando gli altri, così
come si imparava qualsiasi altro comportamento. A meno che non si
trattasse di una morte improvvisa o violenta, si moriva nel proprio letto
circondati da familiari, vicini, amici. Anche i bambini erano presenti.
Allora si viveva per morire e si moriva per la vita eterna. “Morire bene”
era un’arte: aveva i suoi maestri (i morenti), i suoi testi (le “ars
7
moriendi”), i suoi cultori (potenzialmente tutte le persone timorate di Dio).
La morte ha sempre fatto paura, ma la ragione dell’angoscia, allora, era
diversa. Si temevano il giudizio di Dio e della sorte eterna. Oggi si
temono di più i tormenti dell’agonia. Il rischio maggiore di morire in modo
disumano, infatti, è connesso con le malattie degenerative come il
cancro, tabù principale del nostro tempo e simbolo della malattia mortale
per eccellenza, attorno al quale si è formata una specie di mitologia
popolare fatta di sensi di colpa, immagini raccapriccianti, paura del
contagio.
“L’orribile, tremendo atto della sua agonia era degradato da tutti quelli
che lo circondavano alla stregua di qualcosa di casuale e sgradevole,
persino di indecoroso (come se trattassero con un uomo che puzza
entrato in un salotto), qualcosa che trasgrediva quello stesso “decoro”,
che Ivan Il’ìc aveva perseguito tutta la vita; egli vedeva che nessuno
aveva pietà di lui, perché nessuno voleva capire la sua situazione.”
12
La morte, diventando qualcosa di sporco, da sottrarre anche agli sguardi
dei congiunti, scompare dalle case.
Dalla metà del ventesimo secolo, il luogo comunemente accettato per
morire diventò l’ospedale, concepito come istituzione totalitaria, che
ebbe lo scopo di risparmiare ai familiari e ai morenti la consapevolezza
della morte e le azioni che avrebbero potuto essere troppo dolorose e
sconfortanti. La natura della morte aveva rovesciato se stessa: né il
morente, né i familiari, né gli amici dirigevano la sequenza degli eventi.
Tutti fingevano che la malattia non fosse terminale e, negando il morire,
si aveva una morte in solitudine.
“In certi momenti… aveva soprattutto voglia che qualcuno avesse pietà
di lui, come di un bambino malato. Avrebbe voluto che lo carezzassero,
12
L.N. Tolstoj, La morte di Ivan Il’ic, Milano, Garzanti, 1975, p. 62.
8
che lo baciassero, che lo compiangessero, così come si accarezzano e
si consolano i bambini”
13
1.3 – L’OSPEDALE
L’ospedale, come luogo di ricovero di malati inguaribili, centro di
accoglienza annesso a comunità religiose, nacque con l’era cristiana nel
sesto secolo. Da queste radici, nel medioevo, derivarono l’”Hotel du bon
Dieu”, ospedale per il sollievo per ogni tipo di sofferenza, e l’Hospice,
stazione di sosta per pellegrini, trasformato, poi, per accompagnare i
morenti. In queste istituzioni, i religiosi, più che la malattia, per la quale
ben poco si poteva fare, curavano la persona. In tutta l’Europa gli
ospedali delle Congregazioni religiose furono, per secoli, l’unica
possibilità di ricovero per questi malati.
Un radicale cambiamento si ebbe con la Rivoluzione francese, poiché,
per soccorrere i malati con risorse dello stato, l’Assemblea Nazionale
assegnò all’ospedale due funzioni:
1. la prima era di sorveglianza della società per proteggere la gente
sana dalla malattia. Il compito di confinare la malattia fra le miserie
sociali da sopprimere e di assistere il malato soggetto della malattia,
assimilava l’ospedale al carcere;
2. la seconda era di osservazione del malato, oggetto della malattia,
in uno spazio strutturato secondo il sapere scientifico, dove il medico
potesse individuare le forme delle patologie.
In Italia, alla proclamazione del Regno nel 1861, gli ospedali erano per
lo più opere pie degli Istituti religiosi. Solo nel 1996 si fa un primo cenno
all’Hospice, nelle linee-guida della Commissione Oncologica Nazionale.
La piena valorizzazione, avviene con il Piano Sanitario Nazionale 1998-
2000 in cui è delineato l’obiettivo di “rafforzare la tutela dei soggetti
13
L.N. Tolstoj, op. cit., p. 63.
9
deboli”, che comprende anche l’assistenza alle persone nella fase
terminale della vita, per la quale assistenza occorre privilegiare, oltre al
servizio medico e infermieristico domiciliare, la realizzazione di strutture
residenziali e diurne (hospice) autorizzate ed accreditate.
14
Il malato inguaribile necessita di assistenza totale che si rivolga a tutta
la persona con una cura fisica, psicologica, sociale e spirituale.
L’Hospice realizza questo atteggiamento ma in forme, tempi e luoghi
diversi. Alcune di queste forme come le “Palliative Care Unit” in Canada,
gli “Hospital Hospice” negli Stati Uniti, le “Unità di Cure Palliative” in
Italia, sono tentativi di riadattare l’Ospedale al compito di assistere gli
inguaribili.
L’ospedale-azienda è una conquista della nostra società ma ogni suo
progresso è legato ad un aumento della complessità e ad una
prevalenza dei valori scientifici su quelli umani. Esso è più funzionale
all’attività di chi vi lavora che al benessere di chi vi è ricoverato. E con il
suo intento momentaneo, episodico e limitato è incapace di provvedere
alle necessità dei malati cronici e in particolare degli inguaribili.
Il percorso del malato inguaribile è segnato da bisogni sempre nuovi,
che richiedono interventi rapidi e flessibili, mentre il sistema sanitario dà
risposte lunghe ed automatiche. Una di queste è il ricovero ospedaliero
che può essere corretto se è la soluzione per un problema acuto;
scorretto se è richiesto per problemi affrontabili, ad esempio, da
un’adeguata assistenza domiciliare; inappropriato se è un modo per
assicurare la sopravvivenza con mezzi sproporzionati o per sostituire
una famiglia inabile.
15
La trasformazione della medicina in senso positivistico, nella prima
metà del ventesimo secolo, ha prodotto una disciplina connotata sempre
14
E. Ghislandi, E adesso: gli “hospices!”, “La Cà Granda”, Milano, n. 3, 1998, p. 34.
15
I. Desiderati, M. Gallucci, in G. di Mola (a cura di), Cure palliative. Approccio multidisciplinare alle malattie
inguaribili, Milano, Masson, 1988, pp. 135-137.
10
più come tecnologica e sempre meno come umanistica per la necessità
di suddividere il problema Malattia in categorie ben definite: le malattie.
Questo aspetto riduzionistico ha spostato l’attenzione della medicina
dalla cura del malato, alla diagnosi ed alla guarigione della malattia. Una
delle caratteristiche strutturali dell’istituzione ospedaliera è il concetto di
produttività che sottintende la standardizzazione degli interventi. Ma se
tale prassi può essere accettabile per chi teoricamente è suscettibile di
guarigione, è inadeguata per chi è destinato in breve tempo alla morte.
Un intervento corretto in un malato terminale non può essere
standardizzato perché il fine dell’intervento non è la guarigione della
malattia, ma il benessere dell’individuo e della sua famiglia.
2 - PECULIARITA’ DEL MALATO TERMINALE
La caratteristica principale del decorso dei malati terminali è
rappresentata da un rapido passaggio, di poche settimane, dalla perdita
di autonomia alla morte, attraverso fasi dalla elevata variabilità di sintomi
psico-fisici, primo fra tutti il dolore, e da un’intensa sofferenza
soggettiva.
16
Ciò che distingue il malato terminale da ogni altro paziente,
è lo svilupparsi e l’aggravarsi della particolare e complessa sofferenza
definita dolore “totale”. La vicinanza della morte ed il precipitare delle
condizioni fisiche inducono un progressivo deteriorarsi di ogni
connotazione personale - l’identità corporea, il ruolo sociale, lo status
socio-economico, l’equilibrio psico-fisico, la sfera spirituale, il
soddisfacimento dei bisogni primari - causa di un’inaccettabile
scadimento della qualità della vita.
17
16
Bozza di documento programmatico per il riconoscimento delle Cure Palliative, Regione Lombardia, 1997.
17
F. Toscani, in G. di Mola (a cura di), op. cit.