5
1.2. La favola pastorale quattro-cinquecentesca nasce dalla fusione tra il codice
ipercolto bucolico-idillico di ascendenza virgiliano-teocritea e una pratica teatrale del
tutto ex-lege.
Lo spettacolo teatrale quattrocentesco si caratterizza per un sostanziale ibridismo che
rende impossibile una definizione univoca e ne evidenzia l’ancora assente identità di
genere e di autonomia rappresentativa, dal momento che è prevalentemente considerato
una componente accessoria della festa signorile o cittadina, e per il carattere occasionale
richiama le forme di intrattenimento delle comunità medioevali.
Intermezzi, feste, banchetti, nozze, cerimonie varie, ingressi, sono le occasioni per
rappresentare con ostentazione il già noto: i contenuti sono sempre i medesimi, azioni
mitologiche di ascendenza ovidiano-apuleiana, condite con elementi popolari e religiosi.
È il dramma mescidato: con questa definizione ci si riferisce al variegato panorama di
“momarie”, “demonstrazioni”, “rappresentazioni”, e più tardi “egloghe” e “comedie”
che precedono o seguono i banchetti.
Nel corso del Quattrocento siamo ancora in un limbo extra-letterario di dominio
prevalentemente orale e gestuale; la nozione di teatro è ancora artigianale, e in genere il
testo scritto costituisce una componente secondaria da integrare con immagini e suoni.
Un esempio: l’ Atteone
4
di Taccone, in ottave e terzine, rappresentato a Milano alla fine
del ‘400 per celebrare l’installazione di una sontuosa fontana donata alla fabbrica del
Duomo, richiede un’attentissima cura della scenografia (Mercurio deve uscire da un
fiore meccanico), mentre le elementari vicende dell’inseguimento o della metamorfosi
ripetono topoi narrativi abbondantemente sperimentati.
I temi ricorrenti sono: effusioni amorose, minacce di suicidio, rimpianti funebri, false
morti, cacce, rapimenti, zuffe, inserti villaneschi, tessuti generalmente su una rete di
riferimenti encomiastici, augurali, o edificanti la castità, la gloria o la temperanza
(particolarmente in occasione di nozze).
Ciò che insomma accomuna tutti i drammi mescidati è la pratica di utilizzare la fonte
classica, generalmente Ovidio o Apuleio, come pretesto su cui svolgere elementari
azioni sceniche, accompagnate da canti e danze, dove ricorrono i medesimi motivi.
4
Il testo fu stampato da F. Bariola, L’Atteone (favola). Le rime di B. Taccone, Firenze, 1884.
6
1.3. I creatori della maggior parte di questi spettacoli mitologici sono i cosiddetti “poeti-
cortigiani”, alle volte gentiluomini o diplomatici ma spesso canterini o improvvisatori
che si propongono come emblemi della cultura del tardo Quattrocento, che Dionisotti ha
definito indisciplinata e avventurosa, aperta all’improvvisazione e al capriccio,
espansiva e svagata.
Il più acclamato caposcuola dei poeti-cortigiani è Serafino Aquilano, dotato di altissima
professionalità mnemonico-gestuale, di cui ci restano -a sottolineare ancora una volta la
forte impronta allegorica della tradizione rappresentativa del XV secolo- una
Rappresentazione allegorica della Voluttà Virtù e Fama
5
del 1495, e due Acti
scenici
6
(recitati dall’Aquilano nelle vesti di Tempo canuto e alato), semplici monologhi,
approssimativi nella forma, che prevedono per la messa in scena l’utilizzazione di carri
trionfali e l’intervento di vari personaggi allegorici.
La produzione teatrale degli altri letterati è dispersa in zibaldoni poetici che raccolgono
epistole, ecloghe e altri disparati generi testuali, accomunati dall’abitudine di assimilare
lirica e spettacolo (gestualità e dizione sono componenti essenziali): il “consumo” è
soprattutto auditivo e visivo, mentre la scelta metrica oscilla tra ottava e terzina, e
manca sostanzialmente una coerenza unitaria tra le varie parti dello spettacolo.
1.4. Tra le rappresentazioni dell’epoca, ricordiamo un ricevimento cortigiano a Roma
nel 1472 in cui viene rappresentata la storia di Giasone, con il combattimento contro il
serpente, la magica seminagione e l’aratura; La presa di Granata
7
di Sannazzaro a
Napoli nel 1492; Cefalo
8
(1487) e Silva (1493) del Correggio.
Nella Danae
9
(1497) di Taccone, nel Timone
10
di Boiardo o nella Festa del
Paradiso
11
(1490) di Bellincioni si riproduce in chiave pagana la bipartizione tra terra e
cielo; l’incertezza scenografica è ancora evidente nella Pasitea di Visconti, come
riflesso della mancanza di un’identità drammaturgica: si susseguono infatti le vicende di
5
La Rappresentazione allegorica della Voluttà, Virtù e Fama fu pubblicata da P. Ferrato, Giannini,
Napoli, 1877.
6
L’Acto del Tempo e dell’Oroscopo fu pubblicato da Vito R. Giustiniani in Serafino Aquilano e il teatro
del Quattrocento, “Rinascimento”, V (1965), pp. 101-117.
7
Il testo della Presa di Granata è leggibile in Iacobo Sannazzaro, Opere volgari, a cura di A. Mauro,
Laterza, Bari, 1961, pp. 276-285.
8
Per il testo della Fabula di Cefalo si rimanda a quello compreso in N.da Correggio, Opere, a cura di
A.T. Benvenuti, Laterza, Bari, 1969, pp. 7-45.
9
B. Taccone, Danae Commedia [1497], Bologna, Spinelli, 1888.
10
Per il testo si rimanda a Il teatro italiano, vol. I, Dalle origini al Quattrocento, a cura di E. Faccioli,
tomo II, Einaudi, Torino, 1975, pp. 511-587.
11
B. Bellincioni, Le rime, emendate e annotate da P. Fanfani, vol. II, Bologna, 1878, pp. 208-220.
7
un padre avaro, un equivoco tra innamorati che porta ad un doppio suicidio con
resurrezione ad opera di Apollo reduce dalla perdita di Dafne, e un finale di sapore
borghese di conciliazioni domestiche.
Il Tempio d’amore
12
di Galeotto del Carretto, del 1504, si ispira ad un allegorismo di
tipo ancora medioevale: tra i vari personaggi allegorici si insinua anche un negromante
coinvolto nel processo a Fileno intentato da Amore.
Conferma il sostanziale eclettismo di queste esperienze sceniche anche il rifacimento
dell’Orfeo di Poliziano, ovvero la Fabula di Orfeo e Aristeo
13
–un primo rifacimento, la
Orphei tragoedia, in cinque atti titolati alla latina, è forse opera di Boiardo
14
- risulta
appesantito da citazioni mitologiche nelle quali si mescolano le virgiliane Georgiche
con le Metamorfosi di Ovidio, mentre i prestiti da Dante, Poliziano e Correggio
s’innestano su un tessuto linguistico popolaresco e su una trama infarcita di avvenimenti
fantastici, avventurosi e irrealistici.
1.5. L’Orfeo di Poliziano: riscoperta del “terzo genere” antico, la fabula satirica
L’Orfeo di Poliziano è messo probabilmente in scena per la prima volta a Mantova nel
1480 (ma A. Tissoni Benvenuti sostiene più plausibile una data compresa tra il 1471 e il
1473
15
) alla presenza del cardinale Francesco Gonzaga.
Marzia Pieri sostiene che si può ricondurre a tutti gli effetti alla tradizione delle
“rappresentazioni” sopra citate: la sua funzione sarebbe più spettacolare che letteraria,
come suggerisce la stampa tarda, sicchè verrebbe “a torto isolato dagli storici come
episodio eccezionale e capostipite o avventurosamente caricato di significati simbolici.
(…) L’operetta, scritta come è noto “in tre giorni infra continui tumulti”, condivide a
ogni effetto questo effimero status di “oggetto testuale“.
16
Pieri sostiene la tesi delle ragioni “squisitamente sceniche” che hanno condotto il
Poliziano alla sua composizione, forse sollecitata dal ricordo di qualche momaria vista a
Venezia. Dello stesso avviso è Elena Povoledo, che sottolinea che l’Orfeo è stato scritto
12
La princeps è Milano 1518; seguirono un’altra edizione milanese l’anno successivo ed una veneziana
nel 1524.
13
La favola di Orfeo e Aristeo. Festa drammatica del secolo XV edita da Guido Mazzoni, Alfani e
Venturi, Firenze, 1906.
14
La probabile paternità del Boiardo e non del Tebaldeo, come a lungo si è ritenuto, è sostenuta in modo
convincente da A.T. Benvenuti in La fortuna teatrale dell’ “Orfeo” del Poliziano e il teatro
settentrionale del Quattrocento, in Culture regionali e letteratura nazionale, atti del VII congresso, Bari,
1970, pp. 397-416.
15
A.T. Benvenuti, Il viaggio d’Isabella d’Este a Mantova nel giugno 1480 e la datazione dell’ “Orfeo”
di Poliziano, “Giornale storico della letteratura italiana”, CLVIII, 1981, pp. 368- 383.
16
Marzia Pieri, La scena boschereccia cit., p. 7.
8
per essere rappresentato, e che, dal punto di vista drammaturgico, non è nè nuovo nè
unico.
17
La Tissoni Benvenuti riconosce invece a Poliziano il merito di aver stabilito per primo
un rapporto tra egloga e teatro, e alla sua Fabula di Orfeo di essere la capostipite del
filone del teatro pastorale in volgare: a partire dall’Orfeo, infatti, si sono succeduti una
serie di testi che non sono nè tragedie nè commedie, ma fabule satiriche.
18
Poliziano, fine conoscitore delle fonti antiche, riconosce l’esistenza di questo terzo
genere teatrale antico, intermedio tra commedia e tragedia, cui fanno accenno, tra gli
altri, Orazio nell’Ars Poetica (la fabula satirica deve aver funzione quasi di evasione,
divertimento, ma includere, oltre alla presenza di satiri e personaggi agresti, anche eroi e
dei minori, affinchè lo spettacolo mantenga un certo decoro e non scada ad un livello
troppo umile), Diomede nell’Ars Drammatica, Livio, Vitruvio nel De Architectura.
Poliziano definisce, in tempi diversi, più volte i caratteri della fabula satirica, citando
anche l’unica fabula sopravvissuta dell’antichità, il Ciclope di Euripide
19
.
Nel capitolo 28 della seconda centuria dei Miscellanea
20
è riproposta in modo chiaro la
questione:
Veteres igitur Greci fabulas facerunt quae mediae ferme inter tragoediam comoediamque fuerunt ( nam
personae inerant deorum sed rusticorum), ridicolo argomento, talesque nunc satyros aut satyrum nunc
satyricam fabulam vocabant, de quibus etiam Horatius praecepta in arte dat poetica.
Riassumendo, Poliziano puntualizza che:
1) La fabula satirica è stilisticamente intermedia tra tragedia e commedia;
2) Ammette tra i suoi personaggi, oltre ai satiri e Sileno, divinità minori e altre figure
mitologiche di tipo rustico;
3) È ambientata nelle selve e nelle campagne;
4) Deve contenere scene lacrimevoli, ma terminare in letizia.
Tra le fonti teoriche note al Poliziano, fondamentali sono il De re aedificatoria di Leon
Battista Alberti e gli Spectacula del ferrarese Pellegrino Prisciani.
17
E. Povoledo, L’Orfeo di Poliziano tra cultura e realtà teatrale, in AA.VV., L’origine del dramma
pastorale in Europa, cit., pp. 103-117.
18
A.T. Benvenuti, La fabula satirica e l’ ”Orfeo” di Poliziano, in AA.VV., L’origine del dramma
pastorale in Europa, cit., pp. 91-102.
19
E’ importante la traduzione di A. Pazzi de’ Medici del 1524 e la relativa premessa dello stesso,
entrambe edite dal Solerti, Bologna, 1887, in Scelta di curiosità inedite o rare, 224.
20
A. Poliziano, Miscellaneorum centuria seconda per cura di V. Branca e M. Pastore Stocchi, Firenze,
Editio minor, 1978, pp. 42-44.
9
Alberti affianca alla descrizione vitruviana delle tre scene la caratterizzazione dei
relativi tre generi letterari:
E poichè la poesia drammatica si divideva in tre generi: tragico, che rappresentava
Le sventure dei tiranni: comico, che narrava le preoccupazioni e gli affanni dei padri
Di famiglia; satiresco, che cantava le bellezze della campagna e gli amori dei pastori ..
21
Negli Spectacula Prisciani riporta:
Et essendo mò che nel theatro se exerciteno tre facte de poeti: tragici,li quali recitano
Le miserie de tiranni; comici, che rappresentano li pensieri, affanni e travaglie de patri
De famiglia; satirici, li quali cantano et rappresentano la dolcezza et piacere de le
Campagne e ville, li amori et innamoramenti de pastori;..
22
La scarsità di modelli classici del genere satirico a cui guardare porta inevitabilmente ad
attingere al genere bucolico, il più vicino sia per il livello stilistico, sia per la tematica
che per i caratteri dei personaggi. Secondo Tissoni Benvenuti si può dunque parlare di
un rapporto sostanziale tra l’egloga e il teatro pastorale, stabilito per la prima volta
proprio nella Fabula di Orfeo, modello per le opere di contenuto mitologico-pastorale
successive, tra cui la nota Fabula di Cefalo di Niccolò da Correggio.
Per tutto il Cinquecento questo teatro satirico-pastorale manterrà una sua chiara
coerenza di genere, nonostante nessuna norma per la fabula satirica possa essere
ricavata dalla Poetica di Aristotele, e solo Giovambattista Giraldi Cinzio- unico caso di
recupero anche teorico del genere satirico- cerchi di dimostrare, nella sua Lettera overo
Discorso sopra il comporre le satire atte alle scene
23
del 1554, che la satira è esistita
nell’antichità come opera teatrale, che Livio, Terenzio nei suoi commenti, Orazio nell’
Ars poetica ne hanno parlato, e che quindi la sua Egle
24
, che prende a modello il Ciclope
euripideo, risulta pienamente autorizzata.
21
L.B. Alberti, De re aedificatoria. L’architettura. Testo latino e traduzione a cura di Giovanni Orlandi,
Milano 1966, pp. 737-8.
22
Citaz. da ms. Estense Lat. 466 (X.1.6), unica testimonianza del trattato, incompleta. Su di esso si veda
anche G. Ferrari, Il manoscritto “Spectacula” di Pellegrino Prisciani, in La corte e lo spazio: Ferrara
estense, a cura di G. Papagno e A. Quondam, Roma, 1982, pp. 431-449.
23
G.B. Giraldi Cinzio, Lettera overo discorso sovra il comporre le Satire atte alla scena, in Egle, Lettera
sovra il comporre le satire atte alla scena, Favola pastorale, a cura di Carla Molinari, Bologna,
Commissione per i testi di lingua, 1985.
24
G.B. Giraldi Cinzio, Egle[1545], in Egle, Lettera sovra il comporre le satire atte alla scena, Favola
pastorale, a cura di Carla Molinari, Bologna, Commissione per i testi di lingua, 1985.
10
2. LA POESIA BUCOLICA RINASCIMENTALE
2.1. Carducci, nel primo dei suoi tre saggi dedicati ad una minuziosa analisi storico-
critica della tradizione letteraria pastorale in Italia fino all’Aminta di Tasso,
25
riconosce
proprio nell’Orfeo di Poliziano e nel Cefalo di Niccolò da Correggio la redazione di un
nuovo genere che porterà alla composizione della favola pastorale.
Emilio Bigi, tuttavia, nota come la polimetria sia ancora un aspetto caratterizzante
dell’Orfeo polizianesco, dove si incontrano terze rime, canzonette, ballate e persino
un’ode latina, come in molti altri spettacoli precedenti e contemporanei, a differenza, ad
esempio, di altri drammi molto più regolati, e tutti verseggiati in ottave, come il Tirsi di
Castiglione e Gonzaga rappresentato alla corte di Urbino nel 1506, che riflette un nuovo
gusto di lineare compostezza, e, nello specifico, la rispondenza all’ideale castiglionesco
di “grazia” cortigiana e raffinata “semplicità ”.
26
Carducci insiste anche su un quadro più ampio, che contribuisce a preparare le
condizioni per un gusto teatrale attratto dalla tematica pastorale: “Sta da sè, anche per la
squisitezza della composizione, il Corinto di Lorenzo dè Medici. (…) Classici, del resto,
almeno nell’intenzione, quei versi pastorali eran tutti; e fatti da gente aulica per gente
aulica, che andava adattando la moda del classicismo.”
27
Tra i poemetti, stanze prevalentemente in ottave, egli ricorda anche l’Ambra di De’
Medici oltre ad alcune parti delle Stanze per la Giostra di Poliziano e del Corinto e
Apollo e Pan, sempre di De’ Medici (ma in terzine). Nell’Ambra si ritrovano alcuni dei
topoi narrativi classici: l’inseguimento della ninfa da parte del dio silvestre Ombrone, la
metamorfosi della ninfa -nel solco della tradizione ovidiana-, l’impulso satiresco
frustrato.
Carducci fa discendere proprio da queste ed altre esperienze tardo quattrocentesche la
commedia pastorale e la rusticana del primo Cinquecento, spesso nominate
semplicemente ecloghe, termine che racchiude in sè le forme espressive più varie: in
particolare, le commedie pastorali “provengono per due modi, o d’imitazione letteraria
fievole o di caricatura borghese grossolana, da due forme divulgate quasi a un tempo
25
G. Carducci, Su l’Aminta di Tasso. Saggi tre, Bologna, Zanichelli, 1936, volume XIV.
26
E. Bigi, “Semplicità” pastorale e “grazia” cortigiana nel Tirsi, in Poesia latina e volgare nel
Rinascimento italiano, Morano Editore, 1989.
11
negli ultimi lustri del Quattrocento, quali furono la rappresentazione mitologica del
Poliziano e l’idillio contadinesco del Medici [cfr. la Nencia] per una parte, e l’ecloga
propriamente virgiliana rinnovata dal Sannazzaro -con l’Arcadia- per l’altra”.
28
Queste due forme hanno una grandissima diffusione tra la fine del XV secolo e i primi
trenta- quaranta anni del XVI, e molti studiosi vi hanno ritrovato le origini prossime del
dramma pastorale estense, tesi che il Carducci tende a contestare, insistendo piuttosto
sui caratteri classici che la favola pastorale cinquecentesca, a partire dall’Egle del
Giraldi, acquisirà nei confronti delle precedenti esperienze.
Sarà piuttosto la tradizione egloghistica, secondo il Carducci, ad influenzare la
pastorale.
27
G. Carducci, Su l’Aminta di Tasso saggi tre, cit., pp. 161-162.
28
Ibidem, p. 167.
12
3. LA TRADIZIONE ECLOGHISTICA
3.1. Tra il 1454 e il 1471 Matteo Maria Boiardo scrive le sue dieci egloghe in latino,
perseguendo il modello petrarchesco e boccaccesco, nonchè virgiliano.
Numerosi poeti settentrionali, come Salimbene, Panfilo Sasso, Sanvitale o il Correggio,
scrivono e recitano ecloghe, sollecitati anche dalla duchessa Isabella d’Este.
A Napoli si dedicano alla composizione di ecloghe sul modello virgiliano Pomponio
Gaurico, e si notano per l’eleganza classica quelle di Sannazaro, Vida e Amalteo.
Contemporaneamente fiorisce l’egloga in volgare: sempre di Boiardo sono dieci
egloghe in italiano, di cui quattro certamente composte nel 1482, che trattano della
guerra veneziana contro Ercole I duca di Ferrara, ma le altre, di contrasti e amori
pastorali, sono probabilmente già del 1470.
Nel 1481 viene edito il volgarizzamento delle Bucoliche di Virgilio ad opera di
Bernardo Pulci, fratello di Luca, che a sua volta compone ecloghe in terzine sdrucciole,
e di Luigi; nello stesso anno sono pubblicate le bucoliche elegantissime, in terzine, del
fiorentino Girolamo Benivieni e dei senesi Francesco Arsocchi e Fiorino Boninsegni.
29
Intanto a Napoli Jacopo Sannazzaro compone prima del 1489 le prime dieci egloghe
rappresentative o liriche della sua Arcadia, le ultime poco prima del 1504 (le sue
ecloghe sono in genere polimetre).
Per inciso, Di Benedetto puntualizza che l’ecloga “pescatoria” nasce proprio per
iniziativa di Sannazzaro,
30
attingendo al modello teocriteo di uno dei suoi Idilli,
intitolato appunto I pescatori.
Le cinque Eclogae piscatorie di Sannazzaro sono stese in latino, tuttavia hanno vasta
ripercussione anche nell’ambito della tradizione bucolica in volgare e del dramma
pastorale.
La prima ecloga pescatoria in volgare si deve a Bernardo Tasso, padre di Torquato, ed è
stata pubblicata nel 1534 nel secondo libro degli Amori; è del 1581 invece l’Alceo, il
cosiddetto “Aminta bagnato”, il cui intreccio è ricalcato dal veneziano o padovano
29
Benivieni, Arsocchi, Boninsegni, Bucoliche elegantissime, Firenze, Miscomini, [1481], 1482.
Cfr. F. Arsocchi, Egloghe, ed. critica e commento a cura di S. Fornasiero, Bologna, Commissione per i
testi di lingua, 1993.
30
A. Di Benedetto, L’ “Aminta” e la pastorale cinquecentesca in Italia, “Giornale storico della letteratura
italiana”, CXXVIII (1996), 4, pp. 481-508.
13
Antonio Ongaro sulla base dell’Aminta, adattandolo però a un ambiente marittimo, e
inaugurando nello specifico il sottogenere della favola pescatoria, che può essere
ambientata tanto sul mare quanto sui fiumi.
L’attitudine a rovesciare i temi idillici campestri o boscherecci in marittimi e pescatori
permarrà fino al XVIII secolo.
Carducci riconosce a Sannazzaro “d’aver dato il più dell’esempio dell’ecloga, accenno
quasi divinatorio al dramma pastorale”;
31
l’opera di Sannazzaro presta, infatti, alla
futura favola pastorale paesaggi e personaggi.
La novità sta anche nel fatto che le ecloghe di Sannazzaro perdono la loro veste
allegorica, avviandosi veramente all’antica Arcadia virgiliana.
L’Arcadia ha profondi influssi sulla produzione europea per oltre un secolo: le sono
debitori, in Spagna, a metà del Cinquecento, Giorgio di Montemayor, che compone la
Diana, e Cervantes con la Galatea; nel 1590, in Inghilterra, Shakespeare e Sidney, che
compone la sua Arcadia; in Francia, Onorato d’Urfè, con l’Astrea, del 1610.
31
G. Carducci, Su l’Aminta di Tasso. Saggi tre, cit., p.163.
14
4. L’ affermazione dell’Arcadismo
4.1. Con l’affermazione e la nuova lettura in chiave elegiaca piuttosto che allegorica
degli idilli di Teocrito e Virgilio, nonché gli entusiasmi aurei dell’epoca di Lorenzo e il
contribuito di successo all’atmosfera di malinconia pastorale con l’Arcadia
32
di
Sannazzaro, si ha nel tardo Quattrocento la maturazione di un’Arcadia ideale e di un’età
dell’oro completamente nuove.
L’arcadismo persegue e coltiva miti di edonismo erotico, naturale e musicale, liberando
i motivi letterari di sovrastrutture moralistiche, religiose e politiche.
Aulo Greco nota che il motivo della campagna e della vita pastorale qualifica molta
letteratura del Medioevo con l’intento diffuso di offrire occasione e materia alla poesia
satirica, esprimendo un preciso senso di antipatia nei confronti del mondo contadino, e
accentuando l’agonismo tra “urbanitas” e “rusticitas”
33
(lo stesso Dante vilipendia il
villano che viene dalla città, come testimoniano questi versi: “Non altrimenti stupido si
turba/ montanaro, e rimirando ammuta, / quando rozzo e selvatico s’inurba
34
).
4.2. Nel Rinascimento, la vita bucolica viene esaltata: l’Arcadia diventa luogo di
mitizzazione, Eden, che lo stesso Lorenzo De’ Medici definisce “giardino amenissimo,
abbondante di tutte le cose piacevoli e dilettevoli, (…) di tutte le amenità che può
pensare il cuore dell’uomo”
35
.
E se Greco riconosce a Petrarca il merito di aver per primo rinnovato il rapporto amore-
natura, determinando il valore drammatico dell’egloga nella funzione germinale del
dramma pastorale, egli nota anche come nelle prime egloghe trecentesche come in
quelle di gran parte del Quattrocento il tema della natura funga da cornice di intento
allegorico alla materia; non rappresenta perciò ancora l’ideale celebrativo del mondo
campestre, ma l’ambientazione ideale di ogni allegoria.
Anche Arnaldo di Benedetto afferma che “nelle ecloghe quattrocentesche latine o
volgari, spesso allegoriche, come già quelle trecentesche di Petrarca e Boccaccio, il
32
I. Sannazzaro, Arcadia, Bari, Mauro, 1961.
33
A. Greco, Il vagheggiamento della natura e dell’amore alle origini del dramma pastorale, in AA.VV.,
Le origini del dramma pastorale in Europa, cit., p. 41.
34
Dante, Purgatorio, XXVI, 67-69.
35
L. De’ Medici, Opere, a cura di A. Simioni, Bari, 1939, vol. I, p.42.
15
repertorio bucolico non era che una grammatica espressiva, attraverso la quale
trovavano forma temi attuali, encomiastici, politici o privati.”
36
Solo nell’ecloga tardo quattrocentesca e cinquecentesca in volgare, puntualizza ancora
di Benedetto nel saggio, si attenua la componente allegorica caratteristica di tanta poesia
pastorale del Quattrocento, e dileguano le punte espressioniste, latineggianti o
popolaresche: è il paesaggio ideale, l’Arcadia di Virgilio a permeare la poesia pastorale
del XVI secolo, e decisivo è proprio il paradigma offerto dall’Arcadia di Sannazzaro,
con il vagheggiamento di un’età dell’oro oggetto di rimpianto, e l’espressione di un
desiderio sincero di bellezza classica.
Anche Alberto Tenenti nel suo saggio Figurazione bucolica e realtà sociali
37
rileva
come la figurazione bucolica soddisfi in primo luogo la ricerca di uno scenario
allietante, diverso e complementare, extraurbano e semireale, vivido, colorato, di
sospirata evasione: la mancanza di realismo di un simile quadro che tende all’idillico è
assolutamente deliberata.
La figurazione bucolica traveste un ambiente concreto come quello extraurbano per
trasformarlo nel contesto in cui adattare gli sviluppi rappresentativi di cui la società
urbana sente il bisogno; il sordo senso di rivolta dei contadini e dei pastori è un tabù da
non evocare, e il loro ambiente deve apparire quanto più possibile levigato e idillico, per
accogliere la trasposizione e la proiezione dei sentimenti della società urbana ed in
particolare della sua elite.
Per il mondo cortigiano e cittadino il paesaggio campestre dev’essere vagheggiato, ad
esso deve associarsi il gusto dell’incanto.
Tenenti sottolinea due aspetti di fondamentale importanza: se da un lato, infatti, si vuole
ritrovare una dimensione priva di asperità sociali e di rischi ideologici (la stessa
presenza del “magico” in figurazione bucolica assume le forme di un soprannaturale
“neutro”, con i suoi dèi, semidei, ninfe, e maghi, senza assumere mai le forme scabrose
del contatto con forze diaboliche o nemiche di Dio, al fine di evitare le censure delle
autorità religiose), dall’altro il rango sociale dell’elite non le permette si stabilire un
rapporto confidenziale con l’umanità “concreta” dei campi, portandola a traslare perciò
l’ambiente ad un contesto ideale, nel quale al mondo campestre -più esplorato dalla
36
A. di Benedetto, L’ “Aminta” e la pastorale cinquecentesca in Italia, cit., p. 495.
37
A. Tenenti, Figurazione bucolica e realtà sociali, in AA.VV., Origini del dramma pastorale, cit., pp.
17-28.
16
commedia e dalla farsa rusticale- si preferisce quello bucolico, più carico di memorie
poetiche.
L’Arcadia così diventa il canale prediletto attraverso cui si realizza il trapasso tra vita
cittadina e figurazione bucolica, è il rifugio ideale e sognato dove cortigiani e borghesi
possono recuperare il senso di un’antica purezza e sottrarsi alle costrizioni di una
società conscia del proprio convenzionalismo e perciò desiderosa di evaderne, senza
tuttavia compromettere quanto ha acquisito; in questo modo l’elite “può contemplarsi
senza rimorso, sognare senza timore di risvegliarsi, evadere senza smarrirsi affatto, (…)
estraniarsi da sè senza perdersi”.
38
Sannazzaro è perfettamente cosciente della tempestività culturale della sua opera; lo
scrittore di corte rinviene nell’Arcadia una complementarietà essenziale al proprio stile
di vita agghindato, ed esprime parimenti l’acuto lamento per la dura età in cui è
costretto a vivere: non mancano i risvolti di attualità, e il vagheggiamento di un’età
felice nasconde una realtà storica lacerata dai conflitti.
Questi accenti li si può ritrovare dal Driadeo di Pulci alle Selve d’amore di Lorenzo il
Magnifico, dalla quarta ecloga di Boiardo alle Egloghe di Serafino dall’Aquila fino alla
Egle di Giraldi Cinzio.
39
Anche Cesare Vasoli non manca di sottolineare che il mito aureo è ben più che una
consunta formula letteraria, rivissuta nella cornice dell’idillio agreste o sotto le vesti di
un’Arcadia riplasmata su cliches classici.
Il vagheggiamento di una purezza originaria e di un mondo illuminato dall’amore
platonico (sulle tracce del De Amore di Marsilio Ficino) non è quindi solo una
convenzione stancamente ripetuta, ma “il contrapposto rivelatore di una vita consumata
nella difficile e incerta professione dell’uomo di lettere, in una società che era sempre
più dominata dal principio della “dissimulazione e dalle forme, ormai codificate, dell’
‘inganno’ politico e dello ‘opportunismo’ etico e religioso.“
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I letterati conoscono l’amara esperienza della vita di corte, la durezza dei poteri politici
e religiosi e gli effetti di un’età di grandi conflitti, contrastanti con l’immagine di un
mondo armonioso, concorde, pacifico, dominato dal principio ordinatore dell’Eros
platonico.
38
Ibidem, pp. 26-27.
39
Ibidem, p. 27.
40
C. Vasoli, Tra mito dell’amore e ritorno all’età dell’oro. Considerazioni sulla cultura del tardo
Quattrocento, in AA.VV., Origini del dramma pastorale, cit., pp. 29-39.
17
Ficino nel 1492 riconosce nella Firenze di Lorenzo De’ Medici la realizzazione della
perfetta condizione della repubblica platonica illuminata dalla verità cristiana, e molti
dei letterati, fra cui anche Ariosto, Boiardo o Pontano fanno ricorso allo stereotipo
encomiastico-cortigiano dell’associazione tra ritorno dei “saturnia regna “ e l’apologia
di questo o quel Principe o dinastia; il motivo non è però puramente adulatorio, ma
esprime l’ansiosa speranza di concordia religiosa, civile e politica. Le grandi crisi del
primi decenni del Cinquecento rendono sempre più irreale la speranza di un avvento di
un “nuovo tempo”, spingendo a proiettare nel sogno della vita arcadica un
“paradiso”appena intravisto e perduto, l’aspirazione all’armonia e alla pace per
un’umanità figlia di una natura non toccata dal peccato e ignara del male, che vive in
assoluta libertà i propri sentimenti.
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5. LA TRADIZIONE EGLOGHISTICA TRA LA FINE DEL XV E IL
PRIMO QUARANTENNIO DEL XVI SECOLO
5.1. La precedente ripartizione in tre grandi “filoni letterari” della produzione pastorale
del XV secolo non è in realtà così netta, ed è perlopiù indicativa della varietà e diversità
degli apporti che spesso si intersecano e intrecciano in generi per i quali una
categorizzazione ben definita risulta estremamente difficoltosa.
Spesso il termine egloga, infatti, viene usato indistintamente per indicare sia produzioni
di un livello letterario alto, di contenuto lirico-elegiaco, che produzioni atte alla
rappresentazione in cui sono presenti elementi comici, farseschi, rusticali; ecco la
ragione che spiega la difficoltà di definire con certezza l’appartenenza all’uno o all’altro
genere della produzione di questi anni.
Bigi sottolinea questa difficoltà nel suo saggio Il dramma pastorale del Cinquecento,
riferendosi al complesso di rappresentazioni pastorali composte tra la fine del
Quattrocento e la metà del Cinquecento: “si tratta di opere che sembra impossibile
ricondurre ad un modello specifico (…) che risultano piuttosto dalla varia e libera
commistione di svariate ed eterogenee tradizioni, dall’ecloga lirica dialogata alla sacra
rappresentazione, alla farsa rusticana, alla commedia di imitazione classica; dal
romanzo pastorale alla lirica petrarchistica, al poemetto mitologico-encomiastico, non
senza frequenti inserimenti musicali e coreografici: una commistione che trova
rispondenza nella varietà delle denominazioni (più spesso ecloga, ma anche favola,
comedia pastorale, festa, tragicommedia); della struttura, ora semplicissima ora più
complessa; dei personaggi, che sono pastori e ninfe ma spesso anche dei mitologici,
eremiti, uomini selvaggi, maghi, medici, contadini; della lingua, in cui ad espressioni
auliche si alternano e si mescolano elementi dialettali e magari gergali; del metro, che
non è quasi mai unico, ma accoglie, accanto alla terzina piana o sdrucciola, la ottava, la
canzone, la ballata, la frottola e altre forme liriche, come la strofa liberamente intessuta
di endecasillabi e settenari.
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41
E. Bigi, Il dramma pastorale del Cinquecento in Poesia latina e volgare nel Rinascimento italiano, cit.,
pp. 346-347.