stessa. Partendo dall’innegabile presupposto dell’esistenza di una
correlazione tra mente e società, intendo approfondire nel primo
capitolo, alcune ricerche, da quelle comportamentiste a quelle co-
gnitiviste, in netta opposizione tra loro, che hanno cercato di sco-
prire il senso di questo legame al fine di provare a trovare una ri-
sposta al quesito che il titolo stesso di questa tesi accoglie. Appro-
fondirò in seguito le tesi sostenute da tre tra i più grandi studiosi
che hanno affrontato il rapporto tra mente e cultura. Nel secondo
capitolo mi concentrerò su Dan Sperber e dunque
sull’epidemiologia delle rappresentazioni; poche righe per fornire
ai lettori un breve assaggio delle sue tesi. Qual è il meccanismo at-
traverso il quale una rappresentazione mentale si trasforma in rap-
presentazione pubblica? O meglio, come nasce quel complesso di
rappresentazioni e di racconti che siamo soliti raccogliere sotto il
nome di cultura? Per lo scienziato cognitivista Dan Sperber una ri-
sposta a queste domande è nella definizione di epidemiologia delle
rappresentazioni. Sperber ha costruito un concezione materialista
dei fenomeni mentali, un approccio naturalistico alla cultura tale
da spiegare perché alcune rappresentazioni siano più diffuse di al-
tre, siano entrate a far parte del bagaglio culturale dei membri di
una comunità o di un popolo meglio e più rapidamente di altre. Le
rappresentazioni mentali di una popolazione, sostiene Sperber, vi-
vono in un ambiente comune che è costruito dalle produzioni de-
6
gli individui; alcune di queste produzioni sono materiali, come ad
esempio gli edifici, altre sono puramente immateriali, come i di-
scorsi di suoni. Tra le produzioni e le loro rappresentazioni si crea
un complesso rapporto di concatenazione che riproduce le une e
le altre. Guardando al mondo della cultura da questa prospettiva,
sostiene Sperber, appare evidente che le rappresentazioni non pos-
sono nascere soltanto dai processi psichici, né possono avere una
natura esclusivamente ecologica; esse sono il frutto di un rapporto
costante tra i processi mentali e l’ambiente su cui agiscono e che
ha contribuito a produrli. Proprio come gli studi di epidemiologia
medica integrano lo studio dei fenomeni patologici con quello dei
fattori ambientali che contribuiscono alla diffusione di un certo vi-
rus o batterio, allo stesso modo Sperber arriva ad ammettere che le
idee si diffondono per contagio, quasi fossero un’epidemia. Con la
sua epidemiologia delle rappresentazioni lo studioso francese ap-
plica un metodo delle scienze naturali allo studio dei fatti culturali.
La biologia si affianca così, nel lavoro di Sperber, alla psicologia
cognitiva e all’antropologia, fino ad analizzare e studiare la cultura
attraverso le dinamiche dei processi mentali, guardando alle rap-
presentazioni come a concatenazioni ecologiche di fatti psicologi-
ci, cioè rappresentazioni mentali rese sociali dalla loro distribuzio-
ne nella comunità.
7
In seguito, nel terzo capitolo, analizzerò il fenomeno del contagio
sociale dal punto di vista di Richard Dawkins. Egli studia una
nuova disciplina che prenderà il nome di memetica. Il paradigma
della memetica ci fornisce un framework teorico per capire e spiega-
re il fenomeno del contagio sociale osservandolo da un nuovo
punto di vista. Dawkins, ispirandosi al sistema di replicazione dei
geni in biologia, ha utilizzato il termine meme per definire l’unità
di base di replicazione della cultura all’interno della popolazione.
La complessità biologica dell’essere umano è arrivata a produrre
nel corso dell’evoluzione un sistema sociale costituito da relazioni
e significati culturalmente trasmessi. Tramite i memi veniamo con-
tagiati tutti i giorni da nuove idee che diventando parte del nostro
corredo cerebrale attraverso la tessitura di nuove reti di neuroni,
ed entrano a far parte della nostra cultura. Secondo la teoria me-
metica geni e memi operano nello stesso contesto in coevoluzione
ed è possibile che uno dei due influenzi l’altro modificando
l’ambiente a suo vantaggio, come nel caso dell’evoluzione del no-
stro cervello.
Concluderò il mio elaborato soffermandomi su come biologia e
cultura siano inestricabilmente correlate, e come solo uno sguardo
critico che le abbracci entrambe possa permettere una compren-
sione più appropriata della natura umana. A tal proposito appro-
fondirò le tesi sostenute da Richerson e Boyd il cui lavoro ruota
8
attorno a un’idea ben precisa: la co-evoluzione tra geni e cultura. Il
comportamento umano pertanto non può essere ricondotto alla
sola eredità genetica: un bambino nato e cresciuto in uno stato di
isolamento, quindi privato di relazioni umane, non avrà modo di
sviluppare tutte le competenze sociali necessarie a coltivare rela-
zioni con i membri della sua specie. Il corredo genetico senza ere-
dità culturale non permette all’individuo di accedere alle compe-
tenze fondamentali per vivere in una comunità umana. L’individuo
inserito in un contesto sociale deve essere in grado di acquisire i-
struzioni normative e culturali. Tale prospettiva di analisi ha evi-
denziato inoltre come lo sviluppo e l’evoluzione della cultura siano
in gran parte indipendenti dalla biologia, ed abbiano un ruolo spe-
cifico nell’influenzare il comportamento dell’individuo, potendo
essere in relazione di cooperazione o, al contrario, di competizione
con le leggi dell’evoluzione biologica. Ad esempio, la scelta di con-
sacrare la propria vita al sacerdozio e alla castità è guidata da
un’istruzione culturale che si contrappone alla sopravvivenza e ri-
produzione della specie; le guerre di religione portano allo stermi-
nio e alla morte biologica di intere popolazioni per motivi cultura-
li.
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Capitolo primo
L’antipsicologismo delle scienze sociali
1.1 Premessa
Un dilemma ricorrente nello studio della natura umana è quello le-
gato al peso dei fattori ereditari, biologici e ambientali all’interno
del comportamento umano. Il modello classico a cui
l’antropologia, la filosofia e la linguistica del secolo scorso hanno
prestato fede, riflette l’orientamento per cui la mente umana non
sarebbe altro che il riflesso della vita sociale degli individui. Con-
seguenza di tale prospettiva risulta quindi il riconoscimento del
primato e dell’autonomia dei fattori esterni, quelli socio-culturali,
sui fattori interni, quelli bio-fisici. Attraverso queste considerazioni
ha preso forma l’idea di una mente che si determina attraverso un
processo di “internalizzazione” dei fattori esterni che va ovvia-
mente dall’esterno verso l’interno. Secondo questa teoria il fatto
sociale risulta essere assolutamente autonomo dalla natura umana:
da ciò dipende la concezione di un individuo prodotto stesso dei
10
fattori esterni (socio-culturali); dunque la biologia è solo un aspet-
to marginale della sua natura. Da queste considerazioni si sviluppa
una sorta di “antipsicologismo” delle scienze sociali che vede la
mente umana come un semplice ricettacolo in cui entrano ed e-
scono rappresentazioni culturali, trascurando però ciò che real-
mente accade all’interno delle menti individuali.
1.2 Una tesi dualistica: tra individuo e società
La sociologia, che si occupa del comportamento umano, ha per
molto tempo considerato come data la natura dell’uomo. Espo-
nente massimo di questa scienza è Durkheim, uno dei padri della
sociologia, che parte da una netta visione separatista tra psicologia
(studio delle rappresentazioni individuali) e sociologia (studio delle
rappresentazioni collettive) e che, attraverso le sue riflessioni, ci
permette di comprendere il senso dell’ipotesi del diffondersi della
società sulle menti individuali. Durkheim prese in esame le modali-
tà attraverso le quali sarebbero le condizioni sociali a modellare la
psiche umana. Egli sottolinea l’esistenza di un’impalcatura di tradi-
zioni e pratiche, i cosiddetti “fatti sociali” che, pur essendo opera
dell’azione umana, precedono l’esistenza di ogni singolo individuo,
del quale forgiano quindi la personalità e conseguentemente la na-
tura stessa. I fatti sociali sarebbero perciò irriducibili ai fatti psico-
11
logici e biologici. Essi infatti consistono in modi di fare o di pen-
sare riconoscibili dal fatto che sono in grado di esercitare
un’influenza coercitiva sulle coscienze individuali e, di conseguen-
za, sono molto lontani dall’essere riconducibili a una realtà appar-
tenente alla coscienza individuale. Per questo motivo, secondo lo
studioso, bisogna guardarsi dallo spiegare i fatti sociali come frutto
dei fatti psichici degli individui. Anzi, nella maggior parte dei casi i
fatti psichici sono il “prolungamento” di fatti sociali all’interno
della coscienza. Tutto ciò implica che non si deve esaminare la
struttura della psiche o le relazioni fra gli individui per capire quali
forze leghino quest’ultimi alla società. Occorre invece esaminare le
forme di organizzazione sociale in cui gli individui sono nati e le
istituzioni dove essi operano. Durkheim analizza come in passato
si fosse costituita una psicologia oggettiva la cui regola fondamen-
tale era lo studio dei fatti mentali considerati dal di fuori, intesi
quindi come cose. Attraverso questa definizione lo studioso vuol
mettere in evidenza che essi sono elementi che si contrappongono
e impongono all’individuo senza possibilità di mutamenti. Per fat-
to sociale deve intendersi nello specifico ogni modo più o meno
definito dell’agire in grado di costringere socialmente l’individuo: è
ciò che l’individuo riceve come essere sociale quindi, ad esempio,
l’educazione, il linguaggio, la legge, etc.; è un modo di agire e di
pensare esterno all’individuo dotato di potere coercitivo e impera-
12
tivo in virtù del quale si impone all’individuo con o senza consen-
so. Partendo da questo presupposto la nostra coscienza dovrebbe
essere tanto competente nel conoscere la propria vita quanto nel
conoscere i fatti sociali. Per lo studioso la maggior parte delle isti-
tuzioni sociali ci vengono trasmesse già costituite dalle passate ge-
nerazioni per cui, non avendo noi partecipato alla loro formazio-
ne, è impossibile scoprire le cause che ne hanno dato origine inter-
rogando noi stessi. Questa posizione si pone evidentemente
all’opposto di una concezione per cui i fatti sociali sono opera no-
stra, per cui basterebbe divenire coscienti di noi stessi per sapere
da cosa sono caratterizzati e come li abbiamo formati. Secondo
Durkheim anche nel momento in cui avessimo collaborato alla ge-
nesi di tali fatti riusciremmo solo a intravedere, in maniera anche
piuttosto confusa e in certi casi inesatta, le motivazioni reali che ci
hanno spinto ad agire e la vera natura della nostra azione. Per il
sociologo la società e i fenomeni ad essa connessi sono, come ab-
biamo appena osservato, esterni agli individui e riflettono quindi
un carattere specifico. I fatti sociali si distinguerebbero quindi dai
fatti psichici poiché hanno un altro sub-strato, non si sviluppano
nello stesso ambiente e non dipendono dalle stesse condizioni. Gli
stati della coscienza collettiva hanno una natura differente da quel-
la degli stati della coscienza individuale; la mentalità dei gruppi non
è quella dei singoli e ha leggi soltanto sue. Durkheim si oppone
13
dunque molto duramente a una spiegazione della materia della vita
sociale in base a fattori puramente biologici. I fattori sociali sono
esterni alle coscienze individuali e indipendenti dagli individui. La
spiegazione di ciò risiede nel fatto che se le rappresentazioni col-
lettive sono esterne alle coscienze individuali allora esse non deri-
vano dagli individui presi singolarmente ma dalla loro cooperazio-
ne. Il fenomeno sociale non dipenderebbe dalla natura personale
degli individui poiché nella fusione dei caratteri di tali individui es-
si si neutralizzerebbero e si opprimerebbero reciprocamente. Le
proprietà più generali della natura umana invece sopravvivono e
proprio a causa della loro generalità esse non possono rendere
conto delle forme specifiche e complesse che caratterizzano i fatti
collettivi. La riflessione di Durkheim dunque, si sforza con insi-
stenza di distinguere la sociologia dalla psicologia individuale. Lo
studioso si scaglia contro le linee di pensiero che rifiutano di con-
siderare i fatti sociali al di fuori della natura e che pensano che la
società di per sé non sia nulla, considerando di conseguenza la so-
ciologia nient’altro che una psicologia applicata. La tesi dualistica
che emerge da queste riflessioni ha come premessa la convinzione
della natura plastica e indeterminata degli esseri umani e riflette
uno stretto legame con la tesi della “unidirezionalità” del percorso
di costituzione della natura umana. Gli studiosi Tooby e Cosmides
fanno riferimento a questa tesi come al “Metodo standard delle
14
scienze sociali” (MSSS). Secondo questo metodo il percorso di co-
stituzione della natura umana va verso un unico senso quello che
procede dall’esterno verso l’interno: le entità culturali e sociali che
formano l’individuo “precedono l’individuo e sono esterne ad es-
so. La mente non le crea, sono esse che creano la mente” (Tooby-
Cosmides, 1992, p. 26). Gli esseri umani sono immersi fin dalla
nascita nella cultura. La cultura si imprime sul supporto cognitivo
degli individui determinando il loro modo di pensare. Altro aspet-
to molto importante riguarda l’idea della sostanziale plasticità
dell’individuo a cui è associata una determinata idea della mente
umana. Il modello di mente che ne emerge consiste in una serie di
abilità indifferenziate il funzionamento delle quali viene dato in
termini di meccanismi associativi universali. Un’altra importante
figura che sottolinea la dicotomia tra individuo e società è George
Herbert Mead per cui il sociale risulterebbe come l’elemento che
costituisce la mente: non si trova dentro la testa degli individui,
non è presente dalla nascita, ma si forma proprio a partire da po-
tenzialità biologiche, da reti di relazioni, ruoli e posizioni recipro-
che tramite cui gli individui interagiscono in forma simbolica.
L’idea che il sociale si imponga sullo psichico sembra quindi essere
il cardine del modello classico precedentemente citato e la base
delle indagini sul rapporto tra mente e società, per cui l’essere u-
mano risulterebbe indeterminato e non libero. Le nature indivi-
15
duali rappresentano quindi solo “la materia indeterminata che il
fattore sociale determina e trasforma”
1
. Il MSSS considera la cultu-
ra presupposta. Tale ipotesi riflette dunque una precisa idea della
mente e, più in generale, della natura umana di cui ora ci occupe-
remo.
1.3 La natura plastica della mente
La tesi della natura plastica e indeterminata degli esseri umani ha
avuto forti riscontri nella psicologia di buona parte del novecento.
Gli sviluppi degli orientamenti psicologici che da tale tesi si sono
sviluppati hanno a loro volta influenzato, come appare evidente
dalle riflessioni riportate in precedenza, l’antropologia e la sociolo-
gia. Nello specifico la tesi psicologica più estrema e più vicina a
una visione completamente malleabile della mente è quella della
mente considerata come una “tabula rasa”. Secondo la tradizione
che risale all’empirismo del XVII sec. ma che è molto difficile at-
tribuire a un unico e preciso studioso, la mente umana alla nascita
sarebbe una lavagna vuota sulla quale la società e l’ambiente scri-
verebbero tutto quello che è dato di leggervi: di fatto questo vuol
dire che scelte, visioni del mondo e comportamenti verrebbero
condizionati. La mente umana nascerebbe quindi vuota, priva di
1
Durkheim, E. (1996), Le regole del metodo sociologico , p. 103.
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