V
mercato su un orizzonte temporale dato e con un certo livello di confidenza.
La ragione del successo del VaR è fondamentalmente riconducibile a due
fenomeni. Da un lato, il verificarsi di diversi disastri finanziari, come il
cosiddetto Black Monday, quando il 19 ottobre 1987 la borsa americana ebbe un
crollo del 23% o come quello della Barings Bank nel 1995, banca inglese con più
di 233 anni di esperienza, che ha permesso ad un giovane trader di perdere $1.3
miliardi negli stock index futures, ha messo in luce la necessità di disporre di uno
standard di monitoraggio delle esposizioni al rischio di mercato dei portafogli;
dall’altro nel 1994 la J.P. Morgan ha reso pubblica e gratuita la disponibilità della
metodologia RiskMetrics™ per la stima del VaR e il relativo database,
accelerandone il processo di diffusione.
Intanto, già nel 1975, i governatori delle banche centrali di Belgio, Canada,
Francia, Germania, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Regno Unito, Stati Uniti,
Svezia e Svizzera avevano istituito un comitato d’autorità di vigilanza bancaria,
il Comitato di Basilea.
Questo stesso Comitato, nel 1995, è intervenuto nel definire il significato di
rischio di mercato, comprendendolo tra i rischi finanziari. Le successive proposte
del Comitato, accolte anche dagli organismi di vigilanza nazionali (nel nostro
caso la Banca d’Italia), hanno delineato le variabili caratterizzanti il rischio di
mercato e le modalità di calcolo del coefficiente patrimoniale richiesto per la
copertura dello stesso. Dopo il fallimento del modello standard imposto dallo
stesso Comitato (il Building Block Approach) [8], nel 1998 si è adottato il VaR
come lo strumento più adeguato di misurazione di tale tipologia di rischio con
finalità di vigilanza. In questo modo il VaR ha assunto una nuova connotazione,
quella di rappresentare il livello di capitale da accantonare per essere coperti da
ogni possibile perdita. Basilea ha consentito, inoltre, di adottare un modello
interno di risk management basato sul Value at Risk. Le banche hanno quindi
acquisito la facoltà di calcolare i propri requisiti patrimoniali mediante
metodologie interne piuttosto che attraverso l’applicazione del metodo standard.
VI
I modelli interni più diffusi per il calcolo del VaR e riconosciuti dallo stesso
Comitato sono l’approccio parametrico e i metodi di simulazione [10].
Gli istituti finanziari italiani non sono rimasti indifferenti a questi
cambiamenti. Tra questi anche il Gruppo UniCredito ha sentito la necessità di
orientarsi verso le nuove frontiere della tecnologia internet, concentrando
l’attenzione sul trading on-line e dando origine ad una vera e propria banca in
rete, denominata TradingLab®.
TradingLab® ha immediatamente assunto un livello di primo piano sia nella
negoziazione di nuovi prodotti finanziari, studiati appositamente per permettere
all’investitore di realizzare profitti più o meno elevati, ma comunque di non
perdere elevati quantitativi di denaro, sia nell’elaborazione di strumenti per la
misurazione del rischio in base ai quali l’investitore può scegliere l’investimento
che meglio si adatta alla propria propensione al rischio. In questo secondo caso
TradingLab® ha accolto le direttive del Comitato di Basilea nella valutazione del
rischio di mercato attraverso metodologie VaR, scegliendo il metodo della
simulazione per stimare il KILOVAR®.
Scopo di questo lavoro è mostrare come il concetto di VaR sia stato recepito e
rielaborato da TradingLab®. Vedremo un’applicazione, in ambiente Matlab, del
metodo della simulazione storica e quella filtrata per la stima del KILOVAR®
che ci consentirà un confronto con quello di TradingLab®; cercheremo poi di
compiere una scelta del metodo più attendibile per la stima del KILOVAR®.
Nel corso del primo capitolo ci si soffermerà sulla definizione di rischio di
mercato, introducendo la definizione di VaR, quale strumento di analisi delle
perdite che si possono avere in un portafoglio. Viene inoltre fornita una
classificazione delle diverse tipologie di rischio che caratterizzano l’attività di
intermediazione ed esaminato il rischio di mercato, sottolineando che tale
tipologia di rischio non può essere scissa dai vari fattori che lo caratterizzano.
Il secondo capitolo fornisce gli strumenti computazionali e grafici per
un’analisi delle serie storiche, poiché, come hanno evidenziato studi empirici il
VII
loro andamento può influenzare la stima del VaR. In particolare nella prima parte
verranno definite le statistiche di base (media, deviazione standard, asimmetria e
curtosi) per poi procedere all’individuazione di problemi quali “leptocurtosi” e
“correlazione” dei fattori tramite elaborazioni grafiche.
Nel terzo capitolo affronteremo l’esperienza della banca on-line TradingLab®,
creata dall’UniCredito con lo scopo di “interpretare la tendenza del mercato
attraverso una struttura flessibile e autonoma, in grado di apprendere dal mercato
stesso per offrire strumenti e servizi ad alto valore aggiunto”[19]. TradingLab®
adotta una politica Business-to-Business, ossia gestire le relazioni commerciali
solo con la clientela business (banche, Sim), cioè con i principali intermediari
presenti sul mercato che a loro volta distribuiranno alla clientela consumer i
prodotti e i servizi finanziari creati. Nella seconda parte del capitolo saranno
illustrate le caratteristiche e il funzionamento del mercato on-line creato da
TradingLab®: TLX®. Questo, nato come sistema di scambio organizzato (SSO),
è recentemente diventato un mercato regolamentato con una delibera Consob del
5 Agosto 2003. Su TLX® sono quotati sia strumenti classici (azioni, titoli di
stato) sia prodotti complessi elaborati da TradingLab®. La terza parte del
capitolo focalizza l’attenzione proprio su uno di questi strumenti: il covered
warrant. Sarà fornita una definizione, insieme ai vantaggi che si possono trarre
investendo in tale strumento finanziario. L’ultima parte del capitolo è dedicata
alla definizione e alle caratteristiche del KILOVAR®, misura di rischio,
direttamente derivata dal concetto di VaR, messa a disposizione da TradingLab®
per favorire i soggetti privati nella scelta dei propri investimenti.
Il quarto capitolo offre una disamina sui metodi di simulazione per la
quantificazione del rischio di mercato basato sulla logica VaR. In particolare, la
prima parte è dedicata all’esame del metodo di simulazione storica basato sulla
distribuzione empirica dei fattori, evidenziando che TradingLab® ha adottato
questo metodo per la stima del KILOVAR®. Nella seconda parte verrà proposto
un approccio alternativo proposto da Barone-Adesi, da Giannopoulos e da
VIII
Vosper nel 1999 che chiameremo simulazione storica filtrata. In questo modello i
dati storici vengono filtrati attraverso un modello econometrico in cui i residui
vengono utilizzati per rivalutare il portafoglio.
Nel quinto capitolo si vedrà un’applicazione dei metodi in precedenza illustrati
utilizzando i programmi informatici da noi elaborati in ambiente Matlab. Nella
prima parte si confronteranno le stime KILOVAR®, ottenute con il metodo della
simulazione storica su singole posizioni in azioni e covered warrant, con le stime
ottenute da TradingLab®. Nella seconda parte il confronto verrà invece eseguito
sul KILOVAR® stimato su tre diversi portafogli sia con il metodo della
simulazione storica che con quella filtrata.
Nell’ultimo capitolo i suddetti metodi saranno sottoposti ad una procedura di
backtesting, implementata in ambiente Matlab, per testare quale dei due metodi
risulti più attendibile nel calcolo del KILOVAR®. Per compiere una scelta si
utilizzerà la tabella proposta dal Comitato di Basilea e quella elaborata da
Kupiec, dove sono riportate le zone di accettazione del modello in esame. Per la
procedura sono stati utilizzati cinque portafogli caratterizzati da diversi livelli di
rischio, per verificare, inoltre, se la volatilità di un portafoglio possa influenzare
la risposta del backtesting.
I programmi informatici, implementati in ambiente Matlab ed utilizzati in
questo lavoro, sono riportati in appendice.
1
CAPITOLO I
IL RISCHIO DI MERCATO
E IL VALUE-AT-RISK
2
CAPITOLO I
IL RISCHIO DI MERCATO E IL VALUE-AT-RISK
1.1 IL RISCHIO DI MERCATO
Nel corso degli ultimi anni è cresciuta l’esigenza di misurare e
controllare in modo adeguato il grado di rischio assunto da un intermediario
finanziario. Le ragioni di questo fenomeno sono riconducibili ad un
aumento della volatilità, registrata a partire dagli anni Settanta, delle
variabili finanziarie classiche (indici di borsa, tassi di interessi, tassi di
cambio) e alla sempre maggiore correlazione tra i mercati finanziari
internazionali. Anche una riduzione dei controlli da parte dell’autorità di
vigilanza sull’attività di intermediazione delle banche, con la progressiva
internalizzazione della stessa, ha portato ad una maggiore integrazione
internazionale dei mercati finanziari, alla liberalizzazione dei movimenti di
capitale e all’affacciarsi sulla scena internazionale di nuove economie
richiedenti capitali (i cosiddetti Paesi emergenti). Altro aspetto da non
trascurare è il graduale processo di diversificazione di mercati e di prodotti
diversi da quelli tradizionalmente offerti (prestiti, depositi). Inoltre, Il
notevole sviluppo del mercato degli strumenti derivati (contratti futures,
forward, swap ed opzioni) ha favorito la possibilità di operare strategie di
copertura da parte degli operatori finanziari e ha consentito di assumere
posizioni di tipo speculativo, incrementando, però, l’eventualità di incorrere
in rischi di perdite.
In generale, il rischio rappresenta “l’ammontare monetario delle possibili
perdite cui si andrebbe incontro nell’eventualità di scostamenti del risultato
3
ottenuto con riferimento ai valori attesi, a causa di cambiamenti imprevisti e
della variabilità dei fattori finanziari” [30].
Per questa sua natura generale, il rischio presenta molteplici
manifestazioni. Esso è pertanto classificabile in base all’ambiente da cui la
probabile perdita può trarre origine.
Si distingue allora tra
1
:
- rischio di credito, riguarda i possibili impatti negativi derivanti da
variazioni avverse nelle caratteristiche creditizie del Paese in cui si
investe, dell’emittente del titolo che si possiede o del cliente cui è
concesso un prestito. Ogni tipo di investitore dovrà stimare il rischio
di insolvenza della controparte per valutare l’opportunità o meno di
investire o concedere un credito e, in caso affermativo, quantificare
l’ammontare di rendimento che possa compensare l’assunzione di
tale rischio;
- rischio di liquidità, si presenta in due forme: rischio di liquidità del
mercato e il rischio di provvista. La prima forma attiene alle perdite
probabili che il possessore di un titolo scarsamente trattato sul
mercato dovrà sostenere qualora decidesse di venderlo. La seconda
riguarda invece tutti quei casi in cui un’impresa si trova in
condizioni di carenza di liquidità dovuta alle fonti di indebitamento e
alla composizione delle attività e passività a breve scadenza;
- rischio di mercato, definito come “l’ammontare che può essere
perduto da una posizione in bilancio o in strumenti derivati ogni
volta che intervengono cambiamenti nelle condizioni del mercato”
[28], come per esempio variazioni sfavorevoli nel livello o nella
variabilità dei prezzi futuri dei titoli o dei fattori di mercato;
1
Questa classificazione di rischi è riconducibile sotto la categoria “rischi finanziari”, cioè tutti
quei rischi cui sono sottoposti gli intermediari finanziari nello svolgimento della loro attività.
4
- rischio operativo, definito in via residuale, riguarda le eventuali
“perdite dirette o indirette derivanti da fallimenti o da inadeguatezza
nei processi interni, dovuti sia a risorse umane sia a sistemi
tecnologici (organizzativi, informativi o informatici), oppure
derivanti da eventi esterni (incendi, furti)”[9].
In questa sede ci occuperemo del solo rischio di mercato e della sua
gestione, in termini di misurazione e controllo, poiché chi svolge attività di
intermediazione va spesso incontro a perdite su alcune posizioni che
vanificano i risultati conseguiti.
Il rischio di mercato ha guadagnato un alto profilo, in particolare, quando
il Comitato di Basilea sul Controllo Bancario ha pubblicato “The
Supervisory Treatment of Market Risk” (Aprile 1993), dove per la prima
volta è stato annoverato tra i rischi finanziari, procedendo nel 1995 a darne
la definizione: “il rischio di mercato va inteso come rischio di perdite nelle
posizioni di bilancio e fuori bilancio a seguito di sfavorevoli movimenti dei
prezzi di mercato.”[8]
Nella pratica il rischio di mercato coincide con quello del portafoglio
d’attività finanziarie e di strumenti derivati detenuti dalle banche per scopi
di negoziazione. In generale alla categoria dei rischi di mercato si possono
ricondurre tutti i rischi di fluttuazioni di valori di mercato delle posizioni
creditorie e debitorie dell’intermediario finanziario, siano esse classificate
come portafoglio di negoziazione, di tesoreria o immobilizzato.
Sono due gli elementi che concorrono a determinare l’esposizione al
rischio di mercato: l’ampiezza dei movimenti dei fattori di mercato e la
sensibilità delle posizioni assunte al movimento di tali fattori. Utilizzando la
suddivisione in fattori di rischio, promossa da Riskmetrics [41], che ricalca
in tal senso quella proposta dal Comitato di Basilea, è possibile suddividere
il rischio di mercato in quei fattori di rischio che generano variazioni nei
valori delle posizioni in portafoglio quali il tasso di interesse, il tasso di
5
cambio, le quotazioni azionarie e i prezzi delle merci. Quindi avremo
quattro diverse sorgenti di rischiosità secondo le variabili finanziarie prese
in esame:
1) Rischio di interesse. Tale tipologia di rischio è associata alla
variazione del livello corrente dei tassi d’interesse dovute a fluttuazioni del
sistema (titoli a tasso fisso e a tasso variabile, swap, forward rate
agreement, interest rate futures). Esso può assumere in genere tre forme:
una derivante da uno spostamento parallelo nella curva dei rendimenti, la
seconda dovuta ad un cambiamento nella forma della curva dei rendimenti,
come il caso in cui l’ampiezza della variazione dei tassi a breve è diversa da
quella dei tassi a lungo termine. Infine, la terza forma di rischio è dovuta
alla relazione esistente tra i tassi di interesse dei diversi mercati e quelli
dello strumento in portafoglio.
2) Rischio di cambio. In questo caso la fonte di rischio è legata ad
oscillazioni di valore nel livello dei tassi di cambio tra le valute scambiate
per un investimento (posizione in valuta, contratti a termine su cambi,
currency swap). Si fa riferimento alla volatilità del tasso di cambio per
indicare le continue variazioni nel rapporto di valore tra due o più valute.
Possono individuarsi tanti fattori di rischio di cambio quante sono le
posizioni in valuta estera. Per ogni valuta si identifica una “posizione netta”
che è misurata come somma algebrica delle attività e passività in bilancio e
fuori: se la posizione netta è positiva (posizione lunga) la banca è esposta al
rischio di diminuzione del valore della valuta estera rispetto a quella
interna, se la posizione netta è negativa (posizione corta) si rischia un
apprezzamento del valore della divisa estera rispetto a quella domestica.
3) Rischio su equities. Tale tipologia di rischio dipende dalle variazioni
nell’andamento dei mercati azionari che influenzano i titoli azionari in
portafoglio e derivati con attività sottostante in azioni o titoli azionari
(posizioni a pronti su azioni, derivati su azioni). Tale rischio è composto da
6
una parte sistematica riferita a mutamenti nelle condizioni generali del
mercato e una parte specifica che dipende dalle caratteristiche di ogni
singola impresa e si riduce con la diversificazione del portafoglio. Per
esempio, fissato il capitale da investire e acquistato un certo ammontare di
titoli, i prezzi di quest’ultimi sono sottoposti ad oscillazioni che fanno
variare in ogni istante il valore dell’investimento.
4) Rischio su commodities. La presenza di posizioni esposte al rischio di
mercato è in questo caso riconducibile alle variazioni nei prezzi delle
materie prime, qualora siano state costituite posizioni spot o a termine su
merci e materie prime. Questo tipo di rischio influenzerà le posizioni
assunte dagli operatori su tali mercati, soprattutto attraverso la stipula di
contratti su derivati.
Nella realtà il rischio di mercato esiste in varie forme. Nel caso delle
istituzioni finanziarie, questo rischio proviene da quelle transazioni
finanziarie avviate allo scopo di venire incontro alle esigenze dei propri
clienti (ad esempio, l'acquisto o la vendita di titoli) o transazioni
deliberatamente avviate per esporre l'istituzione ai movimenti di mercato,
nell'aspettativa di sfruttare i movimenti favorevoli nei prezzi delle attività.
Nel caso di un investitore, l'esposizione nasce dal rischio di subire
perdite nel valore degli investimenti (direttamente o indirettamente,
attraverso i prodotti derivati), a causa di variazioni avverse nel prezzo dei
titoli.
Nel caso di un'istituzione non finanziaria, quale ad esempio una società
industriale, il rischio si riferisce soprattutto alle caratteristiche finanziarie
delle transazioni (variazioni dei tassi d'interesse, variazioni dei tassi di
cambio, valore delle attività o passività espresse in valuta straniera,
cambiamento dei prezzi delle merci).
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In ognuno dei casi descritti, l'esposizione al rischio di mercato richiede
l’adozione di strumenti operativi e metodologie che consentano un rapido
monitoraggio del rischio e un’adeguata valutazione dei portafogli di
mercato. L’esperienza delle banche estere, il crescente impiego di strumenti
statistici e di modelli matematici nella gestione dei profili di rischio
dell’attività bancaria hanno portato ad individuare nel concetto del Value at
Risk, la risposta più idonea a questo problema.
1.2 IL VALUE-AT-RISK (VAR)
A partire dagli anni Settanta le grandi istituzioni finanziarie
cominciarono ad utilizzare il VaR per misurare il rischio dei loro portafogli.
Nell’Ottobre del 1994 la Banca J.P. Morgan propose il VaR come misura
del rischio di mercato, attraverso l’elaborazione della metodologia
RiskMetrics™, rendendolo uno dei più importanti e diffusi strumenti per
misurare il potenziale rischio di perdite economiche. Esso è diventato, così,
una misura standard utilizzata dagli analisti finanziari per quantificare il
rischio di mercato.
Il Value at Risk è definito come “la massima perdita potenziale di uno
strumento finanziario (o di un portafoglio) su un orizzonte temporale dato e
con un certo livello di confidenza (o con un certo livello di probabilità), in
condizioni normali di mercato”[13].
Alternativamente esso può essere interpretato come l’ammontare di
capitale che un istituto dovrebbe accantonare per assorbire le perdite nel suo
portafoglio legate a tutte le manifestazioni sfavorevoli di prezzo, sulla base
di un predeterminato intervallo di confidenza.
Il portafoglio può essere quello di un singolo trader, nel qual caso il VaR
misura il rischio che egli sta assumendo con il denaro della società, oppure
8
può essere della società intera. Nel primo caso tale misura sarà interessante
nel calcolo dell’efficienza del trader stesso, nel secondo tale valore può
essere utile alla società che vuol sapere i probabili effetti del movimento del
mercato sul portafoglio.
Il VaR dà la risposta alla seguente domanda: “Qual è il più elevato
importo che si può perdere con una probabilità dell’c% per un periodo T ?”.
Per rispondere a tale domanda si deve tenere conto che il VaR di un
portafoglio è funzione di due parametri, il periodo di tempo e il livello di
confidenza. Se c% è il livello di confidenza e T giorni è l’orizzonte
temporale, il calcolo del VaR è basato sulla distribuzione di probabilità
degli scostamenti del valore del portafoglio su T giorni. Il VaR è uguale alla
perdita subita al percentile 100-c della distribuzione [31].
In via preliminare, per procedere all’implementazione di un modello
VaR e la misurazione del Valore a Rischio di un dato portafoglio occorre
definire i due parametri fondamentali: l’orizzonte temporale e il livello di
confidenza. La loro scelta andrà ad influenzare l’ammontare di rischio
assegnato a ciascuna attività.
L’orizzonte temporale di riferimento T, “holding period”, è il periodo di
tempo futuro a cui si riferisce la valutazione del rischio. La decisione è
discrezionale, ma di solito è pari a 1 giorno, 2 settimane lavorative (10
giorni), o un mese. I modelli VaR ipotizzano che la composizione del
portafoglio non vari nell’arco temporale considerato. Questa ipotesi rimane
valida solo se si considera un breve orizzonte temporale perché la
composizione dei portafogli nella realtà tende a cambiare frequentemente.
In generale l’orizzonte temporale varia da un minimo di un giorno ad un
massimo di un anno, conseguentemente i risultati che ne derivano sono
profondamente diversi tra loro. Il fattore che principalmente si deve tenere
in considerazione per la scelta dell’orizzonte temporale è il livello di
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liquidità del mercato di riferimento della singola posizione. In breve è il
periodo di tempo necessario alla liquidazione sul mercato della posizione
stessa. Per le posizioni con elevata liquidità del mercato si fa riferimento ad
un intervallo temporale molto limitato, ad esempio un giorno. La corretta
determinazione dell’orizzonte temporale di riferimento deve essere
calcolata anche in relazione all’attività della banca e più in particolare dalle
strategie di portafoglio seguite. Ad esempio i portafogli di trading devono,
per la loro natura speculativa, essere valutati con un holding period di un
giorno; al contrario portafogli con finalità di investimento sono valutati con
orizzonti temporali più ampi.
La scelta dipende dalla frequenza con cui il portafoglio è sottoposto a
movimentazioni e dal periodo necessario per la liquidazione dello stesso.
Un approccio seguito nella pratica dalla Banca J.P. Morgan è quella di
distinguere tra rischio di mercato delle posizioni di trading (Trading Risk),
valutato generalmente su di un orizzonte giornaliero e il rischio delle
posizioni di investimento (Investiment Risk) che è misurato in genere su di
un orizzonte temporale più lungo [46].
Il livello di confidenza (c) è il grado di avversione al rischio di un
investitore e individua la massima perdita probabile che si intende
incorporare nell’indicatore a rischio. Per esempio, la stima del rischio al
livello di confidenza del 99% è l’ammontare della perdita che, in un
portafoglio, ci si aspetta di superare solo nell’1% dei casi. Questa è la
misura del VaR al 99-esimo percentile poiché l’ammontare è il 99
percentile della distribuzione delle potenziali perdite nel portafoglio. In
pratica, i valori scelti variano dal 95% al 99%: più ampio è il valore del
percentile p adottato, maggiore sarà la possibilità di individuare perdite
potenziali elevate, soprattutto sulle code.
Le differenti scelte del livello di confidenza dipendono dagli obiettivi che
si vogliono raggiungere nella valutazione di un modello di Value-at-Risk.