6
giudizi morali, chiarendo le proprietà logiche dei termini che in essi occorrono; di
converso, non è possibile una altrettanto efficace riflessione relativa all’etica normativa.
I giudizi morali sono tali in primis se sono logicamente coerenti, ossia prescrittivi ed
universali, poiché, secondo Hare l’etica è una branca della logica: “Io definisco l’etica
teoretica una branca della logica, perché il suo scopo principale è scoprire il modo di
determinare quali sono gli argomenti giusti rispetto alle questioni morali” (SO, p. 4).
Pertanto, quando Hare sostiene in The Language of Morals (1952) che gli enunciati
prescrittivi devono rispondere alla domanda (che fare?), egli asserisce che la forza
motivante è intrinseca agli enunciati stessi: il dovere primario per il filosofo morale è
operare dei ragionamenti logicamente coerenti al fine di agire in modo razionale.
L’analisi di Hare è comunque innovativa nella misura in cui riconosce agli enunciati
dell’etica un significato autonomo: in tal modo, viene superare l’argomentazione svolta
dall’emotivismo etico che, nella formulazione radicale di Ayer
1
, non annetteva alcun
significato alle proposizioni morali, mentre nella formulazione moderata di Stevenson
2
,
postulava l’esistenza di un generico significato emotivo, secondo il quale gli enunciati
dell’etica avevano il compito di persuadere l’ascoltatore. Hare invece è convinto che le
proposizioni della morale possiedono un significato peculiare, quello prescrittivo, in
quanto devono fornire ragioni per la condotta: l’etica gode dunque di uno spazio
autonomo, giacché le sue proposizioni non devono essere vere o false, bensì universali e
prescrittive nel senso sopra definito: è questo il non cognitivismo di Hare.
La convinzione secondo cui l’etica sia una branca della logica promuove un’analisi
semantica
3
degli enunciati morali, tesa a chiarire la funzione ed il significato che essi
svolgono all’interno del linguaggio morale, unitamente al fatto che tali enunciato
influenzano la condotta, determinando le decisioni. Gli enunciati dell’etica sono perciò
analizzati in virtù di determinate regole d’uso, ossia in virtù delle consuetudini secondo
cui i parlanti li impiegano nel linguaggio nel quale esprimono tali enunciati. Il senso
1
Cfr. A. J. Ayer, Language, Truth and Logic, Gollacz, London 1946, (trad. it. Linguaggio, verità e
logica, a cura di G. De Toni, Feltrinelli, Milano 1987).
2
C. L. Stevenson, Ethics and Language, Yale University Press, Yale 1944 (trad. it. Etica e Linguaggio, a
cura di S. Ceccato, Longanesi, Milano 1962).
3
Scrive U. Scarpelli, I fondamenti e il metodo dell’analisi del linguaggio, in L’etica senza verità, il
Mulino, Bologna 1982, p. 16: “le regole semantiche [sono] quelle concernenti le relazioni tra i simboli e
gli stati o eventi non linguistici”.
7
delle proposizioni e dei termini etici infatti coincide con le loro regole d’uso; il fatto poi
che ogni lingua e cultura possieda dei differenti segni fonetici per esprimere i concetti
morali, non significa che non esistano regole d’uso universali che regolino l’utilizzo dei
concetti espressi dai termini morali
4
. Per esempio, se un termine come “ought” è
utilizzato in senso etico, esso avrà un contenuto concettuale comune alle differenti
lingue, poiché in ogni linguaggio esso segue determinate regole d’uso che lo collegano
all’espressione di un’obbligazione
5
. Pertanto, “se ‘ought’ è un termine formale, allora
dovremmo essere capaci di scoprire tutto quel che c’è da sapere riguardo al suo
significato ed alle regole per il suo impiego attraverso lo studio delle sue proprietà
logiche” (SO, p. 6)
6
, le quali, per gli enunciati contenenti il verbo “dovere”, sono la
universalità e la prescrittività. Ciò vuol dire che
i significati delle proposizioni e della parole morali…determinano la logica
delle inferenze nelle quali esse appaiono. Pertanto, uno studio dei significati delle
parole o proposizioni morali, o di quello che le persone intendono asserire quando
le pronunciano, dovrebbe renderci capaci di indagare le proprietà logiche di quel
che essi dicono, e così decidere se quel che sostengono sia in sé coerente (self-
consistent), se implica qualcosa, ed in generale quali argomenti (razionali) sono
buoni e quali non lo sono. Dunque la filosofia del linguaggio, applicata al
linguaggio morale, dovrebbe essere in grado di fornire una struttura logica al
nostro pensiero morale (SO, p. 1).
Hare tuttavia, a partire dell’opera Freedom and reason (1963), sembra più incline a
dedicarsi alla disamina della condotta pratica, senza però elaborare una dottrina
normativa, anzi, rimanendo convinto del fatto per cui essa esula dal compito del filosofo
morale, il quale non la può fondare in modo razionale. Per questo, accanto ad una
definizione di carattere “pratico” delle proprietà logiche dei termini morali, egli rimane
convinto che, una volta chiariti i loro significati, gran parte del lavoro sia compiuto:
4
Un teorico dell’utilitarismo come R. D. Brandt contesta però questa idea, sostenendo che “anche se le
intuizioni linguistiche mirassero ad una parafrasi della terminologia normativa più rigorosa di quanto
facciano effettivamente ora, non ci si potrebbe appoggiare ad esse per farsi guidare nella riflessione
normativa. Perciò il linguaggio può incorporare distinzioni confuse, o non riuscire ad operare le
distinzioni che è importante fare. In effetti, l’inglese non lo fa” (Cfr. A Theory of the Right and the Good,
Clarendon Press, Oxford 1979, p. 5).
5
Si ricorda che Hare sostiene di appartenere “alla scuola di pensiero secondo la quale studiare le proprietà
logiche delle parole è lo stesso che studiare i concetti. La logica formale, in questa prospettiva, è la
formalizzazione delle regole che governano le parole…e che determinano i significati di quelle parole”.
Cfr., L’ontologia in etica, in Saggi di teoria etica, a cura di R. Rini, il Saggiatore, Milano 1992, p. 103.
6
Un comportamento in parte differente possiede il termine “buono”, il quale è in genere anche usato in
proposizioni non prescrittive. Cfr. R. M. Hare, The Language of Morals, capp. IX e X.
8
l’enunciazione di regole per rendere coerente e chiaro il nostro ragionamento morale è
una condizione essenziale per agire correttamente. Ciò che rimane fondamentale è la
correttezza formale delle analisi del filosofo, il quale peraltro sa che le proposizioni
dell’etica, essendo non verificabili in quanto prive di significato descrittivo, non
possono avvalersi, per essere fondate, delle procedure razionali proprie delle
posposizioni scientifiche. Il valore che dunque va promosso, in primo luogo e
preventivamente, è quello della coerenza logica dei nostri giudizi, ovvero la necessità di
affermare il loro accordo con le regole d’uso dei termini che li compongono. Se un
giudizio si mostra non universalizzabile, esso non è un giudizio morale e colui che
pretende di impiegarlo come tale mostra di non conoscere il significato dell’universalità.
“Il contributo di un filosofo a tali discussioni consiste nella capacità che egli deve
possedere di chiarire i concetti impiegati (principalmente i concetti morali stessi) e,
mostrando le loro proprietà logiche, di portare alla luce gli errori e porre, al loro posto,
argomentazioni valide”
7
. I due elementi base che compongono l’argomentazioni morale
sono perciò la logica ed i fatti empiricamente osservabili
8
; tra di essi, la logica possiede
una indubbia priorità epistemologica, sebbene cronologicamente siano in genere i fatti
non morali, ossia i caratteri contingenti delle situazioni in cui si agisce, ad essere
incontrati per primi nella realtà.
Per questo Hare ritiene che per il filosofo non sia possibile obbligare nessuno ad
agire in un certo modo, ma che sia necessario, per giustificare una certa scelta, fornire
delle valide ragioni all’individuo per indurlo ad agire in base ad essa. Pertanto,
l’eventuale decisione in contrasto con un principio morale razionale, non è imputabile
ad un difetto dell’argomentazione, bensì ad una mancanza dell’individuo, il quale si
mostra incapace di accettare pienamente la ragione che gli viene fornita come motivo
dell’azione: come detto, per Hare se ciò accade, significa che l’individuo non è in grado
di ragionare in modo critico in etica. Per questo si può dire che la teoria etica di Hare è
7
R. M. Hare, Teoria etica ed utilitarismo, in A. K. Sen/B. Williams, Utilitarismo ed oltre, a cura di S.
Veca e A. Besussi, il Saggiatore, Milano 2002, p. 32.
8
In Moral Thinking, Hare evidenzia come il processo che conduce alla decisione morale contempla la
logica, le opinioni fattuali, i giudizi prescrittivi e l’azione. Tuttavia, i primi due elementi sono quelli
realmente originali e fondativi, poiché gli ultimi due sono da essi derivati.
9
“internalista”
9
, poiché, in quanto analisi concettuale delle proposizioni dell’etica, essa
dichiara che accettare una prescrizione morale significhi eo ipso anche possedere una
motivazione per agire come essa prescrive. Si può altresì dire che l’individuo che agisce
contro il prescrittivismo opera una errata valutazione della situazione che affronta,
perché possiede delle informazioni limitate, sia sui fatti, sia sul significato dei termini
attraverso cui egli mette in forma linguistica le proprie scelte e comprende le preferenze
altrui, anch’esse espresse linguisticamente. Pertanto, l’individuo agente deve compiere,
quantomeno a livello ideale, un ragionamento che si potrebbe definire logico e
teoretico, e solo in un secondo momento etico, dato che, come detto, per Hare il
fondamento della giusta condotta è una piena capacità di pensiero morale razionale, di
cui l’analisi semantica rappresenta un caposaldo
10
.
L’elemento di novità che comunque comincia a farsi strada nella riflessione di Hare
in Freedom and reason (ma nemmeno in The Language of Morals esso era del tutto
assente
11
) è però significativo: Hare a questo proposito sostiene che la sua teoria etica,
denominata “prescrittivismo universale” è realmente cogente se mostra di possedere
delle implicazioni normative. Per di più, Hare lascia trasparire una certa inclinazione per
l’utilitarismo, ma ritiene che esso sia solo una delle dottrine normative che possono
accordarsi col prescrittivismo da lui elaborato. Questi infatti può benissimo fornire
efficaci indicazioni per la condotta ed impiegare in modo strumentale alcune categorie
concettuali dell’utilitarismo, il quale, depurato della sua componente edonistica ed
eudemonistica, è un suo corollario. In particolare, l’universalità, pur rimanendo una
9
L’internalismo “afferma…che 1) vi è una relazione necessaria tra considerazioni morali e motivazione;
2) tale relazione è costitutiva del concetto stesso di considerazione morale; 3) essa è una verità
concettuale che riguarda la moralità. L’internalismo perciò è un modo particolare di rispondere al
requisito della motivazione, in quanto stabilisce una relazione interna tra motivazione e
giustificazione…le considerazioni morali sono intrinsecamente motivanti proprio perché sono esse stesse
espressioni di fattori motivanti, come i desideri e le passioni”. Cfr. P. Donatelli, La filosofia morale,
Laterza, Roma-Bari 2001, pp. 117-118.
10
B Williams in L’etica e i limiti della filosofia, a cura di R. Rini, Laterza, Roma-Bari 1987, p. 155,
accusa Hare di paragonare la scorrettezza morale con la scorrettezza logica, la quale invece ha una natura
diversa. Considerazioni critiche sulla debolezza del concetto di akrsaia sono svolte anche da A. K. Sen,
Scelta, ordinamento e moralità (1972), in A. K. Sen, Scelta benessere, equità, a cura di S. Zamagni, il
Mulino, Bologna 1986, pp. 141-142.
11
L’etica infatti non coincide del tutto con la filosofia del linguaggio. Cfr., LM, p. 57: “L’errore più grave
[di un’etica solo linguistica]…consiste nel non tenere conto di un fattore essenziale della vita morale.
Questo fattore è la decisione. Chi agisce moralmente non fa una semplice inferenza, ma decide di violare
un principio morale oppure di rispettarlo”.
10
regola di natura logica, può avere un’applicazione pratica, in quanto essa impone di
giudicare allo stesso modo situazioni simili, ovvero impone di essere del tutto imparziali
quando si affrontano questioni pratiche e di essere disposti a soppesare in modo appunto
imparziale le inclinazioni, gli interessi e gli ideali delle persone coinvolte. Questo
processo si attua attraverso la procedura dell’inversione dei ruoli che, condotta
attraverso l’immedesimazione ed un atteggiamento simpatetico, deve consentire al
soggetto di immaginare quel che l’altro prova, permettendogli di capire quel che lui
stesso proverebbe se si trovasse in quella condizione, dotato di quelle particolari
inclinazioni. Pertanto, un giudizio morale è tale se supera una sorta di test di
universalizzabilità, ovvero se chi lo enuncia nella situazione S è disposto ad enunciarlo
per tutte le situazioni simili ad S negli aspetti rilevanti ed è altresì disposto a prescrivere
la medesima condotta nel caso egli si trovasse nei panni dell’altro individuo: chi non
accetta questi presupposti, non enuncia giudizi morali. Dunque, un interesse conta più di
un altro solo se espresso da un giudizio universalizzabile e, di riflesso, se a posteriori
mostra di procurare conseguenze positive: vi è qui un riferimento al precetto evangelico
che chiede di non fare agli altri quello che non vuoi sia fatto a te.
Tuttavia, si è fatto notare che è possibile che un soggetto, pur accettando i
presupposti formali del prescrittivismo, possa poi comunque agire, a livello pratico, in
modo immorale: è il caso del fanatico nazista che afferma che, nel caso si scoprisse che
lui avesse lontane origini ebraiche, accetterebbe di essere ucciso nei forni crematori.
Hare ammette che, di fronte ad un fanatico di questo tipo, la sua teoria etica potrebbe
fare ben poco, poiché essa propone solo delle ragioni logiche, non pratiche, agli
individui, i quali possono anche accettare tali ragioni, ma agire diversamente. Ad ogni
modo, aggiunge l’autore in modo consolatorio, per fortuna i fanatici di questo genere
sono rari.
Anche per rispondere a queste obiezioni che lui stesso riconoscerà come in parte
fondate, Hare nelle opere successive apporterà delle modifiche alle sue riflessioni
morali, nel tentativo di completare il prescrittivismo attraverso l’utilitarismo, visto
adesso come dottrina coerente con il prescrittivismo stesso. I risultati dell’analisi
metaetica devono rimanere come punti saldi, assodati, ma sembra farsi strada l’esigenza
di una più stringente riflessione di stampo normativo che possa influenzare realmente la
11
condotta. L’utilitarismo non viene ad essere più un semplice corollario o uno strumento
del prescrittivismo universale, ma è ad esso organico, in quanto deriva logicamente dal
prescrittivismo stesso, il quale permane come suo presupposto formale, a priori. In altre
parole, i giudizi morali universali e prescrittivi, se utilizzati nel modo corretto, non
possono che condurre, sul piano normativo, ad una dottrina utilitarista, sebbene non
sempre nella pratica gli individui agiscano di conseguenza.
In particolare, l’adesione all’utilitarismo della preferenza nasce non solo da un rifiuto
dell’edonismo, già chiaro in Freedom and Reason, ma anche, come aveva detto già
Sidgwick, dalla convinzione che vi debba essere una distinzione tra la teoria etica (“una
teoria etica costituisce una riposta alla domanda centrale dell’etica teorica di quali siano,
in via di principio, le condizioni necessarie e sufficienti dell’agire moralmente retto e
doveroso…ma nulle dice circa il modo in cui, in concrete situazioni di scelta, si deve
deliberare”) e il metodo di deliberazione, il quale “si articola in una serie di direttive
indicanti le operazioni che si debbono fare al fine di individuare, in concrete situazioni
di scelta, quale sia l’azione moralmente retta e doverosa”
12
. A parere di Hare, come il
prescrittivismo può fornire una base formale ed universale all’utilitarismo, allo stesso
tempo quest’ultimo può diventare il completamento del prescrittivismo. Inoltre, per
rendere conto in modo più chiaro dell’effettivo svolgimento del nostro pensiero morale
(il quale è molto complesso e non riducibile ad un insieme di procedure esclusivamente
razionali), egli elabora la dottrina dei due livelli del pensiero morale. In tal modo Hare
ritiene di poter spiegare sia quale dovrebbe essere un pensiero morale ottimale, sia quale
ruolo e, entro certi limiti, quale funzione possono svolgere gli elementi non pienamente
razionali o intuitivi sui quali spesso basiamo la nostra condotta.
Esiste un livello intuitivo, attraverso cui gli individui agiscono secondo le proprie
intuizioni morali, le quali sono utilizzate in modo immediato ed acritico, specialmente
quando gli individui non sono in grado di ragionare in modo lineare, per esempio perché
inesperti o costretti ad agire in situazioni di stress, tensione, ovvero allorché non è
possibile operare una valutazione completa della situazione. In questa fase chi agisce si
affida alle proprie intuizioni morali, che Hare denomina principi prima facie, sulla scia
12
G. Pontara, Utilitarismo e giustizia distributiva, in E. Lecaldano/S.Veca, (a cura di), Utilitarismo oggi,
Laterza, Roma-Bari 1986, p. 64.
12
della riflessione di D. Ross che però Hare giudica incompleta, come peraltro tutto
l’intuizionismo etico
13
. Questo livello di pensiero, le cui intuizioni non sono solo regole
d’esperienza, ma qualcosa di più pregnante, ovvero principi la cui trasgressione provoca
rimorso, possiede comunque un certo ruolo ed è in genere affidabile, soprattutto se
deriva da una buona educazione e da buone esperienze precedenti. Il livello superiore,
quello critico, caratteristico della riflessione razionale, condotta serenamente, a mente
fredda, è paragonabile al modo in cui un ipotetico arcangelo affronterebbe le questioni
morali: “alle prese con una situazione imprevista [l’arcangelo] sarà in grado di
individuare tutte le proprietà, comprese le conseguenze delle azioni alternative, e di
formulare un principio universale (ma forse altamente specifico) che egli seguirà in
quella situazione, indipendentemente dal ruolo che occupa. Poiché egli non possiede
alcun sentimento egoistico ed è privo della altre debolezze umane, agirà secondo quel
principio, se esso gli ordina di agire” (MT, pp. 77-78).
Il livello critico seleziona i migliori principi prima facie utilizzati al livello intuitivo
e, attraverso questa selezione razionale ed oculata, può porre fine ai conflitti e alle
incoerenze fra principi che hanno luogo solo se non si è in capaci di pensare
criticamente. Tra i due livelli di pensieri vi è un rapporto “moderatamente” gerarchico,
in quanto il pensiero critico è teoreticamente superiore all’intuitivo, tuttavia, se una
persona è stata bene educata (preferibilmente da un educatore utilitarista) ed è capace di
esercitare il proprio pensiero morale in modo efficace, tra i due livelli, in gran parte
delle situazioni quotidiane, vi è in genere accordo. Secondo Hare, l’utilitarismo è la
dottrina morale che meglio si accorda con il livello intuitivo, quello attraverso il quale
gli individui agiscono quotidianamente e che dunque rappresenta l’origine della
maggior parte dei nostri comportamenti morali. Ciò significa che se un certo atto
compiuto intuitivamente si rivela efficace, ossia benefico, la persona che lo ha compiuto
lo riterrà d’ora in avanti tale e lo farà entrare nel suo patrimonio di principi prima facie.
Per diventare un giudizio morale, questo atto dovrà però essere accettato dal pensiero
critico, ovvero essere universalizzabile, prescrittivo e in linea con il dovere di giudicare
imparzialmente fra le proprie preferenze e quelle altrui. Se esso soddisfa questi criteri,
13
Come sottolinea G. Preti, in Morale e metamorale, a cura di E. Migliorini, Franco Angeli, Milano
1989, vi è tuttavia una differenza tra l’intuizionismo di Moore, quello di Prichard e quello di D. W. Ross.
13
per il pensiero critico potrà essere considerato un principio morale valido non solo
intuitivamente (ovvero prima facie), bensì anche razionalmente. Pertanto, una volta che
si presenta l’occasione per applicare il suddetto principio, l’individuo vi farà ricorso in
modo immediato, senza una nuova riflessione. I dettami dell’utilitarismo sono quelli che
si mostrano in genere capaci, a livello critico, di essere espressi attraverso proposizioni
prescrittive ed universali, e di produrre, a livello empirico, intuitivo, le conseguenze più
benefiche, promovendo le preferenze universalizzabili e dotate di una elevata utilità di
accettazione.
I due momenti di pensiero non si succedono cronologicamente, né l’uno deve
superare l’altro ma, come detto, l’ideale è che entrambi, nel proprio ambito di
applicazione, siano efficienti. Essi non sono due modelli astratti, anche perché, nota
l’autore, non esiste né un individuo che agisce solo intuitivamente, né un individuo che
agisce solo criticamente (infatti solo un ipotetico arcangelo potrebbe fare così). L’ideale
è ottenere la giusta miscela tra questi due modi di affrontare le questioni morali. Hare
sostiene inoltre che solitamente, a livello intuitivo, si rivela più efficace l’utilitarismo
della norma, mentre, a livello critico, l’arcangelo agirebbe secondo l’utilitarismo
dell’atto, poiché egli non ha bisogno di rispettare delle norme, in quanto agisce
spontaneamente nella maniera utilitaristicamente più efficace e corretta (e dunque ha
incorporato in sé le regole).
Queste precisazioni servono all’autore per sfuggire alle accuse di eccessiva
astrazione della sua argomentazione e, al contempo, all’obiezione secondo la quale la
figura dell’arcangelo è irreale, alla pari di quella dello spettatore imparziale simpatetico
(esplicitamente ripresa da Harsanyi dalla riflessione di Adam Smith). Si può qui
osservare che, attraverso l’impiego della figura dell’arcangelo, Hare utilizza, come altri
filosofi morali moderni, una “finzione logica”. Inoltre, la figura dell’arcangelo si
differenzia da quella dell’osservatore imparziale simpatetico in quanto trova la sua
giustificazione nell’universalità, ossia in una proprietà logica consistente nella
possibilità di tenere conto di tutti i desideri delle persone coinvolte, ossia di occupare
tutte le posizioni da loro occupate e giudicare alla fine nel modo giusto senza difficoltà.
Hare pensa che le contraddizioni che l’utilitarismo spesso ha mostrato nella pratica
fossero dovute al suo esser privo di un fondamento formale a priori, come invece
14
sarebbe il prescrittivismo, in quanto teorie etica. Il prescrittivismo è allora l’intelaiatura
che sorregge l’utilitarismo in quanto dottrina normativa e, per questo suo ruolo, a livello
formale, i suoi enunciati non possono ospitare riferimenti individuali. “Dalle proprietà
formali, logiche, delle parole morali, e in particolare dal divieto logico di introdurre
riferimenti individuali nei principi morali, è possibile derivare dei canoni formali di
argomentazione morale, per esempio la norma che vieta di fare discriminazioni tra gli
individui, a meno che non sussista una qualche differenza qualitativa che le
giustifichi”
14
. L’utilitarismo, dal canto suo, possiede un carattere pratico che lo rende
dinamico, attento ai fatti e in gran parte vicino al modo ordinario con il quale le persone
affrontano le questioni morali.
Il tentativo di fornire all’utilitarismo un fondamento universale, di carattere logico, è
di certo innovativo; l’utilitarismo si presenta da un lato come dotato di una base formale
(poiché regolato dal prescrittivismo), dall’altro possiede un valore sostanziale, in quanto
seleziona le preferenze degli individui che possiedono una elevata utilità di accettazione
in quanto universalizzabili.
Per quel che riguarda i caratteri dell’utilitarismo, Hare appare vicino ai teorici
moderni di esso: in particolare, condivide con J. J. C. Smart la possibilità di tratteggiare,
per la prima volta, un utilitarismo non naturalista e non cognitivista
15
. Hare inoltre
rifiuta le restrittive nozioni di “piacere” e “dolore” e quella di “felicità”, ritenuta troppo
vaga, assumendo invece il concetto di “preferenza” (derivato in gran parte da Harsanyi):
essa infatti sembra essere più funzionale per cogliere l’ampiezza e la varietà delle
motivazioni che spingono i soggetti ad agire. Pertanto, per l’utilitarismo di Hare:
a) i giudizi morali devono essere universalizzabili;
b) un giudizio deve altresì essere prescrittivo, ossia, dal punto di vista normativo,
esprimere le preferenze valide del soggetto, mentre, dal punto di vista logico, deve
indicare una condotta o un comportamento;
14
R. M. Hare, Giustizia ed uguaglianza (1978), in R. M. Hare, Sulla morale politica, a cura di R. Rini, Il
Saggiatore, Milano 1994, p. 214.
15
Cfr. E. Lecaldano, Introduzione a J. J. C. Smart/B. Williams, Utilitarismo: un confronto, a cura di B.
Morcavallo, Bibliopolis, Napoli 1985, pp. 18-20.
15
c) le preferenze valide sono quelle che, solo se universalizzabili, mostrano di
possedere una elevata utilità di accettazione, indipendentemente dalla singola persona
che le sperimenta
16
;
d) tali giudizi devono essere accettati dal soggetto come vincolanti per tutte le
situazioni simili, indipendentemente dal ruolo che egli occupa (vittima, carnefice); è
questo il criterio di imparzialità assoluta
17
;
e) va massimizzata la somma totale delle singole utilità individuali (principio
dell’ordinamento-somma);
f) gli atti vanno promossi o vietati solo se aumentano o diminuiscono la quantità di
benessere della società, ossia solo se promuovo o non promuovono le preferenze
accettate;
g) vanno promossi solo quegli stati di fatto che soddisfano al massimo le
preferenze.
Si può vedere come tale utilitarismo sia altresì welfarista
18
e consequenzialista:
sebbene Hare sia conscio delle critiche sovente mosse a questi due concetti, egli vuol
mostrare che anch’essi derivano logicamente dai presupposti formali (il prescrittivismo
universale) che l’utilitarismo assume a proprio fondamento. Inoltre, se si legge il punto
c), si nota come Hare non ritenga sia possibile escludere a priori tipi di preferenze,
mentre Harsanyi (il quale ritiene peraltro che vada massimizzata l’utilità media della
società, quella ottenuta sommando le utilità individuali e dividendola per il numero
delle persone) distingueva a priori tra preferenze accettabili e non accettabili
19
, mentre
16
“Come dire, un interesse è un interesse e una preferenza è una preferenza, di chiunque essa sia e, a certe
condizioni, qualunque essa sia”. Cfr. S. Veca, Utilitarismo e contrattualismo: un contrasto tra giustizia
allocativa e giustizia distributiva, in E. Lecaldano/S. Veca (a cura di), Utilitarismo oggi, cit., p. 102.
17
Cfr. H. Sidgwick, I metodi dell’etica, a cura di M. Mori, il Saggiatore, Milano 1995, libro III, cap. I, pp.
238-239: “Non possiamo dire che un’azione è giusta per A e ingiusta per B, a meno che non si possa
individuare nella natura o nelle circostanze delle due azioni una qualche differenza che possiamo
considerare come base ragionevole per una differenza relativa ai rispettivi doveri. Pertanto, se ritengo che
l’azione sia giusta per me, implicitamente ritengo che essa sia giusta per qualsiasi altra persona, la cui
natura e le cui circostanze non sono diverse dalle mie in qualche aspetto importante”.
18
Nota A. Sen che l’accettazione del presupposto welfarista implica altresì l’adesione al criterio
dell’ottimalità secondo Pareto, per il quale, la situazione X sarà socialmente preferita a Y, se almeno un
individuo preferisce X a Y e nessuno preferisce Y ad X. Uno stato X sarà inoltre ottimo in senso
paretiano se e solo se non esiste alcuno stato alternativo Y in cui almeno un individuo stia meglio e
nessun altro stia peggio
19
Per Harsanyi, le preferenze palesemente antisociali (come il sadismo, l’odio, l’invidia) devono essere
escluse a priori dalla considerazione utilitarista. Vanno escluse altresì le preferenze esterne, ossia quelle
16
Hare pensa che una tale distinzione a priori non sia sempre affidabile, giacché va
valutata la preferenza e la sua utilità di accettazione, sebbene egli alla fine concordi in
sostanza con Harsanyi rispetto alle preferenze da escludere
20
.
Questa forma di utilitarismo secondo Hare è conciliabile con l’etica di Kant, in
quanto anch’essa è alla ricerca di un fondamento universale a priori. In realtà, la
nozione di universalità in Kant ha un significato differente (per Kant sono doverosi in
comportamenti contrari a quelli non universalizzabili), giacché in Hare essa è solo un
presupposto logico, privo di effettivo carattere normativo. Come nota J. Mackie, questa
nozione di universalità, non sembra adatta a porsi a fondamento di alcuna fondazione
linguistica dell’utilitarismo stesso. La differenza con l’etica deontologica è dunque
evidente: “In una teoria deontologica…il tipo di azioni che possono essere ritenute
virtuose sono viste come intrinsecamente obbligatorie o ammirevoli ed anche la bontà
del carattere può essere vista come dotata di un valore intrinseco; le azioni e i caratteri
possono avere un merito per se stesse, non completamente derivato dalle conseguenze
che provocano”
21
.
La definizione che Hare fornisce del principio di utilità si basa su due premesse, una
di natura metaetica, analizzata soprattutto nella prima parte della sua riflessione, la
seconda di valore empirico. Secondo la premessa metaetica, “moralmente giusto in
questa circostanza” nel linguaggio ordinario significa che io voglio che sia compiuta
in base alle quali l’individuo dice come gli altri dovrebbero essere trattati. Le preferenze accettabili sono
invece quelle basate su credenze vere e che riguardano come l’individuo vorrebbe che gli altri lo
trattassero. In particolare fanno parte di questo gruppo le preferenze personali, le quali però possono
incorporare tendenze egoistiche ma, soprattutto, quelle morali, ossia “quelle che [l’individuo] manifesta
in quei momenti (magari rarissimi) in cui impone a se stesso di assumere un atteggiamento imparziale e
impersonale, vale a dire, appunto, morale” (J. C. Harsanyi, Teoria della decisione bayesiana e etica
utilitaristica, in L’utilitarismo a cura di S. Morini, il Saggiatore, Milano 1994, p. 35), e dunque “Le sue
preferenze morali, a differenza di quelle personali, assegneranno sempre il medesimo valore a tutti gli
interessi degli individui, inclusi i propri” (J. C. Harsanyi, Moralità e teoria del comportamento razionale,
in A. Sen/B. Williams (a cura di), Utilitarismo ed oltre, cit., p. 61).
20
Per esempio, sostiene Hare, le preferenze di un sadico non vanno escluse dalla considerazione
utilitaristica a priori, ma in quanto rivelano una utilità di accettazione pressoché nulla giacché non
universalizzabili. Pertanto, oltre al pensiero critico, anche l’esperienza qui conta: è infatti dubbio che una
società formata da sadici incrementi l’utilità della società stessa, mentre una società in cui più persone si
comportano come Madre Teresa di Calcutta avrebbe una elevata utilità di accettazione. Hare sostiene che
per fortuna la maggior parte delle persone possiede delle intuizioni tali che le conducono a preferire il
comportamento di Madre Teresa di Calcutta e la riflessione critica approverà di certo, in quanto è la più
razionale e benefica, questa inclinazione.
21
J. L. Mackie, Ethics. Inventing Right and Wrong, Penguin Books, Harmondsworth 1990 (1
a
ediz. 1977),
p. 149.
17
l’azione A invece che B in ogni circostanza come questa, tenendo conto che sono un
individuo prudente e pienamente informato. La premessa empirica si fonda invece
sull’idea per cui una persona prudente e pienamente informata, se può scegliere tra due
azioni, sceglierà quella che massimizza i benefici (che ha le migliori conseguenze).
la premessa empirica mi dice che, se sono prudente e credo che (qualche volta)
verrò a trovarmi nella posizione ora occupata da qualche persona influenzata dalla
mia azione, allora, quando devo scegliere tra A e B, preferirò A se e solo se credo
che A produca (rispetto a B), conseguenze che, nel complesso, soddisfano
maggiormente i desideri delle persone influenzate (dall’azione di A). Quindi
possiamo concludere che è moralmente giusto che faccia A invece che B se e solo
se l’azione A soddisfa al massimo i desideri delle persone influenzate. E questo…è
quanto afferma il principio di utilità
22
.
Ci sono stati diversi rilievi critici alla riflessione di Hare, diretti sia contro la sua
fondazione logico-linguistica dell’etica, sia contro l’utilitarismo. Bernard Williams tra
gli altri, ha contestato l’utilizzo dell’analisi logico-linguistica per elaborare la teoria
etica (egli ritiene che tale analisi sia insufficiente e condotta con un grado troppo elevato
di astrazione), e l’approdo all’utilitarismo, da lui ritenuta una dottrina che, se seguita
fedelmente, conduce a conclusioni ripugnanti. In particolare, egli ha messo in
discussione il presupposto consequenzialista, il fatto per cui l’utilitarista dovrebbe
interessarsi solamente agli effetti dei suoi atti, senza badare al valore dell’atto stesso che
viene compiuto. Pertanto, l’utilitarista potrebbe non solo accettare di compiere atti
riprovevoli per un obiettivo valido, ma si sentirebbe finanche sollevato da qualsiasi
responsabilità rispetto alla propria condotta, la quale risulterebbe dotata di valore solo
se in grado di incrementare l’utilità complessiva, indipendente dal genere di atto
compiuto. Per Williams (e pure per Rawls), ciò significa che l’utilitarismo non tiene in
alcun contro la separatezza delle persone, il valore della loro integrità ed identità
personale
23
.
Altre critiche sono state condotte, per esempio da A. K. Sen, in relazione alla pretesa
che il soggetto massimizzi le preferenze solo in condizioni di piena informazione: è
22
M. Mori, Utilitarismo, morale e diritto. Per una teoria etica obiettivista, Università degli Studi di
Milano, Istituto di filosofia e sociologia del diritto, Milano 1984, p. 126.
23
Tali rilievi riguardano l’utilitarismo in generale, non solo la riflessione di Hare, come testimonia
l’intervento del 1973 di B. Williams, Una critica dell’utilitarismo, in J. J. Smart/B. Williams,
Utilitarismo: un confronto, cit, pp. 122-124.
18
infatti evidente che non è detto che se una persona non è sa di agire nel modo ottimale
per raggiungere quello che preferisce, significa che si sbaglia nel comprendere quello
che effettivamente desidera. Inoltre, non è possibile fare riferimento alla somma delle
utilità individuali, senza alcuna attenzione per i bisogni e le esigenze dei singoli
individui i quali, avendo capacità differenti, avranno esigenze e preferenze diverse, sia
qualitativamente che quantitativamente. L’utilitarismo in sostanza non ritiene necessario
considerare la descrizione delle qualità individuali per determinate la condotta più
benefica, mentre Sen sostiene che le singole capacità vadano considerate
24
. Per esempio,
per un utilitarista due società, A e B, entrambe formate da due individui (x, y), la cui
somma delle utilità individuali ha valore 2, sono egualmente preferibili e dunque di
eguale valore. Questo però per Sen è un errore, in quanto esso non presta attenzione alla
distribuzione dell’utilità. Infatti, nella società A, il valore dell’utilità può essere, per
entrambi i suoi membri, uguale a 1 e dunque la distribuzione è equa; nella società B,
invece, l’utilità di x ha valore 2 e quella di y è 0: è evidente che le due società non sono
egualmente preferibili, perché solo A effettivamente si caratterizza per un’equa
distribuzione.
Hare evidenzia come la gran parte delle obiezioni contro l’utilitarismo sono costruite
ad arte per mettere in difficoltà l’utilitarismo stesso: vengono perciò presentati casi
irreali (si immaginano situazioni estreme e drammatiche che metterebbero fuori gioco
qualsiasi dottrina morale) per cui l’applicazione ad essi del suo modello di
ragionamento morale, può condurre ad esiti controintuitivi e ripugnanti per la morale
comune. In realtà, sostiene Hare, nella nostra vita è estremamente raro che ci si trovi di
fronte a questi casi e ciò significa che l’utilitarismo in genere funziona, per quel che
riguarda le normali vicende quotidiane. D’altra parte, è evidente che in condizioni
eccezionali può succedere che gli individui non abbiano la possibilità di ragionare in
modo critico ed è comprensibile che essi si comportino in base alle loro abitudini,
all’educazione che hanno ricevuto (ossia secondo le proprie intuizioni) e possano
24
L’attenzione esclusiva alla somma delle utilità individuali, secondo Sen, in una società utilitarista
avvantaggerebbe sempre l’individuo messo meglio, perché, stante la sua condizione di privilegio, egli
svilupperà delle preferenze più intense e di qualità diversa da chi sta peggio. Infatti, è probabile che chi ha
avuto una vita di privazioni, possa sviluppare preferenze di bassa intensità che, nella somma utilitaristica,
avrebbero meno valore di quelle di più alta intensità.
19
compiere azioni che a mente fredda appariranno in contrasto con il pensiero critico ed
antiutilitariste, ma che in quel momento difficile sembrano le più ragionevoli.
L’utilitarismo non ha alcuna difficoltà ad ammettere che questo tipo di azioni, benché a
volte a posteriori razionalmente insostenibili, erano quelle che, in quella particolare
situazione, andavano compiute (MT, pp. 181-183).
In realtà, la risposta di Hare cerca forse di contrastare sul piano empirico e pratico
delle obiezioni che hanno un carattere teorico, ossia che investono i presupposti della
sua teorie etica: viene infatti messa in discussione la stessa idea della derivabilità
dell’utilitarismo dal prescrittivismo. Si può notare a questo proposito come il
welfarismo ed il consequenzialismo, da Hare ritenuti logicamente derivabili dal
prescrittivismo universale, siano in realtà dei presupposti da lui introdotti in modo
surrettizio per rendere cogente il suo utilitarismo della preferenza: non appare dunque
possibile l’idea di un utilitarismo fondato su presupposti a priori, di carattere logico-
linguistico. È come se il prescrittivismo universale da un lato e l’utilitarismo dall’altro,
rimanessero come due elementi estranei e non interrelati.
Per quanto riguarda il welfarismo, il problema è che, contrariamente alla premessa
empirica assunta da Hare, non sempre agiamo per incrementare il nostro benessere o
quello sociale, ma non è detto che se non facciamo questo, siamo immorali. La morale
di Hare e in genere quelle teorie basate sulla soddisfazione di preferenze razionali,
sembrano essere morali del “tutto o niente”, in quanto o il comportamento è pienamente
morale oppure non lo è, senza considerazione per le situazioni intermedie ed imputando
alla sola debolezza del volere l’azione non in linea con il prescrittivismo. Pertanto, un
conto è sostenere che, a livello metaetico, abbiamo il dovere di enunciare principi
prescrittivi logicamente coerenti, ossia universalizzabili; un altro è invece asserite che, a
livello pratico, le sole preferenze accettabili, quelle che passano il test di
universalizzabilità, sono quelle che incrementano il benessere: quello che ci impone
l’ambito metaetico sussiste indipendentemente da quello che facciamo a livello pratico.
In secondo luogo, non sempre agiamo scegliendo l’atto che produce le conseguenze
migliori, anzi, a volte scegliamo di compiere certe azioni indipendentemente dai loro
effetti, ma solo perché le riteniamo doverose.